La mensa dei poveri e la mensa dei ricchi nel Crotonese
Le risorse alimentari
Gabriele Barrio descrive il territorio crotonese copioso di grano e di abbondanti pascoli. Produce vini ottimi, olio, miele, capperi ecc. Si pratica la caccia agli animali selvatici e si catturano molti uccelli. Loda la floridezza di Crotone: “Cerealium inaudita foecunditas ac bonitas. Arva insuper locave herbida sunt et pascua armentorum gregumque pabulis accomodata, cingitur et urbs vivis ac perspicuis fontibus, et hortis irriguis. In molendis frugibus pistrinis utuntur. Fit hic similago triticea ac globuli probatissimi, ac figlina opera non vulgaria. Fiunt et vina clara. Nascitur in Crotoniato agro rubrica fabrilis, et cappares laudatissimi. Fit sesama et gossipium. Oritur et herba, qua masticem fundit.”. Anche gli altri abitati abbondano. Di Santa Severina scrive: “… fiunt vina praeclarissima … Fit et oleum optimum olivae ad amygdalarum magnitudinem crassae et carnosae conditae in doliolis optimae sunt esu. Sunt et viridaria citrorum, limonum et malorum aureorum arboribus instruncta. Fit gossipium et sesama …”. Di Strongoli: “Ager hic optimi frumenti, et aliarum frugum ferax est, et armentorum, pecorumque pabulis accomodatus. Fit gossipium, et sesama, nascuntur cappares, et foenicula marina sunt et testudines terrestres: Fiunt aucupia turturarum, turdorum, palumborum et aliarum parvarum alitum.” ecc. (Barrio G., Antiquitate et Situ Calabriae, pp. 307 sgg.).
Anni dopo riprendendo il Barrio, il Marafioti descrive il territorio di Cirò: “quivi si ritrova un’albero simile al terebinto, che da molti è giudicato ‘l vero terebinto, ha ‘l pomo poco minore della mandorla; però è di soavissima dolcezza nel mangiare : abbondano li giardini di questo paese di diversi frutti per l’abbondanza delle acque frasche, che nascono: Sono spassosi questi luoghi per le molte caccie d’uccelli, quivi si fa copia di grano, vino, oglio, e mele, la simila di questo paese è perfettissima” (Marafioti G., Croniche et Antichità di Calabria, Padova 1601, p. 203).
Lo stesso è descritto nei vari apprezzi. In quello di Santa Severina del 1653 si legge: “Accosto la città sono vigne, giardini di frutti, agrume, olive et il restante è territorio seminatorio, piano, colline, montagne piccole quale servano per herbaggi che tra Scandale e S.ta Severina vi è il bosco detto Ferrato della città per legnare pascolare tanto l’utile S.re quanto l’università di S.ta Severina, Santo Mauro et Scandale nelle quali vi sono più acque sorgente per comodità di bere et per animali dove vi è caccia di lepari et altri animali quatrupedi e di penne conforme li tempi dalli quali ne pervengono grani maiorichi, grani forti, orgio, avena, tutte sorte di legume, vini bianchi, rossi, melloni d’acqua e di pane, verdume, lini, candavi et bambace”. “Li cittadini si esercitano nella campagna a zappare, arare e coltivare li campi, le loro donne si esercitano al filare, tessere e cosire, ed altri esercizi di loro case”.
Grano, vino, olio, formaggio, miele, orzo, ceci, fave e uova, sono le risorse principali alle quali si aggiungono le carni suine, ovine, vaccine e avicole, i frutti (pira inganna villano, pira rossolilli, pira ficatelli, pero gentile, peri vernitichi, pomo fano, agromolo, cetrangolo, granati, castagne, ecc.) le verdure (cipolle, lattughe, ecc.) ed i pesci (“In questo fiume sono bellissime trotte verso sopra le montagne, et nella parte dove sbocca alla marina cefali, et altri pesci, tra quali vi sono storioni, et tanto grandi …” (Nola Molise G.B., Cronica dell’antichissima e nobilissima città di Crotone e della Magna Grecia, 1649, p. 61).
