Pecorai e greggi tra le montagne della Sila di Cosenza e le marine del Marchesato di Crotone
“Piecura nivura e piecura janca: chi mori mori, e chi campa campa.”[i] Considerati uomini rozzi e fatalisti d’indole “balorda” e di costumi “brutali”,[ii] ancora alle soglie della modernità, come un tempo, i pecorai continuavano a condurre la loro esistenza solitaria al seguito delle greggi “nelle lande Silane”, dove, abbigliati con il “vello” dei loro animali, ricordavano i fauni che popolavano i boschi degli antichi miti.
Armati dell’inseparabile “scure”, ma anche “di ogne sorte d’arme” per affrontare le asprezze e i mille pericoli della “montagna”,[iii] dove trascorrevano tutta l’estate, i “Cosentini”, “li quali sono huomini terribili”,[iv] “calavano” alla “marine” crotonesi da tempo immemorabile al termine di questa stagione, come troviamo già negli Εἰδύλλια di Teocrito (sec. IV-III a.C.), soggiornando in pianura, senza alcuna interruzione, circa sei mesi lontano dalle proprie case poste nei “Casali de Cosenza”, che così rimanevano del tutto spopolati durante l’inverno.[v] Una condizione che, come testimoniano i protocolli dei notari delle terre del Marchesato di Crotone, dove li ritroviamo spesso insediati, sia stabilmente che in qualità di “habitanti”, consolidò forti legami tra le popolazioni del Crotonese e questi “Cosentini” durante tutta la storia antica e moderna, troncati solo con l’abbandono di tale nomadismo dopo l’ultima guerra.
Il tempo e la storia
Durante il Medioevo e oltre, come ancora oggi rimane in uso nel nostro Paese, l’annata agraria nell’Italia meridionale iniziava il primo giorno del mese di settembre, con l’inizio della indizione greca o costantinopolitana: una numerazione ciclica di periodi di 15 anni aggiunta a quella dell’anno solare che, prima, fu conteggiato dalla data di creazione del mondo, fissata il 1° settembre 5509 a. C. e successivamente, dalla Natività di Cristo.
Nel Crotonese segnava questo tempo iniziale del ciclo agricolo-pastorale, la festa della Natività della Vergine (8 settembre), giorno in cui, presso l’abazia omonima esistente in territorio di Roccabernarda, cominciava la fiera o foro “de Mulerà” (“Mulirau”), luogo d’incontro e di scambio dove concorrevano gli abitanti del “Marchesato” e i loro vicini dei “Casali” silani,[vi] posto circa a metà strada del tradizionale percorso della transumanza che le greggi compivano tra le pianure del Crotonese e le montagne della Sila.[vii]
L’occasione, infatti, coincideva con un periodo cruciale per l’economia di questi due comprensori: l’avvio delle operazioni di messa a coltura dei terreni per la semina dei cereali autunno-vernini, e l’inizio del rientro delle greggi dai pascoli dell’alpeggio sull’altopiano. Cadendo nel momento in cui maturavano una parte importante dei prodotti della pastorizia, mentre era necessario investire le anticipazioni per avviare le principali colture, e potendosi quindi giovare di una certa circolazione di liquidità, questa festa rappresentava il momento più favorevole prescelto per la scadenza dei contratti, per effettuare i pagamenti relativi ai fitti dei terreni, a vendite, prestiti, consegna di doti e, più in generale, per onorare i propri impegni e per concludere i propri affari.
I “frutti” delle mandrie
Tra le merci che giungevano nella fiera di Mulerà, luogo in cui si realizzava la principale compra-vendita di bestiame del territorio crotonese, ma in cui si potevano acquistare anche merci difficilmente reperibili in loco, provenienti da luoghi lontani,[viii] un ruolo importante avevano i “frutti” delle greggi[ix] che avevano stazionato in Sila per tutta l’estate, e si apprestavano a “calare”, per occupare la loro “statio” di pianura con l’inizio della “stagione” autunnale:[x] ovvero le “pezze” di “caso pecorino” e le “ricotte” prodotte con il latte delle pecore, la lana ottenuta con la loro tosa di settembre (“la settembrina”),[xi] e gli agnelli nati dal primo dei loro due parti annuali.
Considerato infatti, che la gravidanza delle pecore dura 5 mesi (gli animali potevano “impregnari vel concipere” dopo i 19 mesi fino all’età di 7-8 anni), ogni gregge forniva gli agnelli due volte nell’arco di un anno:[xii] una prima volta nell’estate, durante l’alpeggio, e una seconda volta tra ottobre e gennaio,[xiii] quando gli animali si trovavano alla marina. I primi erano detti agnelli “promentii” o “promentivi”, i secondi “posterii”, ovvero “posterari”.[xiv]
Per quanto riguarda, invece, i latticini che si producevano durante il periodo in cui gli animali stazionavano nella “montagna” silana, riportiamo quanto riferisce Parise Puglise “de Casali Cellariorum”, pertinenza della città di Cosenza, in un atto del 17 aprile 1596 stipulato in Santa Severina:
“… come nelle montagne di Mesoraca et proprio dove se dice la montagna di Giove, di lo Ceraso, et la luta, da tre anni in qua come entra il mese di magio ogne anno ci pasculano le pecore di Petro puglise dele Cellara et sono dette pecore state al num.o di quattrocento in circa poco più, o manco et in dette montagne ci hanno pascolato et pernottato stazziyando dallo detto tempo di magio insino che è tempo di calar alla marina, quando calano l’altre pecore delle altre montagne, et per lo tempo che ci sonno state ci hanno fatto robba, caso et ricotte, et per quanto io giudico ci lanno fatto robba da dui mesi e mezo, o tre mesi, et li pecorari et fattori di dette pecore ci hanno purchiato in dette montagne tutti l’auni prumentii et questo è stato dall’anno 1593 in qua.”[xv]
I prezzi spuntati da questa “robba” in occasione della fiera di Mulerà, sono così riassunti da una memoria cinquecentesca: “come è vero che si ben li Agnelli, caso, et ricotte, à tempo che se riceveno dalle mandre vagliono alla rag.ne de carlini sei come sono stati liquidati, tutta volta mentre l’havesse tenuti secondo il solito insino al mese di 7bre, et 8bre et insino alla fera di Molerà, nella quale si sogliono venderi, l’havria ven.ti cio è l’Agnelli alla rag.ne de Carlini dieci, et il caso alla rag.ne di gr(ana) 15 et le ricotte alla rag.ne di gr(ana) cinque.”[xvi]
Uomini e animali
Considerati un capitale di valore, sicuro e redditizio, generalmente, il padrone del gregge gestiva i propri animali servendosi di uomini fidati[xvii] dei Casali di Cosenza detti “capimandra”,[xviii] che avevano il compito di accudirli durante tutto l’anno, e di provvederli a proprie spese, per tutto il periodo in cui si trovavano in Sila.
Tale “servimento” consisteva nel pagamento dei fitti e dei diritti riguardanti il pascolo delle “defense” silane, nell’assumere i pecorai e nel fornire loro le anticipazioni usualmente pattuite in tali circostanze: grano, scarpe e tutto il necessario per il trasporto (muli, buoi, cavalli). Quando, invece, le greggi ritornavano “alla marina”, dopo la “calata”, la retribuzione dei pecorai e l’affitto dei pascoli nei “corsi”, risultavano a carico del padrone “poichè alla marina è obbligato il padrone a soccorrere i pecorai”.[xix]
Da notizie medievali, sappiamo che mille pecore abbisognavano di 5 pecorai (“custodes”), mentre un sesto uomo ricopriva mansioni di casaro (“pro custodiendo reditu”).[xx] Sappiamo inoltre che, a ogni cento pecore, in genere, si univano 16 capre e 5 arieti “pro stallonibus”,[xxi] e che i pecorari, usualmente, tenevano nella “mandra” un certo numero di porci per loro comodo, che nutrivano con il siero residuo della lavorazione del latte.[xxii]
Tra la metà del Duecento e gli inizi del Trecento, il valore di 100 pecore si aggirava tra 6 e 8 oncie, mentre quello di 100 capre era un po’ inferiore. Un ariete oppure un caprone (“ircorum”), erano valutati dieci tareni (1 oncia = 30 tareni).[xxiii]
Verso la fine del Cinquecento il prezzo delle pecore comprensivo di quello dei cani pastore necessari alla loro guardia, è descritto nei dettagli in un atto stipulato il 4 giugno 1586, “apud castrum t(er)rae mesuracae”.
Quel giorno, davanti al notaro si costituiva l’Ill.mo domino Gabriele Longo “de civitate palme”, “generalis gubernator t(er)rae mesuracae” nonché procuratore dell’Ill.mo Roberto Altemps, “ducis galesii marchionis suriani et utilis d(omi)ni t(er)rae mesuracae”, mentre dall’altra, si costituiva il mag.co Berardino Lopes de Figline, pertinenza della città di Cosenza.
Il detto Berardino, per il prezzo di ducati 1513 e grana 5, alla ragione di carlini 10 e ½ per capo, vendeva al detto Gabriele, 1441 “oves”, ovvero “oves lanute cum Canibus”, così descritte: “oves grossas seu magnas” numero capi 843, “oves stirpas” numero capi 190, “agnos premintios seu magnos” numero capi 284 e “aunos posteraros” numero capi 168, questi ultimi calcolati per metà, che facevano la somma di 84 capi. Altre 40 “oves magnas”, invece, erano già state consegnate “in ovile ditto umbro de man(n)o” posto in territorio di Roccabernarda, al m.co ex.ti domino Petro Ant.o Longo ed al mag.co Curcio Zinnino, rispettivamente padre ed erario del detto Gabriele.[xxiv]
L’uso di vendere le pecore con tutti i cani pastore che vivevano assieme al gregge è testimoniato anche da altri atti, mentre i prezzi variavano in funzione della stima del valore stabilito sulla base delle condizioni degli animali.[xxv] L’otto settembre 1658, “in foro Mulerà”, Achille Cundaro di Figline, vendeva al clerico Lutio Oliverio di Cutro, 600 “Pecore et tre cani buone Mercate a tutte due l’orecchie del Merco di d.o Achille con una croce nella fronte” (alle orecchie si segnavano anche le capre),[xxvi] alla ragione di carlini 7 e grana 3 a capo, per la somma di ducati 440 e tari 1.[xxvii] Prezzi simili, o poco più bassi, riuscivano a spuntare le capre,[xxviii] tanto è vero che non mancano casi in cui risultano vendute cumulativamente con le pecore.[xxix]
Pascolo e semina
Al fine di assicurare il pascolo del bestiame sia dei cittadini che dei forestieri, ed in relazione all’esigenza di garantire la coltivazione cerealicola senza pregiudicare la fertilità dei terreni che, nell’impossibilità di fornire un’adeguata concimazione, sarebbe velocemente decaduta, fin dall’epoca medievale, le terre del Marchesato di Crotone furono utilizzate alternativamente per tre anni a semina e per tre anni a pascolo,[xxx] in maniera da ripristinare periodicamente la loro fertilità depauperata dai cereali, attraverso la letamazione fornita dagli animali.
Per potersi attuare questo ciclo, “il territorio” appartenente a ciascuna “terra”, sul quale gravavano gli usi dei cittadini, risultava suddiviso “in tanti Cursi”, ciascuno dei quali era costituito da un certo numero di “gabelle”.
Le antiche consuetudini che regolavano l’uso della terra, prevedevano che, durante il triennio di semina, il padrone del corso non percepisse nulla, mentre i padroni delle gabelle potevano seminarle o esigerne l’affitto (“terraggio”). Quando invece giungeva il triennio a pascolo, oppure quando le gabelle rimanevano “inculte” durante le annate di semina, il diritto di “vender l’herbaggio”, ossia di affittarle ad uso pascolativo “a pecore”, rimaneva una esclusività del padrone del corso, che deteneva anche il diritto di riservarsene una parte (“prato de auni”)[xxxi] per pascere i propri agnelli (commisurato al loro numero), che si considerava “camera chiusa insin’alli otto d’Aprile”.
A partire da questo giorno, infatti, ogni corso veniva “sbarrato” all’ingresso dei forestieri, divenendo cioè “libero, et commune” a tutti i cittadini,[xxxii] che così, esercitando i loro usi civici, vi potevano pascolare i propri animali per lo spazio di cinque mesi esatti, “insino alla Fiera di Molerà” (8 di settembre), senza dover sopportare alcun pagamento,[xxxiii] come riferiscono i documenti[xxxiv] tra cui spiccano, ad esempio, le “Costituzioni” della città e dello stato di Santa Severina: “Item supp.no se digne confermare et q.nus opus est de novo concedere ad d.a Un.tà et homini de q.ella la consuetudine, et solito, che antiquam.e ave observato omne anno in li 8 d’aprile liberare, et sbarrare li prati de li agni et etia de possere pascere con loro bestiami dove passa la pecora de li fidatori in quocumq.e tempore anni et in quocumq.e loco.”[xxxv]
Un inverno più difficile
Anche se le greggi trascorrevano la stagione invernale nelle marine, dove gli animali trovavano quanto serviva per il loro sostentamento, ciò non le metteva completamente al riparo dai rigori di questa stagione che, in annate più particolari, anche in pianura, poteva ricoprire l’erba con la sua coltre di neve, determinando così la morte per fame degli animali, che non potevano permettersi di rimanere privi del loro pascolo anche solo per brevi periodi di pochi giorni.
