Un furto di bestiame. I Morano ed il tentativo del conte Andrea Caraffa di impadronirsi del feudo di Cotronei

Cotronei (KR).

Un furto di bestiame

Il 14 dicembre 1727 in Crotone, si presenta dal notaio Pelio Tirioli il custode d’armenti Carlo Rosso, figlio di Giacomo ed abitante a Pietrafitta. Il Rosso vuole rilasciare una dichiarazione con la quale tenta di allontanare da sé il sospetto di essere implicato in un furto di bestiame, avvenuto a danno del possidente crotonese Tommaso Sculco.

Il custode d’armenti, pur facendo presente di essere venuto casualmente a conoscenza del fatto delittuoso, testimonia la sua estraneità, anzi, a sostegno della sua buona fede, afferma che più volte allontanò dalla sua compagnia il reo. Egli fornisce le prove della sua innocenza con una versione minuziosa sullo svolgimento dell’evento. Attraverso il suo racconto possiamo intravedere i legami economici che, nella prima metà del Settecento, esistevano tra gli abitanti di Cotronei, e quelli dei casali silani e della marina.

Allora la popolazione di Cotronei era dedita in prevalenza al lavoro dei campi. Primeggiava la coltura granaria, anche se non mancavano altre coltivazioni, come l’olivicoltura, il lino, la vigna, ecc. I braccianti e i massari rappresentavano circa i due terzi della popolazione attiva; una quota consistente ma di molto inferiore a quella degli abitati del piano, dove queste due figure superavano anche i tre quarti della popolazione. La particolare posizione dell’abitato di Cotronei, situato alle falde della Sila e luogo di sosta e transito delle mandrie nelle loro stagionali transumanze, trovava riscontro nella formazione di un consistente ceto locale composto da capimandra e custodi d’armenti. Questo ceto nei primi decenni del Settecento era aumentato con il crescere delle mandrie. Alla metà del Settecento, oltre a costituire un quinto della popolazione attiva, poteva contare su legami sociali ed economici sia con gli abitanti dei paesi del piano, che con i mandriani dei casali cosentini. La popolazione rimanente era composta da due ristretti gruppi: quello dei privilegiati, metà piccoli proprietari e metà ecclesiastici, e quello degli artigiani, composto da uno scarparo, alcuni fabbricatori, un barbiero, un forgiaro e dei vaticali.

Il racconto

Carlo Rosso narra che, dovendosi recare per sbrigare alcuni affari a Pietrafitta, alla fine del mese di novembre partì a cavallo da Papanice, assieme ai suoi due compaesani: Nicola Pico e Ventura Russo. Arrivata la comitiva alla gabella detta “Crucelle”, Nicola Pico, dopo aver dato in consegna il suo cavallo a Ventura Russo, invitò i suoi compagni di viaggio a proseguire e ad attenderlo in località “le Vigne di Niffi”; egli doveva recarsi nelle terre dette “Pantano”, dove aveva un appuntamento con un tale di nome Giovanni Romano. Così, mentre il Pico si incamminava verso Pantano, il Rosso ed il Russo cavalcavano alla volta delle vigne di Niffi e, giuntivi, come da accordo sostarono in attesa del compagno. Il Pico non si fece attendere molto e si unì nuovamente ai compagni, portando con sé una giumenta ed una stacca. Chiesto il nome del proprietario dei due animali, il Pico rispose che glieli aveva consegnati il Romano, per portarli “ad uno di casa Bisulca delli Cotronei”.

I tre ripresero il viaggio. Arrivati a Cotronei il Pico, tuttavia, non consegnò ad alcuno i due animali ma, ripreso il viaggio per la Sila, se li portò con sé. Ad un suo compagno, che gli chiedeva spiegazioni, così rispose: “Tu vuoi sapere assai, questa giumenta e stacca sono di uno che mi ha fatto un dispetto et io per questo me l’ho pigliato”. I tre erano ormai giunti sopra Cotronei e reso evidente il furto, per non divenire complici, il Pico fu invitato ad allontanarsi ed ognuno andò per la sua strada. Mentre sostavano nel luogo detto “Caporosa” dentro la Sila, Carlo Rosso e Ventura Russo videro che stava per arrivare in quel luogo anche Nicola Pico, il quale era solo con i due animali rubati. Come egli si avvicinò, essi lo cacciarono, dicendogli che se ne andasse per un’altra strada, che con lui non volevano averci niente a che fare. Così ognuno andò per strade diverse. Arrivati a Pietrafitta, essi in seguito seppero che anche il Pico nella stessa nottata vi era giunto, portandosi la giumenta e la stacca.