Nei conti comunali di Melissa del 1561/1562 sono elencati, oltre i principali: pane, vino, olio e caso, il sale, le uova, le carni (“pollastri”, “frisinghe”, “grastati”, “salcizi”, “crapetti”, “porci”, “galline”, “zimbaro”, “palumbi”, “porco silvagio”) i pesci, il miele, lo zafferano, il pepe, la semola, la ricotta, i maccheroni, i meloni, i cavoli, le radici “et altre foglie”.
Negli stessi anni la Catapania della stessa elenca: grano, olio, vino, formaggio, fogliame “domite et selvaggie”, carni (buoi, vacche) castagne, noci, mandorle, nocelle, pepe, zafferano, zuccheri, cogliandri, miele, pesci, frutti, pane, salumi, sarde, tonnina, tarantello, anguille, curati, cefali, ricotte e aceto.
Pane, vino, agnello, carne porcina, vaccina e vitella, olio, salato, formaggio, galline, pollastri, piccioni, uova sono presenti nell’apprezzo del 1653 della città di Santa Severina: “Et a rispetto del vivere lo Pane si vende alla Piazza uno grano once dudice. La Carne Vaccina a grana sette la Carne d’Agnello a grana sei lo vino a grana quattro la Carrafa. Lo Salato a grana 16. Lo formaggio … uno Carlino la pezza quello secco a grana 15 la pezza q.le pesa un rotolo et mezzo l’oglio viene da fuora e vale grana otto lo quarto. Le pesce minuto a grana diece lo pesce grosso grana dudici si intende il rotolo alla grossa d’onze 48. Le Galline dui Carlini. Li pollastri grana sette et mezzo. Li peccioni a grana sette. Le ova tre a grano. In detta Piazza si vendono tutte sorte di verdume frutti destate che si vanno vendendo dalli figlioli per la Città et sono agrume et altre robbe Comestibili per uso et grassa di detti Abitanti” (AASS, 31A).
Le botteghe
Già presenti fin dal Medioevo nei maggiori centri (Crotone, Santa Severina, Cutro), nel Settecento in quasi tutti i paesi, tranne alcuni casali albanesi, ci sono una o più botteghe, dalle quali gli abitanti possono comprare i principali generi alimentari necessari al vivere. “Per servizio e grassa de’ Cittadini, e Forastieri vi sono nella piazza due botteghe lorde ed una bucceria; si vende pane vino oglio cascio casicavalli raschi ricotte sarde salate tonnina ova galline pollanche piccioni carne di vitella annacchi vacca agnelli capre porci lardi e prisutti lardo squagliato” (AASS,109A, Apprezzo della Città di Santa Severina, 1687).
“L’abbondanza che in detta terra (Casabona) vi si fa e solo di grano che oltre il basto dei cittadini di detta terra il sopravanzo si vende nella città di Cotrone essendo questa la loro industria. Li vini che vi si fanno sono di buona qualità, però non sono sufficienti e bastevoli per tutto l’anno a cittadini … De frutti poco vene sono e quelli che ve ne sono sono di buonissima qualità … Vi sono due botteghe che vendono caso, oglio et altro commestibile ivi anche vendono vino, e vi sono similmente due chianche che macellano carne de li castrati come alcune volte vitella.”. “Il vivere delli medemi (S. Nicola dell’Alto) non è molto abbondante poiché il vino che si fa, si fa in territorio di Casabona, e sono necessitati a comprarlo quasi tutti da forastieri. Di frutti ne’ meno vi è molto abbondante, cioè da poterne vendere a forastieri, ma solo per quello che serve per uso proprio.”. “Botteghe (Carfizzi) non ve ne sono che possi vendere pane, vino e altra cosa commestibile, come anche non vi è chianca che macella carne” (ASN, Apprezzo del tavolario Giuseppe Pepe, 1714). “… si serve la maggior parte di detta gente (Verzino) del pane, oglio, vino, formaggi, salami, carne ed altri viveri, e commestibile da una bottega … Dove pubblicamente vendesi ad ogn’altro ciocchè li bisogna, ammazzandogli degli animali pecorini, ed altre volte anche vaccini, e di buona qualità, ed a prezzo mercato, sebbene molta della gente si fa il pane in casa propria, e tengono delle proviste per loro comodo, ed uso del vino, oglio, formaggio, ed altro. “La maggior parte di detta gente (Savelli) si serve del pane, oglio, vino, formaggio, salami, carne, ed altri viveri e comestibili da una bottega …Tagliandosi carne d’animali pecorini, e qualche volta vaccina … e taluni poi si fanno il pane in casa propria, che vanno a cuocere ne’ forni publici” (Arch. Com. Savelli, Apprezzo dell’Ing. Tavolario Giuseppe Pollio del 1760).