Infatti, a causa “delle Nevi cascate in questo caduto mese” di gennaio 1761, nella “Mandra” “piantata nella mettà delle Terre d.e Ritani”, presso la città di Isola, Giuseppe Le Pera di “Aprigliano Curto”, pertinenza della città di Cosenza, aveva perso 250 “pecore grosse” figliate, 28 “stirpe e 440 agnelli, mentre le pecore sopravvissute erano rimaste così “patite in forma che non hanno possuto dare frutto simile” durante la successiva primavera.[xxxvi]
Il giorno della Candelora
Secondo la tradizione appartenente al mondo pastorale calabrese, un importante riferimento relativo alla durata della difficile stagione invernale, ed ai suoi risvolti più o meno inclementi sulle fortune dei pecorai, poteva essere stabilito a partire dal giorno della Candelora: festa di antica origine, che ricorre attualmente il 2 di febbraio, quaranta giorni dopo il Natale, anche se, nel passato, si festeggiava il 14 di questo mese, quaranta giorni dopo l’Epifania.
L’esperienza comune stabiliva che, il termine dell’inverno, rimanesse individuato trascorsi quaranta giorni da questa data, come si tramanda attraverso l’episodio che ha per protagonista l’orso (secondo altre versioni il leone, o la vecchia), il quale, all’affermazione “Candelora a vernata è fora” (giustificata evidentemente da una delle prime giornate di sole), abbandonato il letargo ed uscito dalla propria tana, risponde: “Chiovi o nun’chiovi, quaranta juorni ci su ancora”.
Secondo quanto riporta invece a proposito Vincenzo Padula, e come sottintende anche l’antico detto “Candelora, Candelora, simu dintra o simu fora ?”, se nel giorno della Candelora fosse piovuto o nevicato, voleva dire che ci sarebbero stati solo altri quaranta giorni d’inverno e non più, mentre, nel caso questa giornata fosse stata contraddistinta dal sole, significava, invece, che bisognava attendersi un inverno più lungo accompagnato da nubifragi,[xxxvii] eventi particolarmente temuti dai pecorai
I quaranta giorni dopo la festività della Candelora cadevano infatti nella seconda metà di marzo, quando i temporali forti e improvvisi, ricorrenti in questo periodo, potevano mettere a serio rischio la vita degli uomini e degli animali,[xxxviii] come recita questa vecchia rima: “U pecuraru è statu vistu a Pasqua / quannu si mangia la ricotta frisca; / ma nun è statu vistu u misi e marzu / quannu jestima li Santi de Cristu.”[xxxix]
I padroni del tempo e dello spazio
La tradizionale instabilità del mese di marzo, particolarmente incerto e temibile agli inizi della primavera che, in molti casi, si rivelava, invece, una pericolosissima coda dell’inverno, è rappresentata dall’antico racconto di marzo e il pecoraio, che ho appreso da mia madre quando ero bambino.
La “favoletta” riferisce che marzo, infido e cattivo[xl] che, con i suoi nubifragi, aveva fatto annegare persino sua madre mentre lavava i panni nel fiume, volendo “gabbare” il pecoraio e uccidergli le pecore, aveva inutilmente cercato di sapere da lui, il luogo in cui si sarebbe recato l’indomani a pascolare. Il furbo pecoraio, però, capendo le reali intenzioni di marzo e non “fidandosi” di lui, era sempre riuscito a sviarlo, rispondendogli che sarebbe andato ai monti quando, invece, si recava al piano e viceversa. Marzo così aveva scatenato le sue tempeste inutilmente, sempre nel luogo sbagliato.
Passato anche l’ultimo giorno utile del suo tempo, comunque, l’acerrimo avversario del pecoraio non si rassegnò, e volendolo comunque punire per essersi preso gioco di lui, recatosi da suo fratello aprile, ottenne da questi il primo dei suoi 31 giorni (“jornale”), in maniera da poter attuare finalmente il suo piano (in altre versioni glielo vinse giocandoselo alla “lippa”), quindi tornò a interrogare il pecoraio. Questi, sentendosi ormai al sicuro, non curò più di cautelarsi, ed a marzo che continuava a ripetergli la solita domanda, rispose dicendogli la verità.[xli] Ciò fu la sua rovina. Lo colse, infatti, una terribile tempesta che gli uccise tutte le pecore, tranne l’unica che riuscì a salvare sotto il suo mantello.
Da allora il mese di marzo ebbe trentuno giorni in luogo dei trenta di aprile, mentre i padroni acquisirono il diritto di esigere dai pecorai, per una volta sola durante ogni stagione, l’“integrum fruttum” prodotto nell’arco di un giorno, da ogni mandria esistente sul loro territorio (“jornalem”).[xlii] Termine che rimane a contraddistinguere il primo giorno di aprile (“jornile”), quando il colpo mancino tirato da marzo al pecoraio, continua ancora ad essere tramandato attraverso gli scherzi che, tradizionalmente, si ricevono e si fanno in questa occasione.
L’autorità del baiulo
Con l’avvento del Feudalesimo e la formazione dei territori, il pascolo fu regolamentato dai signori secondo i principi feudali e sottoposto all’autorità di un “baiulus”, che aveva il diritto di esigere lo “jus fida” da tutti coloro che prendevano in affitto le terre per pascolarci i loro animali, i quali dovevano pagare per ogni capo introdotto in un determinato territorio. Il baiulo deteneva anche il diritto di esigere lo “jus disfida”, relativamente ad ogni animale che, ad un suo controllo, fosse stato scoperto non fidato, oltre al già menzionato “jornalem”.
In considerazione della scarsa determinatezza dei confini e del carattere brado del pascolo, il baiulo si faceva pagare anche dai fidatori che prendevano in fitto le gabelle confinanti con il proprio territorio, esigendo da questi lo “jus finaitae”. Per quanto riguardava la gabella detta “la valle”, posta in tenimento di Tacina, ad esempio, il baiulo di Le Castella esigeva ogni anno sette tari ed un “aries sive montonus grossus”, oltre il “serratitio”, costituito da sei carlini, un capretto, dodici pezze di formaggio e dodici ricotte. Per “la finaitae nomi(na)te delo carigletto” in tenimento di Cutro, riceveva invece, sei tari, dodici ricotte, dodici pezze di formaggio e dodici raschi, che gli dovevano essere corrisposti entro otto giorni dopo la festa di Pasqua.
Egli, inoltre, proteggeva tutte le coltivazioni esistente nel suo territorio, dai danni arrecati da ogni sorta di bestiame “civium ut forentium”, sanzionando i proprietari degli animali che, nel caso di mancato pagamento, subivano il sequestro del bestiame sino al saldo del dovuto. A tal fine, ad esempio, dopo la metà del mese di marzo a Le Castella, era fatto divieto ad ogni gregge di “animalium armentitiorum” di avvicinarsi alle coltivazioni più prossime all’abitato (vigne, orti) scendendo sotto la via traversa, mentre, al fine di preservare l’igiene del borgo, era vietato di condurvi ogni sorta di gregge.[xliii]
Accanto a questa regolamentazione che teneva conto dei confini medievali delle “terre” e dei loro “territori”, stabiliti dopo l’introduzione del feudo, comunque, ancora in età moderna rimaneva traccia nel Crotonese di quella che era stata la sua organizzazione precedente a quella feudale, basata sull’uso comune delle risorse naturali necessarie alla vità degli uomini e dei loro animali.
Lo testimoniano, ad esempio, la situazione di “Comunità de acqua et herba” che contraddistingueva le consuetudini che, ancora nel Cinquecento, regolavano i rapporti tra alcune università confinanti. Come documenta una “provvisione” spedita l’otto giugno 1552 dalla Regia Camera della Sommaria e diretta al capitano di Mesoraca.
Per parte della “Uni.ta et h(omi)ni de la t(er)ra de Policastro” era stato esposto nella Camera della Sommaria “Como antiquam.te et da tanto tempo che non è, memoria de homo in con.rio”, la detta università e quella della terra di Mesoraca, avevano avuto “t(errito)rio promiscuo Con Comunità de acqua et herba”, “et per tal c(aus)a per lo tempo p.o luno non ha Contribuito con laltro per bon.te ma Ciascuno ha Contribuito per soi stabili in q.lo loco dove è, Citatino”. In pregiudizio di detta “antiq.a Consuetudine et observantia” però, dopo alcune provvisioni impetrate dalla Regia Camera per parte dell’università di Mesuraca, quest’ultima aveva costretto i Policastresi “ad Contribuire cum detta uni.ta de mesuraca Como bon.te per li stabili possedeno nel suo pretenso t(errito)rio” facendo “exequire in loro grave danno et interesse et Contra ogni debito de just.a”. Considerato il contenuto di questo esposto, la Sommaria ordinava alla università di Mesoraca di non costringere i Policastresi a contribuire per ciò che non gli era dovuto, facendo restituire loro tutto quello che “li havessino facto exequire et innovare Contra lo decto antiquo solito et Consueto”.[xliv]
Lo stato di “comunità” riguardante l’uso dell’acqua e dell’erba tra l’universitò di Policastro e quella di Mesoraca, come nel caso di altre antiche realtà,[xlv] caratterizzava al tempo anche le consuetudini che regolavano tale tipo di rapporto tra quest’ultima e l’università di Belcastro,[xlvi] e tra questa e quella di Cropani,[xlvii] come riferisce una “provvisione” del 2 ottobre 1595 spedita dalla Regia Camera della Sommaria al capitano di Cropani.
In questa occasione per parte della “Uni.a et particolari” della terra di Cropani, si faceva notare come da “tempo antico che non vi è memoria d’homo In con.rio hanno soluto pascolare li loro animali in territorio di belcastro per la communità che teneno tra essi et per la fida, et disfida delloro animali hanno soluto pagare un certo Jus lo anno”. Al presente però, “contra detto anticho solito”, “la gente” del signor barone di Belcastro aveva alterato detto pagamento, costringendo i cittadini di Cropani a pagare più del solito predetto. Considerato tale esposto, la Sommaria disponeva che “circa lo pagamento del pascuo che fanno li animali” dei cropanesi in territorio di Belcastro, “exendoci la Communità p.tta per la fida, et disfida de quelli debiati fare osservare lo solito et contra detto solito non li farreti invocare cosa alc.a”.[xlviii]
Prima vera
Anche se gl’inizi della stagione primaverile potevano essere particolarmente insidiosi per le greggi, l’apparire della bella stagione segnava comunque un momento molto significativo per l’economia pastorale.
Alla metà di marzo, infatti, cadeva il periodo in cui si realizzava la prima delle tre tosature degli animali previste durante l’anno, quando si tagliava loro la parte del vello più pregiata, quella sopra i “gropponi” detta “lana subeglia” (soprana), alla quale sarebbero seguite poi quelle di maggio e settembre. Rispetto a questa produzione che apparteneva al padrone, i pecorai avevano il diritto di tosare per sé gli animali “sotto le cosce”, e filata questa lana grassa di scarsa qualità, di farne lacci per le loro calzature e per assicurare le bardature dei loro asini.[xlix]
Accanto alla produzione più pregiata trattata nei battendieri feudali[l] e destinata alla filatura, per la tessitura di “panno di lana nobile”,[li] per la confezione di vestiti,[lii] o per realizzare coperte,[liii] ecc., la “lana pecorina”[liv] era utilizzata comunemente anche per riempire i “matarazza” del letto, come ben documentano gli atti dei notari di Policastro della prima metà del Seicento.
Di questo prodotto si distinguevano due categorie principali:[lv] la “lana pecorina” propriamente detta, di qualità superiore, e la “lana pecorina di santo aleni”,[lvi] ovvero “lana di santo Aleni”[lvii] o “lana comune di santo Aleni”,[lviii] negli atti più antichi dei primi anni del Seicento detta anche di “santo Eleni”[lix] o “Leni” (Sant’Elenio),[lx] toponimo che non si rinviene a Policastro, ma che si rintraccia in prossimità di una delle porte del vicino abitato di Caccuri,[lxi] che occupava una importante posizione di controllo sul crocevia degli antichi percorsi delle greggi che, dalla marina, salivano in Sila.[lxii] In alcuni casi, probabilmente per evidenziare un prodotto più selezionato, si fa menzione anche di “lana bianca” e di “lana gentile”,[lxiii] termine che sembra riferibile ad animali con vello bianco più pregiato (“pecore grastati gentili”).[lxiv]
In primavera anche gli agnelli nati nel periodo autunno-invernale raggiungevano la maturità necessaria per essere macellati e, in occasione della Pasqua, per antica consuetudine, il clero di ogni terra appartenente alla diocesi di Santa Severina, mandava all’arcivescovo due agnelli a titolo di “Jus agni”,[lxv] diritto feudale che si corrispondeva ancora alla fine del Settecento, quando era stato convertito (“transatto”) nel pagamento in denaro di 20 carlini.[lxvi]
Lo jus decimae
Ancora alla fine del Settecento, alle soglie della promulgazione delle leggi di eversione della feudalità (1806-1808), con le quali il re Giuseppe Bonaparte abolì il feudo nel Regno di Napoli, la Mensa arcivescovile di Santa Severina esigeva la decima di alcuni frutti (agnelli e latticini) delle mandrie dei “Pecorari Forastieri” che pascolavano i corsi della sua diocesi.[lxvii]
A tale riguardo, in una fede del 3 novembre 1798 fatta dall’università di Policastro, luogo in cui la chiesa arcivescovile di Santa Severina “ab antico è stata et è in possessione pacifica dell’essactione della decima dell’agni et frutti lattocinii di tutte le mandre de pecore che stacciano anno quolibet nelli Tenimenti della Diocese di S.ta Severina”,[lxviii] si evidenziava che, da più anni, le gabelle poste “nel Territorio della Città”, erano state pascolate più che altro, dagli animali dei cittadini e non già dal bestiame di forestieri, con la conseguenza che l’arcivescovo non aveva potuto percepire lo “Jus Decimae”. I rappresentanti dell’università, inoltre, sottolineavano che, recentemente, essendo aumentato di numero degli animali dei cittadini, si prevedeva che anche negli anni a venire i terreni sarebbero stati pascolati solo dai questi ultimi.[lxix]
Una idea su quanto potesse valere per l’arcivescovo questo mancato introito, ci è fornito da una memoria della fine del Cinquecento, relativa alla lunga lite che oppose quest’ultimo al feudatario di Mesoraca.