Sbrigati i suoi affari, dopo alcuni giorni Carlo Rosso lasciò Pietrafitta per recarsi nuovamente a Papanice. Prima però di arrivarvi fu fermato nella “Valle di Marguleo” da Mico Barbiero, il quale gli chiese se il Pico gli avesse mandato per suo tramite la giumenta e la stacca, animali che il reo aveva portato con sé quando se ne era andato via. Gli animali appartenevano a Matteo di Taverna, guardiano di Tommaso Sculco. La stessa domanda gli fu rivolta da molte altre persone di Papanice ed a queste egli aveva dovuto rispondere in maniera evasiva. Poiché molti sospettavano, che egli fosse implicato nel furto, il Rosso pensò bene di recarsi a Crotone dove in presenza di testimoni dichiarò la sua estraneità al fatto.[i]

I Morano ed il tentativo del conte Andrea Caraffa di impadronirsi del feudo di Cotronei

Il Mannarino nella sua “Cronica”, afferma che Cotronei era un casale della città di Policastro, e che fu la stessa città ad investirne “sol per due generazioni di padre e figlio la famiglia Morana”, riservandosi “oltre l’omaggio ed annuo tributo d’un falcone, con altre ragioni di vera sovranità anche le prime cause e le seconde così civili come criminali e miste in grado d’appellazione in seconda instanza”. Lo stesso cronista riporta le “Famiglie nobili di Policastro descritte da Giacomo Vicedomini nell’anno 1538”, dove si afferma che la famiglia Morano dei baroni di Cotronei era oriunda di Policastro, come provava il fatto che il primo barone Scipione Morano in una iscrizione marmorea, situata nel palazzo di Cotronei, è chiamato “Petilianus”.[ii]

Per il Della Marra il primo barone di Cotronei fu Nicolò Morano, al quale seguì il figlio Gregorio ed a questi il figlio Teseo, il quale risulterebbe già defunto nel dicembre 1444. Seguì poi Ioannetto o Giannotto Morano, che nacque in Catanzaro dal nobile Teseo, dal quale ereditò nel 1456 (?) il feudo di Cotronei. Secondo un racconto leggendario Giannotto costrinse Antonio Centelles, che gli aveva ucciso il padre, a sposare la sorella Constanza, che diverrà principessa di Santa Severina. Antonio Centelles, divenuto nel 1464 principe di Santa Severina, rimasto vedovo per morte avvenuta nel 1462 (?) di Errichetta Ruffo, effettivamente sposò la Morano, che divenne principessa di Santa Severina; titolo che mantenne fino alla cattura del marchese avvenuta all’inizio nel 1466. Tuttavia, il padre Teseo, secondo le testimonianze sopra citate, era già morto da diversi anni.

Così viene raccontato il fatto: “È ben vero che dice il Duca della Guardia nel discorso della famiglia Morano, che il Marchese Antonio hebbe per seconda moglie Constanza Morano, figliuola di Teseo Morano, Barone delli Cotronei e di Melissa, perche morta al Marchese Antonio Errichetta Ruffa prese Constanza Morano intitolandola Principessa di Santa Severina, e che costei più fortunata in acquistare la grandezza, che in conservarla, ne fu degradata dal re Ferdinando a cui fu ribelle e che hebbe per benignità di quel re la terra di Simari per la sua vita dicendo di più lo stesso Duca della Guardia, che arrivò questa Signora a nozze così grandi, perche essendo stato autore Teseo suo padre, che Errichetta Ruffa Marchesa di Cotrone ricusando il matrimonio dell’Avolos si maritasse a D. Antonio Centelles venuto costui dopo la morte della Marchesa in campagna con occasione della caccia a differenze con Teseo, come che i grandi beneficii si sogliono con grande ingratitudine sodisfare a cavallo, come erano, mise il Marchese mano ad una pistola, e con quella Teseo uccise, la qual offesa volendo vendicare Giannotto Morano suo figliuolo, con una grande compagnia d’Albanesi a cavallo perseguitò talmente al Marchese, che per togliersi da tale inimicitia gli parve anche per sicurezza della pace di ricercargli, e senza dote Constanza la sorella per moglie”.[iii]