“… perche d’ogni cento docati d’herbaggio venduto à pecore almeno di x.a si nè hà trenta docati l’anno, perché a cento docati d’herbaggio ci pascolano cinquecento pecore, che per ogni pecora si paga dui carlini per pascolo, et li cinquecento pecore almeno ne vengono figliate trecento, ducento promentive et cento posterare, et confuse l’une, et l’altre faranno almeno cinque pezze di caso per una, che sono mille et cinquecento pezze, che di x.a se n’hà cento cinquanta, che sono quindici docati ad un carlino la pezza, et di ogni pezza di caso n’escono tre ricotte, che vengono quattrocento cinquanta ad un grano l’una sono quattro ducati, et mezzo. Di trecento agnelli ne toccano trenta di x.a, et ne sono vinti promentivi, che sono vinti docati à dieci carlini l’uno, come si vendono da molti anni in quà, et delli posterari ne toccano dieci à cinque carlini l’uno, che sono cinque altri docati, che in tutto sommano docati quaranta quattro, tari due, et grana dieci.”[lxx]
Pecorai e pastori di anime
Anche se la Chiesa affermava di vantare il diritto di esigere la decima dei frutti delle greggi “ab antico”, possiamo fondatamente ritenere che, dovendosi necessariamente presuppore a tale ragione l’esistenza di un “territorio”, tale diritto possa essere fatto risalire, certamente, ad un periodo successivo a quello in cui la Chiesa calabrese fu latinizzata, non essendo mai appartenuto al clero di rito greco. Testimonia chiaramente in questo senso, poi, il fatto che i vescovi detennero sempre questo diritto solo per privilegio, come evidenzia la documentazione superstite già in epoca medievale.[lxxi]
In merito a questo privilegio, alcuni atti documentano che, i presuli del Crotonese, erano in possesso del diritto di esigere la decima dei frutti delle greggi già durante il Medioevo dimostrando, invece, che tale diritto non rientrava tra quelli goduti dall’arcivescovo di Cosenza. Determinava ciò la natura transumante del ciclo stagionale a cui erano sottoposti gli ovini che, quando discendevano nelle marine del Crotonese, portavano con sé una parte dei loro frutti, tra cui gli agnelli nati sull’altopiano silano durante l’estate.
In merito a ciò, già attraverso i capitoli concessi ai Cosentini il 6 settembre 1414, la regina Giovanna II aveva accolto la loro supplica, riconoscendogli il diritto di non essere più costretti dagli ufficiali o da altre persone richieste dai vescovi “per ragione de decime de dicto bestiame et loro fructi”, quando si trovavano a svernare “alle marine”, ma a comparire ordinariamente di fronte agli “officiali Cosentie”.[lxxii]
Allo scopo di trovare una soluzione, comunque, si erano mossi diplomaticamente anche gli ecclesiastici locali, come dimostrano alcuni documenti di questo periodo.
Il 15 marzo 1411, in Cirò, terra posta in diocesi di Umbriatico, alla presenza del notaro Angelo Cannagroe di Cirò, “Annalis Judex eiusdem T(er)rae”, del notaro Juliano de Xelso di Cirò e di alcuni testi, il vescovo di Umbriatico Petro, si costituiva nella domus in cui abitava e dove giaceva infermo, esibendo uno strumento pubblico originale, scritto il 15 aprile 1410, dal notaro Marco Papandrea di Cirò e sottoscritto dal giudice Nicolao de Condoleone, affinché ne fosse fatto un “transumptum” in forma pubblica.
Quel giorno, innanzi al detto notaro ed al detto giudice, si erano costituiti, da una parte, il nobile Leo Bisantio assieme a Michaele Perretta, decano della cattedrale di Umbriatico, mentre, dall’altra parte, era comparso il presbitero Nicolao de Ioaccino di Celico, in qualità di procuratore del clero dei “casalium dictorum delo manco”, pertinenze della “vallis Gratis”, in merito alla “discordia” insorta relativamente all’accordo (“conventionum”) riguardante la “decima fructuum, et proventuum” degli “animalium consentinorum” che, dalle parte di “vallis gratis”, giungevano nei tenimenti della diocesi di Umbriatico, fatti e facendi con il consenso del vescovo di Umbriatico e del clero dei casali “delo manco”.
Un patto inconsistente
Tali accordi risultavano contenuti in un atto stipulato precedentemente in Cirò, nella domus di Joannes Spoletino, abitazione del vescovo di Crotone, dove si erano costituiti, da una parte, il vescovo di Umbriatico Petro e, dall’altra, alcuni rappresentati del clero dei casali di Cosenza. Ciò in vigore del “rescripti” di papa Innocenzo VII diretto a Jacobo, arcivescovo di Santa Severina, individuato quale “judice delegato” della questione, riguardante la pretesa dei “d(omi)ni clerici” dei detti casali, contrastata dal vescovo di Umbriatico, di ottenere lo “ius decimae” di tutti gli agnelli (“agnorum”) e frutti del latte (“casci et ricotiorum”) prodotti dalle pecore (“pecudum”) che, “de partibus” dei detti casali, erano portate a pascolare a “Eyemalia”, nel tenimento di Cirò e in altri tenimenti della diocesi di Umbriatico.
Poiché la lite era stata molto accesa, attraverso l’intervento di persone ecclesiastiche, comuni amici, il detto vescovo Petro, di sua buona volontà, ed in maniera amichevole e paterna, aveva fatto alcune concessioni ai Cosentini, cedendo loro la metà degli agnelli e la terza parte dei formaggi e delle ricotte di ogni singolo anno, promettendo di tenere fede ai detti “pacta” e di osservarli in futuro.
Questi furono sottoscritti dallo stesso vescovo Petro, da Antonio Spoletino, vescovo di Crotone, e da altri rappresentanti del clero dei casali cosentini e della diocesi di Umbriatico: Michael Gatio e Thomasio Russo di Spezano Magno, procuratori del clero dei casali di Cosenza, Guido Comito di Spezano Magno, Nicolao de Joaccino di Celico, procuratore del clero dei casali di Cosenza, Nicolao de Agminneto de Celico, il presbitero Michaele Perrecta, decano di Umbriatico, il presbitero Loisio de Paterno, il presbitero Juliano Russo arcipresbitero di Cirò, Leo Bisantio, Nicolao de Principato e Joannes Smeraldo.
In seguito però, i contrasti erano continuati, e volendosi mettere fine alla discordia dirimendo la controversia secondo le norme del diritto, tali accordi era stati sottoposti a T. vescovo di Catanzaro, ed al dominus Joannes Morano di Catanzaro, dottore in legge, in qualità di arbitri.
Questi si espressero chiaramente, attraverso una sentenza favorevole al presule di Umbriatico, in primo luogo perché quest’ultimo non avrebbe potuto fare tale accordo o convenzione (“pactum, seu conventionem”), non potendo rinunciare al diritto di decima che non era suo personale, ma che gli apparteneva per le funzioni vescovili che ricopriva, di conseguenza, quindi, i detti accordi erano da considerare a tutti gli effetti nulli “ipso iure”, mentre, inoltre, non essendoci stato il necessario consenso del capitolo, l’accordo non aveva alcun valore, senza contare che, nell’ambito di quanto era in uso nella chiesa umbriaticense, le entrate relative a tale diritto dovevano essere divise tra il vescovo (“episcopum”), il capitolo (“capitulum”) ed i poveri (“pauperes”), e rinunciando alla metà delle proprie decime, il vescovo aveva agito non solo in pregiudizio della sua carica ma anche in pregiudizio di altri.[lxxiii]
Una sentenza chiara e definitiva
In merito alla questione riguardante questi importanti interessi ecclesiastici, fa chiarezza definitiva la sentenza pronunciata da Francesco Bennio vescovo di Martirano, contenuta in un “diffinitivo decreto” del 9 giugno 1434, dato nel palazzo vescovile di Martirano, circa la controversia vertente tra Joannes Smeraldo, arcivescovo di Cosenza, e Nicola Sito, vescovo di Umbriatico, relativa al pagamento del diritto di decima delle pecore (“decimae ovium”) che pascolavano “in territoriis de la Sila”, e dei loro agnelli (“foetantium”) nati sull’altopiano.
In questa occasione, considerato che i detti territori silani erano posti “intra limites Iurisdictionis Ecc.ae Consentinae”, il procuratore della Mensa arcivescovile, aveva chiesto che, almeno, fosse riconosciuta alla chiesa di Cosenza la “medietatem dictae decimae de ovibus pasculantibus, et foetantibus in dictis territoriis”.
Il vescovo di Martirano, assunta ufficialmente “informatione” della questione con il consenso di entrambe le parti in causa, mediante un “compromisso” giurato stipulato innanzi a lui, visti tutti gli atti prodotti e ascoltate le deposizioni di un numero sufficiente di testi, pronunciò la sua sentenza. Secondo questo verdetto, alla Mensa arcivescovile di Cosenza non spettava minimamente il diritto di esigere il “praedictum Jus decimae in dictis territoriis positis in Dioecesi Consentina”, tanto per quanto concerneva il passato, quanto in futuro, sia degli agnelli “quae nascuntur in dictis locis”, sia dei frutti delle mandrie (“de fructibus”), perchè non era consueto esigere dette decime “in dicta Civitate Consentiae”, mentre, invece, queste si esigevano pacificamente “in dioecesi Umbriatici à tempore in quo nulla est hominum memoria in contrarium”.
Bisognava poi considerare che, in relazione al tempo ormai trascorso, il provvedimento (“actio”) precedente fatto in favore della chiesa cosentina dal Rev. Francesco Spulitrino, decano della cattedrale di Umbriatico e procuratore della mensa vescovile umbriaticense, era da considerarsi ormai decaduto (“praescripta”), essendo questi ormai morto. Si stabiliva, inoltre, che il detto decano, non avrebbe potuto promettere la metà delle dette decime in frode e pregiudizio della chiesa di Umbriatico, senza il consenso e la deliberazione del vescovo e del capitolo della cattedrale. Considerato quindi che la concessione (“promissio”) fatta dal detto decano, era stata solo una iniziativa personale, doveva quindi considerarsi estinta con la sua morte e, a tenore di ciò, si dichiarava “nullam, et infirmam”.
Viceversa, invece, il detto vescovo di Umbriatico, come era stato nel passato, si trovava nel suo pieno diritto di esigere integralmente la detta decima “iuxto solitum, et consuetum”, da tutte le mandrie di “animalibus minutis etiam foetantibus” pascolanti nei territori silani “extra cursum”, nel luogo di pascolo dove era stata eretta la loro stalla (“stabulam”) e dove si era realizzata la loro produzione (“incrementum”).[lxxiv]
Il rispetto dei diritti
Lo stato d’incertezza legato alla precarietà del diritto detenuto dalla Chiesa, comunque ben decisa a far rispettare i propri privilegi, a discapito degli antichi usi goduti dalle popolazioni locali, determinò durante i sec. XV e XVI, una notevole conflittualità tra i pecorai e i vescovi e, soprattutto, tra questi ultimi e i feudatari locali come attestano numerosi documenti conservati nell’archivio arcivescovile di Santa Severina.[lxxv]
A titolo di esempio, possiamo far luce sul clima esistente nelle campagne del Crotonese verso la fine del dominio aragonese, attraverso un atto conservato nell’archivio vescovile di Crotone, riguardante il territorio di Le Castella che riferisce circa le vicende dei “pastores” cosentini Nicolao de Canto e Berardo de Anglaro.
Questi ultimi, a cavallo degli anni 1488-89, avevano preso in fitto ad uso di pascolo, il territorio della Valle dell’Ulmo, stipulando con il procuratore dell’abate di Santa Maria di Corazzo, un regolare contratto (“pacto”). Ad un certo punto, però, era intervenuto il venerabile Antonio de Nicoletta, vicario di monsignor Angelo Castaldo vescovo d’Isola, rivendicando i diritti vescovili sul luogo. In relazione alla resistenza dei pastori, il vicario, assieme all’arciprete Bernardo Conticello ed a tutti i suoi preti, armati “cum lantii” e “spati”, spalleggiati dagli “homini de armi” del condottiero Jacobo Castracane e da altri uomini della città di Isola, si erano radunati alla “marina” avviandosi verso la Valle dell’Ulmo per andare ad appiccare il fuoco ai ricoveri dei pastori (“paglara”) e sfrattarli.
Ne erano stati impediti dall’intervento del capitano di Le Castella, il magnifico Joanbattista Calamita, che era riuscito a farli desistere dal loro intento, ottenendo dai pecorai l’obbligazione a pagare al vescovo quanto richiesto. Di fronte a tale costrizione, questi ultimi erano però ricorsi alla giustizia, ed il 13 gennaio 1489 erano comparsi nella “curia” di Le Castella. In questa occasione, la corte composta dai “nobili et egregii homini”, il baiulo Nicolao Antonio Marino, l’abate Nicolao Crescente, giudice annuale, e dal notaro Francisco Cesar della città di Squillace, ascoltate le testimonianze prodotte dalle parti, si pronunciò riconoscendo le ragioni del vescovo di Isola che, basandosi sul suo pieno diritto di esigere le decime delle pecore su tutto il territorio della sua diocesi, aveva preteso un legittimo pagamento che prescindeva dall’affitto che i pastori avevano già corrisposto al padrone della gabella.
Era di maggio
Aveva il compito di esigere il diritto di decima nella diocesi di Santa Severina, il procuratore dell’arcivescovo che, assieme ai suoi uomini, recandosi “alla mandra” nelle occasioni di “Carnevale”, “quaresima” e “Pasca”,[lxxvi] provvedeva a contare gli agnelli presenti, e a numerare le “pezze di caso” (il numero delle “Ricotte” si otteneva in proporzione a queste) fatte dal casaro, detto “Coratore” o “curàtulu”,[lxxvii] sulle quali lasciava una “taglia”,[lxxviii] necessaria per comprovare a quanto ammontasse il dovuto. Come ci illustra, ad esempio, un atto del 13 ottobre 1594, che riferisce circa gli accadimenti avvenuti tra la fine di marzo e quella di maggio di quell’anno, in uno dei luoghi consueti destinati al pascolo in territorio di Mesoraca:
“… andammo alla mandra di yinò curso di Mesoraca dove ritrovammo che pascolavano duemilia pecore nelle quali cen’erano seicento di M(esser) Val.o Cosentino d’Aprigliano Casale di cosenza et l’altre erano del Cardinale Altaemps padrone di detta T(er)ra di mesoraca, et contammo ancora l’auni di detto Vale che forno centovinti promentii, et cento settanta posterii et detto Gio: Vincenzo, et delle taglie del Coratore de yinò et retrovò che havea fatto duemilia et quattro cento pezze di caso in sino a detto giorno 29 di marzo, che ci formo noi, et havendo di farci robba per li 20 di maggio sempre avanzando sicome faceno l’altre mandre et soleno farci quattro ricotte per pezzo di caso che detta mandra in quel giorno predetto facea vinti due pezzi di caso …”, “… valsero l’auni promentii a otto carlini l’uno, et quattro li posterii uno carlino per pezzo di caso et uno grano per ricotta …”, “… nel mese di maggio andai con il detto D. Gio: Vincenzo Carnelevare proc.re di detta mensa Arciv.le in detto curso di yinò per decimare et trovammo che sen’erano partite le pecore, et non pagarno la decima …”.[lxxix]
La fine del mese di maggio era infatti il periodo consueto in cui le greggi “sfrattavano” e spiantato “il caccavo”,[lxxx] ritornavano all’alpeggio, come evidenzia, ad esempio, un atto del 28 di maggio 1594. Quel giorno, vigilia di Pentecoste, Gio: Vincenzo Carnevale, canonico, economo e procuratore della Mensa arcivescovile di Santa Severina, insieme al vicario foraneo di Mesoraca Hieronimo Dardano, a Giovanni Tommaso Spanò, parroco di San Pietro di Mesoraca, e al diacono selvaggio Pietro Antonio Hortale di Roccabernarda, percorrendo la via del ritorno verso Mesoraca, con gli agnelli che avevano riscosso come decima della mandra esistente nel corso di Brocuso, dove “stanno di sera in sera per sfrattare”, erano stati aggrediti dai pecorai “in loco ubi dicitur lo Vallo di Cicco di Aiello”, ovvero “l’umbro di Cicco de Ayello”, e dopo essere stati picchiati e feriti, erano stati privati degli agnelli.[lxxxi]
In altri casi i fatti seguivano uno svolgimento pià regolare. Il primo giugno 1636, dietro richiesta di Cola Varveri di Petrafitta ma abitante in S. Giovanni in Fiore diocesi di Cosenza, tanto in nome suo quanto per parte di Cesare Martino, dottor Gianni Russo, Gio: Dom.co Schipano e Andria Corvisi, tutti di S. Giovanni in Fiore, suoi “Compagni Conduttori affittatori” nel corrente anno del “Corso di Molerà vecchio”, posto in territorio di Roccabernarda, Alfonso Campitello di Policastro, procuratore della Mensa arcivescovile di Santa Severina, dichiarava di essere stato completamente soddisfatto relativamente alle “decime, et raggioni di decime” spettanti a detta Mensa, di “agnelli primitivi posterari, cossi ricotte Capre, Crapetti, Giomente et animali di ogni pelo”, che durante il presente anno avevano “amandrato, et pascolato” nel detto corso, assomanti al numero di 95 e “meza testa”.[lxxxii]
La fiera di San Giovanni de l’Agli
Se la fiera di Mulerà segnava il momento del ritorno delle greggi dai pascoli estivi, quella di San Giovanni de l’Agli, che si faceva “la terza domenica di Maggio” in territorio di Santa Severina,[lxxxiii] cadeva quando gli animali si apprestavano a lasciare i pascoli invernali, prima che “si spiantasse il caccavo”, per fare ritorno in Sila.
In questa occasione, che preludeva alla conclusione della permanenza stagionale delle greggi e dei pecorai cosentini nelle marine del Crotonese, scadevano tradizionalmente, sia gli affitti dei terreni dati ad “uso di pascolo di pecore”, con pagamento “in fiera di S. Ianni”, “perché così si pagano da pecorari per pascolo di pecore, e non altrimente”,[lxxxiv] sia i contratti stipulati per l’affitto delle pecore. Per quanto riguarda questi ultimi, a titolo di esempio, riportiamo il contenuto di un atto del 16 settembre 1745, stipulato in Mesoraca. Quel giorno, il sig.r Saverio Salamone di Mesoraca, s’impegnava a pagare al Capitolo di Santa Severina ducati 105, alle seguenti scadenze: ducati 35 in fiera di San Giovanni dell’Agli 1746, ed altrettanti in occasione della stessa fiera, nel maggio 1747 e nel maggio 1748, relativamente all’affitto per tre anni di 500 pecore del detto Capitolo, “rustiche, grosse, sane, non Zoppe, né guercie, né vecchie, né marmariche, né menni secchi, mà di tutta perfezzione”, alla ragione di ducati 7 “a centinaro”. Il Salamone, dichiarava di aver ricevuto le dette pecore il 15 di giugno corrente, impegnadosi a riconsegnarle il 15 giugno dell’anno 1748, “del modo e maniera stessa che sel’hà ricevute.”[lxxxv]
Anticipando di poco la risalita delle greggi per l’alpeggio, la fiera di San Giovanni de l’Agli era anche l’occasione per i pecorai di piazzare i prodotti del loro lavoro sfruttando questa occasione mercantile, che gli permetteva di liberarsi di tutto quello che non gli sarebbe servito nei luoghi a cui erano destinati, ricavando il denaro per acquistare quanto invece, gli era necessario per il loro soggiorno in montagna: calzature, cavalcature, grano, ecc..
Oltre alla lana prodotta dalla tosa di maggio (“la maggiàtica”),[lxxxvi] e agli agnelli, giungevano così in fiera i latticini prodotti nella “mandre”. Per quanto riguarda il prezzo spuntato da questi ultimi, in una fede prodotta il 4 maggio 1584, dai sindaci ed eletti dell’università di Mesoraca, si riferisce che: “lo caso dele mandre di pecore del territorio di Mesuraca, et che sono locate in detto anno 1584 nelli territorii di Rotunda et Brocuso, et di peso di uno rotulo per ciascheduna peza e le recotte fresche de una libra l’una poco più, o, meno, et nel mese di Maggio, et Agosto lo caso del sopradetto peso se vende a grana otto la peza. Le recotte fresche si vendono uno grano l’una le salate a due grana l’una. Et quando lo caso, et curato, e seccho si vende à ragione di grana dudici l’una.”
Il giorno di San Pietro
Oltre a poter gestire in proprio la “mandra”, il padrone poteva decidere di rivolgersi a terzi per far fruttare i propri animali, ricorrendo a forme quali l’affitto[lxxxvii] oppure la soccida. La prima prevedeva che “le greggi di capre e di pecore” fossero date a “Caposalvo” o “capo saldo” per un periodo di tre anni, patto che impegnava l’affittuario a restituire al padrone alla fine di questo ciclo, lo stesso numero di capi ricevuti.[lxxxviii]
Ne costituisce un esempio l’atto stipulato il 12 giugno 1741, nella Curia arcivescovile di Santa Severina, dove quel giorno, comparvero D. Vit’Ant.o e Rocco Andreoli della Roccabernarda, che “an tenuto e tengono in affitto” dal R.mo Capitolo di Santa Anastasia, 500 pecore “à Caposalvo”, per tre anni con scadenza il 29 giugno corrente.
Come espressamente “pattuito nell’obliganza”, durante il trascorso mese di dicembre i due Andreoli avevano stipulato con il Capitolo un nuovo contratto di affitto per il secondo triennio, “a cominciare nel fine dell’andante Giugno.” Al presente però, essi affermavano di volerle riconsegnare, in considerazione che, “non soltanto il Contr(att)o è usuraio”, ma anche “perché nelle pecore sin dal passato mese di marzo si è scoperta la postella per cui sin al presente giorno son morte più pecore, e tuttavia ne muoiono per tal morbo, come a suo tempo ne porteranno i discarichi”, “attenta la sopravegenza del caso fortuito”, e trattandosi “di nuovo affitto”, per cui le dette “pecore di Consegna” sarebbero dovute risultare “recettibili et non morbose”.[lxxxix]
Determinava quest’uso la costante minaccia che gravava sulla vita degli animali, costituita dal vaiolo ovi-caprino (“postella”), malattia virale già attestata durante il Medioevo,[xc] da cui oggi il nostro Paese è ritenuto indenne, ma che costituiva invece un grave flagello ancora agli inizi del periodo unitario, quando si considerava “una malattia quasi inevitabile, come il vajuolo umano.”[xci]
Il giorno di San Pietro in cui scadevano i contratti di affitto delle greggi di ovini, rappresentava anche il momento in cui il padrone degli animali, da una parte, e il capomandria con i pecorai dall’altra, si dividevano i “frutti della mandria” quando questa veniva data in Soccida.
In questo caso, che prevede la divisione a metà di tali frutti tra le due parti, ovvero “l’agnellatura, il latticinio, la lana e lo stallatico”, potevano essere seguite due vie: la prima prevedeva che il padrone non desse “spesa” ai pecorai, ossia “vitto”, ma solo la “mmiata” (viatico) in fave, olio, sale e farina per la polenta, dal giorno di Pasqua fino a quello della festa di San Pietro (29 giugno), la seconda, invece, stabiliva che la metà dei frutti spettanti ai pecorai fosse corrisposto loro attraverso la consegna di 4 o 5 tomoli di grano o di granturco.
Il computo delle spettanze toccanti a ciascuna parte era stabilito così: fatta “la massa delle spese”, in cui rientravano quelle di affitto dei terreni per il pascolo, quelle sostenute per i generi dati ai pecorari a titolo di “mmiata”, e in occasione delle feste di Natale, Pasqua e Carnevale (“Carnalevare”),[xcii] quando il padrone aveva l’obbligio di fornire loro la carne (“scarnalasciate”), si detraeva da tale somma quella degli utili prodotti. Tale “guadagno” era così diviso in due parti, una delle quali spettava al padrone, mentre il capomandria e i suoi pecorai si suddividevano tra loro l’altra.[xciii]
A riguardo di tale suddivisione che era effettuata secondo gli antichi usi che regolavano la vita pastorale, c’informa un atto del 30 agosto 1644 stipulato in Policastro. Quel giorno davanti al notaro, comparivano Marcello delle Pira del casale di Aprigliano ma, al presente, abitante in Policastro e Aloisio Bruno di detto casale. Nei mesi passati, i due erano venuti a pascolare con le loro pecore nel territorio di Policastro “et p(ro)p(ri)o dove se dice Comito”, ma erano entrati in disaccordo tra loro sulla ripartizione delle spese della “Mandra”. Non volendo litigare tra “Compagni”, rimettevano la loro questione a Filippo della Vigna e a Vito Antonio Muto che, in qualità di arbitri, avrebbero dovuto sentenziare nel merito entro il termine di un mese. Si stabiliva che, qualora gli arbitri non fossero riusciti a giungere ad un verdetto, le parti sarebbero ricorse a Gio: Fran.co de Vono come “terzo concordante”. Si pattuiva inoltre, che la parte inadempiente avrebbe dovuto pagare 10 ducati per una volta alla chiesa di San Leonardo del casale di Aprigliano.[xciv]
Note
[i] Padula V., Persone in Calabria, Ed. Rubettino 2006, p. 114.
[ii] “… l’indole balorda, ed i costumi brutali …”. Padula V., Persone in Calabria, Ed. Rubettino 2006, p. 116.
[iii] “Al vederne uno, tutto solo nelle lande Silane, coverto da capo a pie’ di un vello, … tu credi di esserti abbattuto in un antico Fauno. Quando il tempo si abbuia, quando le piante sfrascano, quando il tendone dei nuvoli è rotto dai lampi, egli conficca la scure ad un albero per farne un parafulmine, e si colloca in distanza.” Padula V., Persone in Calabria, Ed. Rubettino 2006, p. 114.
[iv] AASS, 007A.
[v] “I pastori abbandonano la mandria a vicenda e rientrano in paese ogni quindici giorni; ma ciò avviene di està, non d’inverno, perché in questa stagione trovandosi nei luoghi maremmani vi dimorano sei mesi dell’anno non interrotti mai, essendo troppo lontani dai villaggi nativi.” Padula V., Persone in Calabria, Ed. Rubettino 2006, p. 116. “Nei nostri piccoli paesi alla stagione invernale tu non trovi altro che donne separate dai mariti, e pochi preti, e pochi galantuomini, e pochi artigiani.” Ibidem, p. 119.
[vi] Maone P., San Mauro Marchesato, Catanzaro 1975, p. 268. Pesavento A., Il tempo di Muliraù, in www.archiviostoricocrotone.it
[vii] I privilegi medievali concessi dagli antichi regnanti, evidenziano spesso la volontà di questi ultimi di salvaguardare il pascolo delle greggi delle grandi abazie sia in “montagna” che alla “marina”, attraverso concessioni territoriali commisurate al numero delle loro pecore. L’undici aprile 1195, ad esempio, l’imperatore Enrico VI nella riconferma dei possedimenti fatta ai cistercensi di Santa Maria di Corazzo, concedeva loro il pascolo invernale per 2000 pecore nel territorio di Buggiafaro presso Isola e quello estivo di Gemella in Sila. BAV, Vat. Lat. 7572.