“Nel 1460 Ioannetto Morano fu ribelle a re Ferdinando e militò da capitano di gente d’arme fra le soldatesche del principe di Rossano. Ritornato in fede del re divenne regio consigliere. Nella guerra dei Baroni seguì con sei cavalli il principe Federico (1486). Ebbe litigi con fra Luise Carafa, fratello di Andrea Carrafa, per possesso di Cotronei (1498), e con altri pel dubbio se alcuni suoi feudi gli fossero stati conferiti dalla Regia Corte, dal conte di Catanzaro, o dal Principe di Santa Severina.”[iv] Seguì il nipote Lucantonio Morano, il quale ebbe conferma del feudo di Cotronei con privilegi del re Cattolico (1507) e dell’imperatore Carlo V (1518). Lucantonio Morano sposò Nicola Lucifera e morì nel 1522. Il feudo passerà al figlio Giovanfrancesco Morano.

Durante il periodo in cui Cotronei fu feudo di Lucantonio Morano, il conte Andrea Caraffa cercò di impadronirsene, tentando di integrare il feudo di Cotronei come parte di quello di Policastro. Nell’inventario fatto fare dal conte di Santa Severina nel 1520, in virtù di privilegio reale, per atto redatto dal notaio Paolo Spolentino, così è descritto il feudo di Cotronei che doveva essere integrato alla curia della terra di Policastro: “In primis feudum Crotoneorum situm et positum in territorio praedicto cum vassallis Graecis, et omnibus vassallorum redditibus, gabellis, censibus aliisq. Iuribus ad dictum feudum spectantibus et pertinentibus “. I confini erano così descritti: “incipiendo a septentrioni à loco ditto Ponte Veteri et vadit ad flumen Neheti et cursus tenendo ponit ad flumen Ampolini à p.te Gireae et ferit ad collem Sariae ab occidente et viam publicam et descendit et ferit ad serram de sprolvario et … feudi de Rivioti in p.e meridie et vadit ad vallonem turbidum et ferit ad collem Grotti et concludit ad dictum locum de Ponte Veteri”.

Il tentativo di Andrea Caraffa non ebbe successo. Il conte morì nel 1526 e gli successe il nipote Galeotto Caraffa, il quale diverrà addirittura debitore dei baroni di Cotronei. Infatti, il 15 dicembre 1536, Galeotto Caraffa affermava che era debitore di Nicola Lucifera, vedova del barone di Cotronei in ducati 500, per i quali negli anni precedenti le aveva venduto annui ducati 50 sopra la mastrodattia della terra di Cutro. La vendita, tuttavia, non era risultata valida, in quanto non aveva avuto il regio assenso. Perciò il conte aveva dovuto vendere a Nicola Lucifera per il debito di detti ducati 500, una rendita di annui ducati 50 sopra la bagliva di Santa Severina, con il patto di retrovendendo quandocumque.[v] Nicola Lucifera vedova di Lucantonio Morano, era ancora in vita nell’ottobre 1578 ed abitava a Crotone.[vi]

Note

[i] ASCZ, Busta 662, anno 1727, ff. 143v-145.

[ii] Mannarino F. A., Cronica della celebre ed antica Petilia detta oggi Policastro, manoscritto, ff. 35v, 98.

[iii] BNN, m.s X, A, 8, ff. 210v-211.

[iv] Capialbi H., Instructionum Regis Ferdinandi Primi Liber, in Arch. Stor. Cal., 1916, p. 266.

[v] ASN, Ref. Quint. Vol. 207, ff. 78-122.

[vi] ASCZ, Busta 15, anno 1578, f. 357.


Creato il 13 Marzo 2015. Ultima modifica: 9 Luglio 2024.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

*