[viii] Pesavento A., Il tempo di Muliarù, in archiviostoricocrotone.it
[ix] “Son frutti della mandria l’agnellatura, il latticinio, la lana e lo stallatico.” Padula V., Persone in Calabria, Ed. Rubettino 2006, p. 112.
[x] Tomaso Barbiero di Pietrafitta, aveva dovuto pagare la decima alla Mensa arcivescovile perché, nel mese di novembre 1700, “alla Calata che faceano dalla Sila all’Erbagi della Marina”, le sue pecore avevano pascolato per alcuni giorni “nelle Montagne delle Cotronei dette il Cocciolo”. AASS, 058A.
[xi] “Le pecore si tosano tre volte all’anno, alla metà di marzo, a maggio ed a settembre. La prima tosatura che si fa sopra i soli gropponi dell’animale ci dà la lana subeglia, parola a cui manca la corrispondente nel vocabolario, le altre due la maggiàtica e la settembrina. I pastori però le tosano per sé sotto le cosce, e di quell’èsipo, che filano, fanno crocili per le loro calandrelle, e suste (tope) per gli asinai.” Padula V., Persone in Calabria, Ed. Rubettino 2006, pp. 112-113.
[xii] “Item ovis incipit posse portare filios a decem et novem mensibus completis in antea et portat fetum in ventre per quinque menses et durat posse concipere vel impregnari usque ad septem vel octo annos et incipit impregnari vel concipere a mense maii in antea et due partes ovium pro quolibet centenario possunt fetare per annum et in quolibet centenario ovium sufficiunt stallonea quinque.” Reg. Ang. XXXI, 1306-1307, p. 148.
[xiii] 10 marzo 1258. Alichia. Innanzi a “Caradore iudice Alichie”, e a “Constantino eiusdem terre notario puplico”, Iohannes abate di Sant’Angelo de Fringilo, con il consenso del suo monastero, vende e trasferisce a “domino Nicolao Corticii de Baro et domino Nicolao Corbolo de Matera”, per 12 once d’oro, “oves ducent(as) lactaras”, con duecento agnelli (“fetuum”), cento nati nei mesi di ottobre e novembre, e cento nati nei mesi di dicembre e gennaio ultimi scorsi, “sanas et liberas ab omni morbo” che, rimanendo in custodia al monastero, sarebbero state consegnate agli acquirenti nel corso del seguente mese di aprile. Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 424-426.
[xiv] “… tanto di quelli che vi erano nati, che li nominano posterii, quanto di quelli nati altrove che erano venuti a pascere et ad allevarsici, che li nominano promentii …”. AASS 007A. “… Agnelli detti posterari, et biferi nati à tempo che le pecore pascolano in detti Cursi, restando exempti da questo peso l’agnelli promentivi nati nella Sila, et in altri luoghi, prima ch’entrassero nelli detti Cursi …”. AASS, 009A.
[xv] AASS 014A.
[xvi] AASS, 007A.
[xvii] “Sett’anni inpecora, ed uno specora, vale a dire che le pecore se non fruttano un anno, fruttano però sett’anni di seguito, e la guardia non se ne confida a persone estranee e mercenarie, perché il massaro ha trovato scritto nel suo codice: ’A piecura è de chi à siècuta, vale a dire, la pecora appartiene a chi le va appresso.” Padula V., Persone in Calabria, Ed. Rubettino 2006, p. 85.
[xviii] A Crotone nel 1742, Paolo Tancredi di Pietrafitta era capomandra del marchese Lucifero e dei Parise, mentre Cesare Bianco dello stesso luogo, era capomandra di Mirtillo Barricellis e di Gregorio Montalcini. ASCZ, busta 981, anno 1742, ff. 10v-11.
[xix] ASCZ, busta 912, anno 1748, f. 87.
[xx] “Item quod ovium miliare unum habeat custodes quinque et unum pro custodiendo reditu.” Reg. Ang. XXXI, 1306-1307, p. 144.
[xxi] “Item quod assignatis sibi ovibus in calendis septembris teneantur de qualibet ove dare unum tarenum et si contigerit quod aliqua moriatur ex filiis renovare illam et alii filii vel filie sint ad opus Curie et matris centum oves habeant capras sedecim et arietes quinque pro stallonibus.” Reg. Ang. XXXI, 1306-1307, p. 147.
[xxii] AASS, 9A.
[xxiii] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 424-426. “Pro centenario ovium unc. VIII. Caprarum unc. VI. Arietum et ircorum unc. X.” Reg. Ang. XXXI, 1306-1307, p. 145.
[xxiv] ASCZ, Notaio Ignoto, Cutro, busta 12 prot. 33, ff. 61-64.
[xxv] 20 giugno 1625. Mesoraca. Davanti al notaro comparivano Panfutio e Mauritio de Alessi “habitanti” in Mesoraca e Joannes And.a Spina di Caccuri. Negli anni passati detto Gio: And.a aveva venduto a detto Panfutio e a Minico Pollizzi 449 pecore per il prezzo di ducati 359 e tari 1, come apparive per cautela stipulata per gli atti della Regia Curia di Caccuri. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 295, ff. 126-127.
[xxvi] 09 novembre 1632. Per consentirgli di ascendere al sacerdozio, Narciso Riccio di Policastro donava a suo figlio Ferdinando alcuni beni, tra cui 80 “Capras” “signates in tutte due oricchia Con lo gaglio in la parte de inanti”. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 299, ff. 087-088. 06 settembre 1636. Blasio de Lucia del “Casale cotroneorum”, dona a Donato Apa suo “filiastros”, figlio di Fragostina Masci, 250 “Crape grosse con lauriChia jaccate tutte due”. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 303, ff. 112v-113v.
[xxvii] ASCZ, busta 180, anno 1658, ff. 61-62.
[xxviii] 22 luglio 1612. Mesoraca. Il chierico Fran.co Ant.o Carnelevare di Roccabernarda ma, al presente abitante in Mesoraca, con il consenso di Joannes Thoma Carnelevare suo padre, s’impegnava a vendere al chierico Narciso Rizza di Policastro 300 capre “grosse”, consegnandone al momento 100 per il prezzo di ducati 75 alla ragine di carlini 7 e mezzo ciascuna, impegnandosi a fornirle “à cursa de vado ad ogni richiesta ed istantia di esso Cl.o Narciso”. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 288, ff. 036v-037.
22 marzo 1620. Il chierico Joannes Berardino de Ascano di Policastro, vendeva a D. Joannes Liotta, vicario foraneo di Policastro, 200 “Crape grosse” di cui 150 “figliate” e 50 “stirpe”, per il prezzo di ducati 132 tari 2 e grana 10, alla ragione di carlini 7 l’una le figliate e carlini 5 e ½ le stirpe. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 292 ff. 015-015v.
31 luglio 1620. Joannes Fran.co Ritia e suo figlio Joannes Vincentio di Policastro, vendevano al presbitero Santo de Pace di Policastro, 155 “Crape” “grosse” per la somma di ducati 108 e ½ alla ragione di carlini 7 ciascuna. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 292, ff. 055-055v.
20 febbraio 1621. La Regia Curia procedendo contro Fabio Rotundo sindaco di Policastro, faceva esecuzione di una“quantitatem Craparum”, di cui 111 “figliate” e 100 “stirpe” appartenenti al detto Fabio. Non avendo quest’ultimo provveduto a redimere le dette capre, le stesse furono poste all’incanto “in platea p(redi)tta ubi dicitur dell’ulmo della Sala” ed aggiudicate a Giambatista de Diano della città di Belcastro. Essendosi giudicato troppo basso il prezzo spuntato per dette capre e per evitare pregiudizio in danno della Regia Corte, si faceva ripetere l’asta. In questa seconda occasione, furono valutate carlini 5 le capre figliate e carlini 4 le stirpe. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 293 ff. 011-012v.
25 aprile 1621. Il clerico Joannes Vincentio Riccio di Policastro, con il consenso di Gio: Fran.co Riccio suo padre, vendeva 200 “Crape grosse” parte “figliate” e parte “stirpe”, inclusi tutti gli “allevi”, al presbitero D. Salvatore Richetta per il prezzo di ducati 120 alla ragione di carlini 6 ciascuna. Capre che erano quelle di Fabio Rotundo che detto Gio: Vincentio aveva incantato nella “piazza publica”. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 293, ff. 021v-022v.
30 ottobre 1631. Cotronei. Il m.co Fran.co Balasco, procuratore generale dell’Ill.mo domino D. Berardino Montalveri marchese di San Giuliano, vendeva allo U.J.D. Fran.co Ant.o Capisciolto di Tursano, pertinenza della città di Cosenza, figlio di Alterio Capisciolti, 108 “Crape grosse”, 82 “Ciarvelli”, computando due “Ciarvelli” per ogni capra, alla ragione di carlini 6 e ½ ciascuna, per la somma di ducati 96 e tari 3, oltre 21 “pecore” “quali vanno unitam.te Con dette Crape” alla ragione di carlini 7 e ½ l’una, per la somma di ducati 15 tari 3 e grana 10. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 298 ff. 071-072v.
Nel luglio del 1659, dietro l’istanza del Fisco, la Corte arcivescovile di Santa Severina provvedeva a fare esecuzione dei beni del Cl.o Joannes Petro Schipano di Mesoraca, tra cui vi erano 360 capre tra piccole e grandi, che deteneva in custodia Gio: Dom.co Carcello. All’incanto le bestie furono aggiudicate per carlini 4 le capre e grana 25 i “Cervelli”.
[xxix] 16 settembre 1633. Per la loro dote i coniugi Alfonso Mannarino e Julia Fontana di Policastro, avevano ricevuto da Santo Funtana di Policastro, “quaranta pecore” e 34 “Crape” che erano state stimate per ducati 50 ed erano state vendute per questo prezzo al dottor Mutio Giordano. ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 300, ff. 068v-069.
[xxx] “Che li territorii della Diocesi si dividono in Corsi, che tutti hanno il suo nome particolare. Né altro sono che continenze di gabelle e gabelluccie Baronali, Arcive(scovi)li, e private d’altri Ecc.ci, e laici le quali si danno p(er) tre anni ordinariamente à herbaggio, e a massaria p(er) tre altri anni …”. AASS, 033A.
[xxxi] Rende P., Il Feudo di Le Castella nel 1518, in www.archiviostoricocrotone.it
[xxxii] “… è da sapersi, che il territorio di S.ta Severina è diviso in tanti Cursi, et il Curso non è altro, che una continenza di più, e diverse parti di terre di particolari padroni, quali parti di terre sono chiamate gabelle, nella quali, quando si danno à coltura, il padrone del Curso non hà ius alcuno, ma tutto il frutto è de padroni particolari di dette terre, seu gabbelle, e da detto frutto la mensa Arcivescovale non ne percipe decima alcuna, si beni li cultori de quelle pagano una certa parte di frutto alla Chiesa loro Parocchiale à ragione d’un tumulo di grano, et un altro d’orgio per ciascheduno paro di bovi aratorii, ma quando dette terre restano inculte i padroni particolari non vi hanno ius alcuno, mà il ius di vender l’herbaggio di quelle è del padrone del Curso, il quale non può vendere dett’herbaggio ad altri animali, che a pecore, et può preservarsi dentro detto Curso a suo arbitrio certa quantità di terra per il pascolo dell’agnelli, detto prato d’agnelli di tanta capacità per quanto basta per uso di quelli, e detto prato s’intende esser camera chiusa insin’alli otto d’Aprile, non potendoci pascolare in quello insin’à detto tempo nessuno cittadino con qualsivoglia sorte d’animali, ancorche fussero l’istessi padroni particolari delle terre, anzi li stessi pecorari compratori del Curso non vi possono pascolare con altri animali, che con l’agnelli tantum, altrimenti il prato sudetto sarebbe sbarrato, cioè libero, et commune à tutti cittadini conforme è il rimanente di tutto il Curso.” AASS, 009A.
“Tutte le sud.e Gabelle si sogliono fittare tre anni in semina, e tre anni ad uso di Pascolo, dell’istessa natura sono le Gabelle de Particolari à questo Corso soggette, le quali nel Triennio in semina ogni Padrone delle med.e le puol seminar ed à tal uso liberam.te concedere ad altri solo la Menza Arci(vescovi)le ha il dritto di far pascolare da suoi fittuari tutte le Gabelle, che Restano inseminate volgarmente detti Mensagni, egualm.te che ognaltro Cittadino di S. Severina, senza corrispondere cosa alcuna à Padroni di d.e Gabelle; Ed altera quando si mette l’aratro, hanno il Ius i cittadini predetti ed i fittuari del Corso istesso di sbarrare, e pascolarsi l’erba senza pagare cosa alcuna. Ma se nel 3ennio in semina le sud.e Gabelle de Particolari ò alcune d’esse Resterà inseminata, ed in erba, viene ad incorporarsi al Corso sud.o per tutto l’intiero Triennio, ed in questo caso la Menza Arcivescovile deve pagare à Respettivi Padroni quell’istesso estaglio, che lè corrisponde nel 3ennio ad uso di pascolo come più presso si dirà. Nel Triennio ad erba poi ha il dritto la vacante Menza che dicesi Jus Corsi d’includere ella, ed incorporare nel fitto fà del sud.o suo Corso tutte le Gabelle de Particolari, che sono allo stesso soggette, quali qui sotto si descriveranno una per una, pagando per ognuna d’esse l’estaglio solito à corrispondersi dopo che introitato averà il fitto dell’intiero Corso.” AASS, 82A.
[xxxiii] Dal “mese di maggio insino alla Fiera di Molerà ch’è del mese di Settembre, non corre spesa alcuna di herba, atteso dal mese d’Aprile nelli Corsi e prati, ci può pascolare ogn’uno liberamente senza alcun pagamento.” AASS 007A.
[xxxiv] “Al Sindico Gioseppe Infosino per l’ampliat.ne del Prato del Curzo di Paganò per la prohibitione del pascolo delli Citt.ni quando si fa Cam.ra Serrata per insino alli 8 d’Aprile d.ti 20.” AASS, 31A.
[xxxv] Costituzione della città e stato di Santaseverina, in Siberene Cronaca del Passato per le Diocesi di Santaseverina – Crotone – Cariati, a cura di Scalise G. B., p. 323.
[xxxvi] ASCZ, busta 1268, anno 1761, ff. 71-76.
[xxxvii] «Al giorno della Candellaia» egli dice «esce il Lione dalla tana e grida: “Se nevica e se piove, quaranta giorni vi sono ancora; ma se Sole spande, tanta acqua getta”». «… s’oggi ch’è il dì della Candellaia fa neve e pioggia, gli è buon segno, ed avremo quaranta giorni d’inverno e non più». Padula V., Persone in Calabria, Ed. Rubettino 2006, p. 115.
[xxxviii] “… nulla egli teme che il mal tempo ed il mese di marzo, …” Padula V., Persone in Calabria, Ed. Rubettino 2006, p. 115.
[xxxix] Padula V., Persone in Calabria, Ed. Rubettino 2006, p. 120.
[xl] “Marzo è mulo, ossia è figlio illegittimo …”. Padula V., Persone in Calabria, Ed. Rubettino 2006, p. 115.
[xli] “Ah! Mulo di marzo, non ti curo più d’un corno: le mie pecore son tutte, e già siamo al trentuno;”. Padula V., Persone in Calabria, Ed. Rubettino 2006, p. 115.
[xlii] Rende P., Il Feudo di Le Castella nel 1518, in www.archiviostoricocrotone.it
[xliii] Rende P., Il feudo di Le Castella nel 1518, in www.archiviostoricocrotone.it
[xliv] ASN, Regia Camera della Sommaria, Segreteria Partium, busta 336, f. 94.
[xlv] “Magnifico Francesco Cimino, barone di Cuccari, (sic ma Caccuri) comunità d’acqua et erba tra detta università con l’università seu città di Cerza (sic ma Cerenzìa) etiam del passo” (1590). ASN, Reg. Camera della Somm., Segreteria, Inventario.
[xlvi] “Università di Mesuraca et università di Belcastro, per la communità ad invicem (1589). ASN, Reg. Camera della Somm., Segreteria, Inventario.
[xlvii] “Università di Cropani, per la communità del pascolo del territorio di Belcastro” (1596-1597). ASN, Reg. Camera della Somm., Segreteria, Inventario.
[xlviii] ASN, Regia Camera della Sommaria, Segreteria Partium, busta 1374 f. s.n.
[xlix] “Le pecore si tosano tre volte all’anno, alla metà di marzo, a maggio ed a settembre. La prima tosatura che si fa sopra i soli gropponi dell’animale ci dà la lana subeglia, parola a cui manca la corrispondente nel vocabolario, le altre due la maggiàtica e la settembrina. I pastori però le tosano per sé sotto le cosce, e di quell’èsipo, che filano, fanno crocili per le loro calandrelle, e suste (tope) per gli asinai.” Padula V., Persone in Calabria, Ed. Rubettino 2006, pp. 112-113.
[l] ASN, Regia Camera della Sommaria. Materia Feudale. Relevi – Inventario. Vol. 346, fascicolo 32., f. 356v.
[li] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 300, ff. 102-105.
[lii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 301, ff. 022v-025.
[liii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 305, ff. 041-043v.
[liv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 290, ff. 041-042. Busta 79 prot. 294, ff. 067v-069. Busta 80 prot. 301, ff. 035-036v, 109v-112. Busta 80 prot. 305, ff. 096-102. ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 877, ff. 043v-045.
[lv] Un “matarazzo pieno di lana pecorina, et l’altro di lana di Santo aleni” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 297, ff. 038-039). Due matarazza, uno pieno di lana “pecorina” e l’altro pieno di “lana Comune di santo aleni” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 299, ff. 092v-094v). “lana pecurina” e “lana di S.to Aleni” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 876, ff. 003v-005v). “due matarazza uno pieno di lana pecorina, et l’altro di lana di santo aleni” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 303, ff. 031v-035v). “lana pecurina” e “lana di S. Aleni” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 875, ff. 096-098). Non mancano comunque le espressioni: “uno matarazzo pieno della lana di Santo aleni dico lana pecorina” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 295, ff. 145v-146v). Un matarazzo pieno di “lana di santo aleni dico pecorina” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 301, ff. 078v-080v).
[lvi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 299 ff. 020v-022.
[lvii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 287, ff. 048-050, 108v-110, 132-133v. Busta 78 prot. 288 ff. 025v-026v, 068-069. Busta 78 prot. 290 ff. 021-022v, 033-034v; 134v-135v. Busta 78 prot. 291, ff. 005-006v, 010v-011v. Busta 78 prot. 292, ff. 078-079. Busta 80 prot. 305, ff. 007-008; 025v-027; 110-111v. Busta 80 prot. 306, ff. 016-017.
ASCZ, Notaio G. M. Guidacciaro, Busta 182 prot. 801, ff. 115-117. Busta 182 prot. 803, ff. 006-008v. Busta 182 prot. 804, ff. 016v-018v, 035v-036v, 081-083v, 146-148v, 160v-163v. Busta 182 prot. 805, ff. 011-013v. Busta 182 prot. 806, ff. 059v-061v.
ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 874, ff. 003v-005, 005v-007, 016-019v, 028-030v, 047v-049, 082-084. Busta 196 prot. 875, ff. 049v-051. Busta 196 prot. 876, ff. 029v-030v, 030v-032, 041v-042v, 044v-045v, 068v-070, 084-086. Busta 196 prot. 877, ff. 003v-005v, 008-010, 010-012. Busta 196 prot. 878, ff. 005v-007v, 012v-014, 014-015v, 017-019, 027-029, 059-060, 067v-069. Busta 196 prot. 879, ff. 005-007, 011-013, 025v-027, 035-036v, 068-071v, 075-077v, 139-141. Busta 196 prot. 880, ff. 006-007v, 015v-017v, 025v-027, 054-056, 074v-075v, 095-096v, 152-153v, 188v-190, 191-193v, 193v-195v, 206-207v.
[lviii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 287, ff. 148-149. Busta 78 prot. 288, ff. 044v-045v, 086v-087v. Busta 78 prot. 289, ff. 010-011, 012-013, 019v-020, 024v-025v. Busta 78 prot. 290, ff. 001v-002v, 004-005v, 009-009v, 012v-013v, 013v-015, 020-021, 084-086; 103v-105v. Busta 78 prot. 291, ff. 078v-081v, 123-124, 131-132, 132-133v. Busta 78 prot. 292, ff. 069-070v. Busta 80 prot. 301, ff. 018v-020. ASCZ, Notaio G. M. Guidacciaro, Busta 182 prot. 805, ff. 051-055. ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 876, ff. 011v-013v. Busta 196 prot. 880, ff. 179-180v.
[lix] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 287, ff. 058-059, 086v-087v, 091v-092v, 112v-113v, 188v-189v.
[lx] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 287, ff. 135v-137v. Busta 78 prot. 289, ff. 005v-006v.
[lxi] “Porta de Sanstaleni”, “Porta di Santaleni”, “lo Canale de Santo Aleni”. ASN, Real Militare Ordine Costantiniano, Libri maggiori e platee, busta 78/I, ff. 8, 43v, 44.
[lxii] Pesavento A., Caccuri tra il Cinque ed il Seicento, in archiviostoricocrotone.it
[lxiii] “nove matarazza pieni di lana bianca” (ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 297, ff. 065v-066v). “quattro matarazza piene di lana gentile” (ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 876, ff. 055v-057).
[lxiv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 298, ff. 071-072v.
[lxv] 13 aprile 1664. Il clero di Policastro mandava per Pasqua i soliti due agnelli all’arcivescovo. AASS, 2A.
[lxvi] 1797. “Jus Agni / Dalli stessi Cleri suole esigere in ogni anno / il Jus agni, transatto p(er) annui carlini / venti pagabili nel giorno di Pasqua / Dal Clero di Mesuraca d. 2 / da quello di Roccab.a d. 2 / da quello di Cutro d. 2 / da quello di Policastro d. 2.” AASS, 82A.
3 novembre 1798. In una fede prodotta dal cancelliere dell’università di Policastro Simone Mayda, si evidenzia che, dal “Libro catastale” del corrente anno 1798, risultava che, relativamente al territorio di Policastro, la “partita della Mensa Arcivescovile di S. Severina” era composta da diverse voci, tra cui: “Dal R.do Clero di q(ue)sta Città per il jus Porci, et Agni d. 008.00.” AASS, 24B fasc. 3.
[lxvii] 3 novembre 1798. In una fede prodotta dal cancelliere dell’università di Policastro Simone Mayda, si evidenzia che, dal “Libro catastale” del corrente anno 1798, risultava che, relativamente al territorio di Policastro, la “partita della Mensa Arcivescovile di S. Severina” era composta da diverse voci, tra cui: “Esigge da Pecorari Forastieri per il Jus Decimae per il loro bestiame d. 018.00.” AASS, 024B fasc. 3.
[lxviii] AASS, 001A, 18 febbraio 1524.
[lxix] AASS, 024B fasc. 3.
[lxx] AASS, 007A.
[lxxi] Il diritto di esigere la decima dei frutti delle greggi da parte dell’arcivescovo di Santa Severina è documentato principalmente da due privilegi. “1 Privilegium Ludovici Tertii Joannae secundae filii et successoris Calabriae Ducis directum Capitaneum S.tae Sev.nae et futuris committentis excerta scientie ut faverent Archiepiscopo sive proc.re … decimarum animalium pascentium in territorio dioecesis expeditum in Castro Civitatis Consentiae 1431.” “4 Aliud Privilegium eiusdem directum Universitatibus et hominibus ac magistris iuratis S. Sev.nae terrarum Policastri Mesoracae Rocce Bern.de et Cutroneorum, aliorum que locorum totius diocesis metropolitanae, quod Archiepiscopo eiusdem Metropolitanae Ecclesiae promittant exactionem decimae Casei et Agnorum, seu fructum ovium pro tempore pascua sumentium in tota diocesi, non obstante quod propter guerras, et turbulentias temporum defecirit ab exactiatione Expeditum in Castro Novo Neapolis nono Februarii 1446.” AASS, 002 A, ff. 115-115v. Parlano di decime anche alcuni documenti precedenti, tra cui la famosa bolla di Lucio III del 1183 che è un falso (AASS, pergamena 001). Si dimostra un falso anche il privilegio concesso nel 1145 al vescovo di Isola Luca da re Ruggero che gli avrebbe concesso il diritto di esigere la decima di “omnium animalium ab extera venientum ad ibidem pascua sumendum”. AVC, Privilegio dello Sacro Episcopato della città dell’Isula, in Processo grosso di fogli cinq.cento settanta due della lite, che Mons. Ill.mo Caracciolo ha col S.r Duca di Nocera per il Vescovato, ff. 417 sgg.
[lxxii] “ITEM che quandocumque li homini de Cosenza et de li Casali prefati vadano conli loro bestiame ad subernare alle marine, non possano essere sforzati ne constritti per li offitiali ne per altra persona ad petitione de alcuno Episcopo per ragione de decime de dicto bestiame et loro fructi. Sed tantum ordinarie coram officiali Cosentie, tenor decretationis dicti Capituli est. FIAT.” Cancro M., Privilegii et Capitoli della Citta de Cosenza et soi Casali, concessi dalli Serenissimi Re de questo Regno de Napoli confirmati et di nuovo concessi per la Maiesta Cesarea et la Serenissima Maieta del Re Philippo Nuostro Signore, Napoli 1557, p. 9.
[lxxiii] “IN Nomine Sanctae, et Individuae Trinitatis Amen. Anno D(omi)ni Millesimo Quatragesimo Unde / cimo. Die quinto decimo mensis Martii quartae Ind.s apud T(er)ram Ipsychrò. Regnante Sereniss.mo / D.N.D. Ladislao Dei gr(ati)a Ungariae Hyerusalem, et Siciliae, Dalmatiae, Croatiae et Galitiae, Lodo / monae, Cumaniae, Vulgariaeque Rege Provintiae, et soccalqueriae, ac Pedimontis comite, regno / rum vero suorum Anno Vigesimo Quarto Feliciter Amen. Nos Not.s Angelus cannagroe / de p.ta T(er)ra Ipsychrò Annalis Judex eiusdem T(er)rae, et Julianus de xelso de eadem T(er)ra Ipsy / chrò publicus ubil(ibe)t per totum ducatum Calabriae reg.a aut(oritat)e not.s et testes subscripti ad hoc / spetialiter vocati, et rogati et tenore p(raese)ntis pub.ci transumpti fatemur, et notum facimus / quod p.to die ibidem in n(ost)ri, et subscriptorum testium p(raese)ntia constitutus R.dus in Xpo Pater, et / d(omi)n(u)s Petrus miseratione divina Umbriaticen.s Ep(iscop)us in domo habitationis ipsius, ubi / ad p(raese)ns in infirmitate iacet detentus, ostendit, et p(raese)ntavit quodam publicum instrumen / tum omni solemnitate debbita in talibus roboratum scriptus per manus Not.rii Marci / [pa]pandrea de p.ta T(er)ra, et subscriptum Nicolai de condoleonis manus propriae annalis Ju / [dex] … …stium signis, et subscriptionibus communitum : quod vidimus, leg[imus] … / … ad oculum inspeximus non vitiatum, non cancellatum … / … sui parte abrasum, imo prorsus omni vitio et susp… … / …s, et erat per… tenoris, et continentiae subsequentis. In No(m)ine d(omi)ni … / … …n anno nativitatis eiusdem Millesimo Quatragesimo decimo Regnante [serenissimo] / [D.]N.D. Rege Ladislao Inclito Dei gr(ati)a Hierusalem, Ungariae, Siciliae, Dalm[atiae] / [Croat]iae, Galitiae, Lodomeniae, Cumaniae, Vulgariaeque Provintiae, et soccalqueriae [ac Pedi / montis] comite, regnorum eius Anno Vigesimo Quarto Feliciter Amen. Apu[d T(er)ram] / [Ipsychrò] Die decimo quinto mensis Ap(ri)l(i)s nonae Ind.s. Nos Nicolaus condoleonis [annalis] / [judex p.]tae T(er)rae Ipsychro in eodem anno, Martius de papandria de eadem [Terra regius] / publicus per totum ducatum Calabriae reg.a aut(oritat)e Not.s et testes subscripti … / ti specialiter rogati in testes tenore p(raese)nti scripti pub.ci Instrumenti … / facimus, et testamur, quod eodem die ibidem in n(ost)ri et subs(crip)torum testium … / …vir no. leo bisantius de p.ta T(er)ra asse… / … perrettam de… / …
una parte, et presb(ite)rum Nicolaum de iaccino de casale Celici procuratore procuratorio no(m)i(n)e et pro / parte clericorum casalium dictorum delo manco pertinentiarum vallis Gratis ex altera de deci / ma fructuum, et proventuum animalium consentinorum venientium de p.tis partibus vallis / gratis in tenimentis dictae dioecesis Umbriaticen.s, et sp(ecia)l(ite)r de discordia conventionum fac / tarum, et faciendarum communi consensu p.ti R.di in Xpo patris Ep(iscop)i Umbriaticen.s, et cleri p.torum / casalium antedictorum delo manco : de quibus discordiis, et litigio volentes ipsi procu / ratores quo sup.a, et quilibet pro se pari voto super ipsa charta, et eius tenore finem im / ponere quietis, et pacis postpositis expensarum girurgiarum decursibus quae solent sepius / litigantibus evenire compromiserunt d(ic)tam chartam ad discutiendum et terminan / dum fieri per R.dum in Xpo p(at)rem, et D(omi)num n(ost)rum dominum T. Ep(iscop)um Chatargensem / et dominum Joannem Moranum de Catanzario legum doctorem tamquam Arbitros Juris / prout haec, et alia in istrumento de eorum voluntate facto plenius, et seriosius omn… / …nitate vallatam continetur : quo instrumento facto … / … et actionem ad id quod minuere deberet dictam cha… / …. p.torum R.di in Xpo patris d(omi)ni Ep(iscop)i Catargensis … / … …terminent, et decidant de jure iux.a Compromissum … de factum : … / … per quendam Nuntium destinavit, et retulit ipse Nuntius decisionem a… / … …nis communiter electis consultam terminatam, et laudatam cum sigillo … / …conclusam, et roboratam ac subscriptionibus eorum propriis manibus comm… / … coram nobis p(raese)ntialiter ostendit, et p(raese)ntavit : addens nihilominus … / … decisione à p.tis arbitris, misit quandam l(icte)ram p.to presb(ite)ro … / … venire deberet visurus indictium laudum, et terminationem … / … respondit in haec verba vulgariter exponendo prout per quandam …am vul / … vidimus ad oculum contineri. Nobile viro leoni bisantio de Ipsy / [cro] … suo. Honorabilis pater post salutem recepi l(icte)ram v(ost)ram super / … …tis qui venian… …tentiam quam ferre vultie respon / … / …habui authoritatem compro…
quod aperiantur an pro nobis faciant, an non. Ego non sum aptus esse hinc in antea facia / tis ad v(ost)rum velle semper Spetiani magni die decimo quarto mensis Ap(ri)l(i)s tertiae in / ditionis : per siri Nicolaum de Joacchino de Celico : Qua responsione recepta per eundem / Leonem, presb(ite)r Michael infestans ipsam decisionem ut s.a in contumacia ipsius presb(ite)ri / Nicolai nolentis adesse, volvit coram Nobis à p.tis sigillis, et clausura sup.torum arbitrorum / reserari diligenter inspici, et ad oculum de verbo ad verbum perlegi, et publice devul / gari : qua reserata, et aperta absque omni vitio et suspitione per Nos sup.tum Judicem / notarium, et testes subscriptos, erat per omnia tenoris, et continentiae subsequentis / Die decimo nono mensis Martii quintae decimae Ind.s apud Ipsychrò in p(raese)ntia infra(script)orum testium in domo Joannis spoletini habitationis D(omi)ni Ep(iscop)i Crotonensis ubi est p(raese)ns R.dus / D(omi)n(u)s Petrus Ep(iscop)us Umbriaticen.s ex parte una, et siri Michael Gatius de spezano ma / gno : presb(ite)r Thomasius russus : siri Guido Comito de p.to loco : siri Nicolao Joaccino, et siri Nicolao de ammineto de celico ex parte altera vigore cuiusdam rescripti di / recti d(omi)no R.do Jacobo Archiep(iscop)o Sanctae Severinae per quondam bonae memoriae domi / num Innocentium Papam Septimum : praefatique d(omi)ni clerici p.torum casalium praetendentes / habere debere ius decimae omnium agnorum et fructuum lactis v(idelicet) casci et ricociorum / pecudum portatarum de partibus ipsorum casalium ad sumendum pascua Eyemalia in teni / mento dictae T(er)rae Ipsychrò et tenimentis dioecesis Umbriaticen.s p.to D(omi)no Ep(iscop)o contrarium / asseruerunt offerendo hinc inde in parte certa jura eorum coram p.to Archiep(iscop)o Sanctae / Severinae judice delegato p.to. Et quia litigia max.e personis ecc.cis sunt extra inter / veniente communium amicorum tractatu p.tus R.dus d(omi)n(u)s Ep(iscop)us de sui bona voluntate ami / cabiliter, et paternal(ite)r tractando eosdem consensit, et denuntiavit in mani… / cedit eisdem pro se ipsis, et succexoribus eorum medietatem agnorum et agnarum … / et dastrarum ovilium existentium in dicta dioecesi et tenimentis Umb[riaticen.s] ter / tiam partem casei et ricotiorum singulis annis et sic promisit d(ic)tus R.dum [Episcopum] / pacta teneri, et observari ex nunc in antea, et in futurum. Et p.ti … / cum potestate … Archiep(iscop)i Consentini pro se et aliorum tange…
et asseruerunt tamquam procuratores eorumdem hucvenientium. Et quia oportet de p.tis caute / lam et instrumenta hincinde haberi ad cautelam partium ipsarum placuit eisdem quod ad / consilium sapientium faciant instrumenta omni debbito consilio vallata non mutata sub / stantia veritatis, et promiserunt ambae partes ipsae in exigendo ius p.tarum decimarum quod sint / communes et similiter recipiendo dictum jus in dicta dioecesi in ovilibus propriis scrip / tum die, Ind.ni praemissis. Et si aliquos fidatus vellet recedere non soluto p.to Jure quod / debeant omnes ipsum cogere in quocumque loco terr.o in dioecesi Consentinae scriptae ut / supra. Nos Ant.s spoletinus Petrus miseratione divina Umbriaticen.s Ep(iscopu)s sup.ta fate / mur, et ideo propria manu subscripsimus. Nos Ant.s spoletinus Dei gr(ati)a Ep(iscopu)s Croto / nensis testamur. Ego siri Michael Gatius de spezano magno procurator clericorum / casalium Consentinorum diocesis p.tae p.ta facta fateor. Ego presb(ite)r Thomasius russus / de spezano magno procurator clericorum casalium Consentinorum dioecesis p.tae fateor / et manu propria subscripsi. Ego siri Giudo comito de Spezano magno p.ta fateor. Ego siri Nicolaus de Jaccino de celico procurator clericorum dioecesis consentinae p.tae p.ta fateor. Ego siri Nicolaus de agminneto de celico p.ta fateor. Ego presb(ite)r Michael perrecta Decanus Dioecesis Umbriaticen.s testor. Ego presb(ite)r loisius de paterno te / stor. Ego presb(ite)r Julianus russus Archipresb(ite)r T(er)rae Ipsychro testor. Leo bisantius testor. Ego Nicolaus de principato testor. Ego Joannes smeraldus testor. Dubbium / oritur ex praemissis quia praelibatus d(omi)n(u)s Ep(iscopu)s Umbriaticen.s derogat stare p.tae conven / tioni asserendo p.tam conventionem facere non potuisse in fraudem et praeiuditium / jurium ecc.ae suae sine consensu, et delliberatione cap(itu)li ea propter petitum est à no / bis T. Dei et ap.cae sedis gratia Ep(iscop)o Catanzarii, et Joanne morano legum doctore / per Egregii viri Leonis bisantii quod deberemus de jure determinare si vigore / et vir[tude di]cti pacti p.ti d(omi)n(u)s Ep(iscop)us teneatur ad observantiam p.torum vel possit contrave / [nire] … …ritate dicenda videtur nobis quod s.a T. Ep(iscop)o Catanzarii et Joannello mo / [rano legum d]octori ex retroscripto pacto et conventione oriuntur infra dubbia / … p.tus d(omi)n(u)s Ep(iscopu)s Umbriaticen.s … facere talem pactum seu conven
tionem renuntiando medietatem p.tae decimae sine consensu et delliberatione capituli, ita / quod ab ea recedere non possit tamquam facta in praeiuditium ecc.ae. Secundum dubbium si istam conventionem / valet perpetuo, an valeat vita Ep(iscop)i Umbriaticen.s durante. Tertium dubbium an p.tus Ep(iscop)us Umbriaticen.s possit contravenire facto suo revocando p.ta. Et ad primum dubbium quod dictus / Ep(iscop)us Umbriaticen.s non potuit facere talem pactum, seu conventionem de renuntiatione de / cimae praelibatae probatur : nam eaquae contra ius fiunt, n(ull)a ea quae contrarius fiunt, nulla sunt ipso jure. §. de integrum / restitutione C. constitutus et ibi Glo. et in C. de his quae fiunt à ma. parte cap(itu)li, et C. in / dubbium de legibus, sed facere conventiones super rebus ecc.cis in praeiuditium ecc.ae est contra / formam juris, et in §. si quis presbiterorum de rebus ecc.ae alienandis vel non, et C. nulli et / §. ad aures eodem titulo. Ergo p.tus Ep(iscop)us praedictam conventionem seu renuntiationem face / re non potuit; praeterea Ep(iscop)us quicquam alienare potest, vel donare, seu permutare, nisi ea / faciat, ut meliora prospiciat : et cum tocius, vel maioris partis cleri consensu, atque tractatu / et deligat quod non sit dubbium suae Ecc.ae proficiendum : ut in §. quanto §. novit, et C. p.s et C. / cum ap.ca extra de his, quae fiunt à praelato sine consensu cap(itu)li sed in casu p(raese)nti p.tus d(omi)nus / Ep(iscop)us contraxit seu convenit in praeiuditium suae ecc.ae, prout patet manifeste, quia erat / in possessione totius decimae et renuntiavit medietatem, et in requisito clero : ergo dicta / pacta, seu conventio contra formam juris factam est ipso iure nulla, ut in iuribus sup.a alle / gatis : nec obstat capitulum subgestum, et C. ex multiplici ex.a de decimis, et C. sedis, et / C. de coetero, et C. veniens ex.a de transactionibus, ubi dicit, quod inter ecc.cas personas fit con / ventio cum consensu Ep(iscop)i, quia loquitur in presb(ite)ris et aliis personis ecc.cis subiectum Ep(iscop)orum et / Archiep(iscop)orum : quae personae cum consensu Ep(iscop)i, seu Archiep(iscop)i bene conveniunt : sed in casu / n(ost)ro in conventione p.ta consensus cap(itu)li ut juris est non intervenit, ergo ab ea recedere potest / tamquam non iure facta, ut in iuribus supra allegatis. Ad secundum dubbium videtur quod licet non / intervenit consensus capituli, et sic ista pactio seu conventio non valuit perpetuo ut in … / supra allegatis : non tamen valent jura p.ti Ep(iscop)i Umbriaticen.s durante hoc notanto in ea ex mul / tiplici, et in C. subgestum extra de decimis et C. veniens et in C. ii de transact : in quibus dici / tur quod si persona ecc.ca alienat sine aut(oritat)e superioris nulla conventio est personalis … / paciscentis : Ergo cum in casu p(raese)nti dictus Ep(iscop)us pactus est sine consensu cap(itu)li … ecc.ae / praeiudicare non potuit : t(ame)n sibi suae utilitati praeiudicat p.ta non obstant … jure decimarum ani / malium, et eorum fructuum sunt per alia ratione prediorum in quibus pascua adsumenti
decima debetur, ut in C. commissum ex.a de decimis C. ad ap(osto)licam eodem titulo, et illi ecc.i / debetur illa decima in cuius territorio pascua adsumunt, ut in juribus sup.tis et sic Decima / animalium, et fructuum : quae percipiuntur in territorio dioecesis Umbriaticen.s sunt jura / ep(iscopa)lia : quae ad ipsam ecc.am Umbriaticen.s spectant, ut in dicto C. ad apostolicam, et in C. commis / sum; et sic ipse decimae non spectant ad ipsum Ep(iscop)um respectu personae : quia tunc haberent / locum contrarium ut in C. quia Nos, et C. requisiti ex.a de testamentis : sed in casu nostro / Ecc.ae nomine cui debetur decima intelligo Ep(iscop)us tamquam caput ecc.ae ut in C. novit, et C. quanto / ex.a de his quae fiunt à prelato sine consensu cap(itu)li, et cap(itu)lorum, seu illa de cap(itu)lo sunt mem / bra, ut in d(ic)to C. novit et §. Ep(iscop)us et sui fr(at)res de capitulo unum corpus sunt in d(ic)tis cap(itu)lis / merito dictus Ep(iscop)us p.tas decimas, tamquae iura Ep(iscopa)lia sunt sui fr(at)ibus, et eius presbiteris ecc.am suam / sua vita durante alienare non potest, nec pacisci, seu conventionem facere, ut in d(ic)to C. no / vit, et C. quanto qui nemo alios fructus donare, seu aliter alienare Ep(iscop)us non potest sine / consensu, et delliberatione capituli, ut in C. pastor ex.a de dona : praeterea transactioni / vel pactionibus voluntariis necessarius est consensus, quocumque fiunt est ex.a de transact : / C. ii per innocentiam, sed interest canonicis, et cap(itu)lo ut bona Ep(iscopa)lia non alienentur, sicut / bona eorum, ut in C. si cum clerico de verborum significationibus, et de testamentis requisiti / per Innocen. in d. C. novit : merito alienatio seu conventio p.ta per D(omi)ni Ep(iscop)i ecclesiam / sua vita durante non valit, sine licentia quorum interest : propterea sui communis alienatio / sine voluntate sociorum non tenet ut l. sancimus comuni dividendo l. servo lectioni / delegato p.to probatur lege eadem §. caro eodem titulo : sed bona Ep(iscopa)lia sunt comunia / quoad fructum, et obventiones : quia de iure spectant seu dividi debent inter ecc.am / Ep(iscop)um Cap(itu)lum et pauperes ut in C. iubemus de sacro sanctis ecc.ae et C. merito dictus / Ep(iscop)us renuntiando medietatem dictae decimae praeiudicare non potuit sibi, ecc.ae suae, pauperi / bus, et suo capitulo, ut in juribus sup.a allegatis : Et quia in re comuni in quolibet ces / pite tunc est pars sociorum ut in dicta le: sancimus, ut ibi in dictis juribus pleno nota / tur. Ad Tertium dubbium dicendum est quod d(ic)tus Ep(iscop)us qui sic alienavit seu convenit / renun[ciare] dictae decimae ecc.am se iurasset ipsemet revocare potest, ut notat Glo. ut / in … presbiterorum ex.a de rebus ecc.cis non alienandis : propterea p.ta jura, et mul / ta alia quae possunt allegari videtur nobis qui s.a T. Ep(iscop)us Catanzarii, et Joannello morano /
Legum doctori quod d(ic)tus Umbriaticen.s Ep(iscop)us sine consensu, et voluntate sui Capituli / conveniri, seu pacisci non potuit remittendo, et rinuntiando medietatem dictae / decimae, et ipsemet potest contravenire revocando saniori semper consilio salvo. / Et pro certitudine quorum interest p(raese)ns consilium scripsimus, propria subscriptione / denuntiavimus nostris propriis sigillis quibus utimur. Nos qui s.a T. Dei et / apostolicae sedis gratia Ep(iscop)us Catanzariensis praemissa fatemur. Ego Jo(ann)es moranus legum doctor praemissa fateor. Cuiusquidem decisiones, et de / terminationes divulgamus, Et inspecto tenore presbiter Michael p.tus / et procuratorio nomine quorum s.a asseruit sibi tam pro se quam nomine et / pro parte dicti Ep(iscop)i Umbriaticen.s eiusque maioris ecc.ae et cleri ac capituli / dioecesis ipsius plurimum interesse de praedicta divulgatione seu apertura / divulgationis, ac notationis, et declarationis, ac contentorum in ipsa de / cisione, ac veritatis rei taliter gestae prout est s.a nominatum habere, prop / terea instatur ad futurorum memoriam, et aliorum quorum interest, et poterit / interesse certitudinis, et cautele p.tae Ecclesiae Umbriaticen.s ac cleri seu / capituli eiusdem, requisivit Nos qui s.a Judicem, Notarium, et testes subscrip / tos quod de praemissis omnibus facere deberemus publicum instrumentum / nil addito, vel subtracto. Nos enim videntes ipsum iux.a petere, et tam / quam iusta petenti non est denegantibus assensus, et maxime quia nemini / officium nostrum quod est publicum possums de jure denegari praedictam / assersionem leonis prout facta fuit, dictamque remissivam dicti presbiteri Ni / colai ut ponitur vulgo scriptam in sermone literali transumptam, nil addit / vel mutato, de propria et vera substantia ac apertura decisionis …s / tenoris terminationis cuilibet praemissae, rei gestae prout vidimus iudicamus / et ad oculum inspeximus. Ego qui supra Not.s publicus supra dictum / nil addendo vel subtrahendo in hanc publicam formam redegimus, et transformavimus.
Unde ad futuram rei memoriam, et quorum interst et interesse poterit et certi / tudinem et cautelam p(raese)ns pub.cum instrumentum exinde factum est scriptum / et subscriptum per manus mei p.ti not.rii propria manu no.ris signo, et subscrip / torum solitis signati, nostrique sup.a judicis, et aliorum subscriptorum testium si / gnis, et subscriptionibus propriis roboratum, scriptum ut s.a. Ego Nicolaus / de condoleonis qui s.a Annalis Judex interfui et me subscripsi. Ego leo / bisantius testor. Ego Onofrius de smeraldo testor. Ego Marcus de papan / drea de T(er)ra Ipsychrò qui s.a regius publicus per totum ducatum Calabriae / reg.a aut(oritat)e not.s p(raese)ns publicum instrumentum scripsi, et me subscripsi post eius / assertiones et locutiones eique p.tus R.dus in X.o pater asseruit sibi pluri / mum fore et esse oportunum de p.to originali instrumento hunc transumptum / in carta membrana ubique plena fides prestari, supplicavit nobis quo s.a / judici, not.s et testibus sup.tis quod de ipso originali faceremus publicum tran / sumptum. Nos enim eius petitioni annuentes ex eo quia vidimus ipsum / iux.a petere, et tamquam iux.a petenti non est denegandus assensus max.e quia / officium n(ost)rum est publicum non possumus de jure denegare, p.tum originali / instrumentum nil addito vel mutato vel quod de verbo ad verbum tran / sumptavimus et in hanc publicam formam redegimus. In quorum rei testi / monium omnium quorum interst et interesse poterit certitudinem, et / cautelam p(raese)ns publicum instrumentum exinde factum est per manus / n(oste)r qui s.a not.rii propriis signo et subscriptionibus propriae manus comuni / tum n(ost)rorum quo supra et aliorum subscriptorum testium signis, et subscriptioni / bus roboratum, quia in aliquibus partibus abrasum et obscurum videtur / qui vitio sed errore proevenit, et manu n(ost)ra emendavimus, ubi legitur / nemini de jure possumus denegare, defuit ipsa particula nemini quam / …, et ideo pro authentico habeatur. Scriptum et actum. Anno, / mense, die, loco et inditione praemissis.
Signatum solito signo eiusdem Not.rii sub signo bracchii cum manu.
Ego Not.s Angelus Cannagroe qui s.a Judex p.ta testor
Ego leo bisantius testor
Ego Joannes de smeraldo testor
Ego leonardus de martino J. ad con. testor
Ego Hodovisius de paterno p.ta testor
Ego Ciccus de rosis premissis interfui et me subscripsi
Ego Joannes Tarantinus p.ta testor
Ego no.s Joannes de m.o Angelo de T(er)ra Ipsychrò interfui et me subscripsi
Ego eligius bisantius premissis interfui et me subscripsi
Ego Honofrius de smeraldo p.tis interfui me qui s.a subscripsi
Ego qui s.a Julianus de xelso Ipsychronens pub.cus ubilibet per totum ducatum / Calabriae reg.a aut(oritat)e not.s p(raese)ns pp.cum instrumentum scripsi et me subscripsi / manu propria. AASS, 007A, ff. 001-004.
[lxxiv] “In nomine Sanctissimae Trinitatis Amen. Franciscus Bennius Dei, et Ap(osto)licae Sedis gr(ati)a E(pisco)pus Marturanen. Vertente differentia inter Ill.m D(omi)num Joannem Smeraldum miseratione divina, ArchiE(pisco)pum Consentinum, et R.m Nicolaum Situm Episcopum Umbriaticen.s super iure decimae ovium pascua sumentium in territoriis de la Sila, et ibi foetantium, quae territoria cum sint intra limites Iurisdictionis Ecc.ae Consentinae, consequenter pretendebatur per eiusdem Mensae procuratorem habere ad minus medietatem dictae decimae de ovibus pasculantibus, et foetantibus in dictis territoriis, et capta per nos informatione de consensu ambarum partium, mediante compromisso coram nobis stipulato, et iurato, et visis omnibus actis, ac testium depositionibus in numero sufficienti, et opportuno examinatis, fuit per nos pronuntiatum, et arbitratum minime licere dicto procuratori Archiep(iscopa)lis Mensae Consentiae exigere, vel exigi facere praedictum Jus decimae in dictis territoriis positis in Dioecesi Consentina tam de praeterito, quam in futurum, et defoetibus, quae nascuntur in dictis locis neque totum, neque partem decimae pertingere sup.a dictae Mensae Verum etiam neque de fructibus, ex quo in dicta Civitate Consentiae non adest Consuetudo exigendi huiusmodi decimam prout reperitur pacifice in dioecesi Umbriatici à tempore in quo nulla est hominum memoria in contrarium, et tractu temporis praescripta est actio, quia una Ecclesia potest praescribere contra aliam; Neque potuisse Rev.m Franciscum Spulitrinum Decanum Umbriatici, et mensae procuratorem conveniri promittendo medietatem decimae in fraudem, et praeiudicium Ecclesiae Umbriaticen.s sine consensu, et deliberatione Episcopi et Cap(itu)li. Et quia promissio fuit personalis expiravit morte conditoris, et propterea nullius roboris et momenti prout tenore p(raese)ntium nullam, et infirmam declaramus. Et vice versa dictum D(omi)num E(pisco)pum Umbriaticen.s fore, et esse manutenendum in possessione exigendi dictam integram decimam iuxto solitum, et consuetum ab omnibus animalibus minutis etiam foetantibus in territoriis extra cursum, Dummodo ibi pascua sumant stabulam et incrementum recipiant, prout nos p(raese)nte diffinitivo decreto sententiamus et arbitramur, isto, et omni modo meliori. Datum in [palatio] nostro Ep(iscopa)li die 9 Junii 1434. F. Episcopus Marturanen[.s] latum die quo supra p(raese)ntibus omnibus R. R. de Cap(itu)lo C. S. … Franciscus Soterus att.s Ep(iscopa)lis Curiae”. AASS, 040A, ff. 37-37v.
[lxxv] AASS, 007A, 008A, 009A, 014A, 022A, 023A, ecc.
[lxxvi] “Taglia p(ri)ma di Carnevale / Taglia seconda di quaresima / Taglia terza di Pasca / le sud.te taglie sono di Cascio, e Ricotte.” AASS, 054A.
[lxxvii] Padula V., Persone in Calabria, Ed. Rubettino 2006, p. 111.
[lxxviii] Dal latino “talea”: un bastoncino sul quale, mediante l’incisione di tacche, si segnava l’importo della somma dovuta che, dopo essere stato spaccato in due, rimaneva alle parti come prova di quanto stabilito.
[lxxix] AASS, 007A.
[lxxx] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 307, ff. 093-094v.
[lxxxi] AASS, 007A.
[lxxxii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 303, ff. 062v-063v.
[lxxxiii] Un apprezzo della Città di Santa Severina, in Siberene Cronaca del Passato per le Diocesi di Santaseverina – Crotone – Cariati, p.122.
[lxxxiv] ASCZ, ANC. Busta 1665, anno 1772, ff. 9v-10.
[lxxxv] AASS, 015D fasc. 1-2.
[lxxxvi] Padula V., Persone in Calabria, Ed. Rubettino 2006, pp. 112-113.
[lxxxvii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 301, ff. 128-128v. ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 879, ff. 062-063.
[lxxxviii] “Fra noi le greggi di capre e di pecore si danno a capo saldo, ma per lo più si associano.” Padula V., Persone in Calabria, Ed. Rubettino 2006, p. 111.
[lxxxix] AASS, 010D fasc. 2.
[xc] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 424-426. “Et si pestilentia morirentur he animalia, teneantur probare per provisorem qui tenetur visitare illa quolibet mense et per publicum instrumentum et, si aliquod assignet in guardiaspensa, excomputetur ei secundum ius.” Reg. Ang. XXXI, 1306-1307, p. 147.
[xci] “Il vajuolo detto postella per le pecore è una malattia quasi inevitabile, come il vajuolo umano. I grandi proprietari han tentato con qualche successo l’inoculazione del vajuolo benigno.” Pugliese G. F., Descrizione ed Istorica Narrazione di Cirò, Napoli 1849, vol. I pp. 115-116.
[xcii] Il termine Carnevale (“Carnalevare”) rappresenta quindi il termine che segna la fine dell’obbligo da parte del padrone di fornire la carne ai pecorai alle sue dipendenze.
[xciii] “Quando il gregge si dà a soccio pretto, il padrone non spesa i pastori, ma dà loro il viatico (mmiata, inviata) da Pasqua alla festa di San Pietro in fave, olio, sale e polenta. Ma quando si dà, come diciam noi, metà a suolo, e metà a parte, il pastore riceve dal padrone da quattro a cinque tomoli di grano o frumentone, più o meno secondo i luoghi ed i patti, e cede a lui la metà di ciò che potrà spettargli dei frutti della mandria. Son frutti della mandria l’agnellatura, il latticinio, la lana e lo stallatico. Al dì festivo di San Pietro si fa la massa delle spese in erbaggio, in viatico, e nelle tre scarnalasciate di Natale, Carnovale e Pasqua, e, ristorate le spese, ciò che avanza del guadagno si divide in due parti, l’una delle quali cade al padrone e l’altra al mandriano ed ai pastori, che se la compartiscono.” Padula V., Persone in Calabria, Ed. Rubettino 2006, p. 112.
[xciv] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciaro, Busta 182 prot. 803, ff. 101-102.
Creato il 9 Marzo 2019. Ultima modifica: 24 Aprile 2024.