A ciascuno il suo
Nel sinodo del 14 maggio 1564, al tempo dell’arcivescovo di Santa Severina Gio. Battista Ursino, per jus cattedratico i vescovi suffraganei, gli abbati, i priori, gli arcipreti, i canonici, i preti, i rettori, i cappellani, i “plebani” e le confraternite dovevano pagare un censo. Mentre la maggior parte lo versava in libre di cera o in carlini, l’abbate di S. Maria del Molerà portava un porco, l’arciprete di S. Mauro due polli, il prete greco del casale di Gaudioso 15 polli, il prete greco del casale di Troiani 15 polli ed il prete greco di Cotronei 25 polli (AASS. 006A, sinodi ff. 3 sgg).
L’arcivescovo esigeva dalle greggi, che pascolavano su tutti i corsi della diocesi, la decima sugli agnelli, sui capretti, sul formaggio e sulle ricotte. Quando i terreni erano a semina, i coloni dovevano pagare alla chiesa parrocchiale un tomolo di grano ed uno di orzo per ogni paio di buoi aratori: “Item che li homini et un.ta di detto casale (Santo Mauro) siano tenuti ogni anno pagar la decima di uno t.o di grano alla grossa del meglio che faranno per ogni paro di voi aratorii al detto arcip.te”, (AASS, 013A, f. 102). Oltre ai censi che gravavano il pascolo e la semina vi erano poi quelli sulle case.
Dalla visita diocesana del 1589 del vescovo di Isola Annibale Caracciolo sappiamo che le abitazione nel “Borgo”, essendo state costruite sul terreno appartenente alla chiesa, erano gravate da un censo annuale che obbligava ogni colono, o famiglia casata, a pagare al vescovo, il 15 agosto di ogni anno, una gallina per ius soli (il censo fu poi trasformato in denaro e ancora all’inizio dell’Ottocento il vescovo di Isola esigeva ben 120 censi enfiteutici sopra le case) ed il terraggio in grano per il terreno. A questi oneri si aggiungevano poi delle corvée (Marino F., Ragioni, p.332). Lo stesso esigeva l’abbate di S. Maria d’Altilia Tiberio Baracco da coloro che abitavano, o sarebbero andati ad abitare, nel casale dell’abbazia: “per ciascheduno casalino de loro habitatione carlini due et una gallina anno quolibet. Item la decima di tutte le bestiami cioè pecore, capre e porci di loro allevi per ciascheduno anno. Placet.” (ASCZ, Platea antica, f. 2v, 1582, in Miscellanea Monastero S. M. di Altilia).
Galline, porci , agnelli, capretti, formaggio, ricotte ecc. passavano ogni anno dai coloni, dai pastori e dalla popolazione ai nobili, ai feudatari ed agli ecclesiastici. Il 26 gennaio 1682 il vescovo di Crotone Geronimo Carafa sollecitava l’invio di un maiale “… Havendoci fatto instantia il R.do economo di questa mia mensa vesc.le che il sindico della t.ra di Papanici mia diocesi ogni anno nel di della Nativita di N.ro Sig.re per tempo immemorabile ha riconosciuto questa mia mensa di un porco in segno di di ubbidienza e perche il pred.o sindico seu suo esattore ha mancato di complire del segno d’ubbidienza nella prossima passata natività …” (AVC, senza segnatura). Aspre liti opposero nei secoli feudatari e vescovi per spartirsi il bottino. Il procuratore della mensa vescovile di Strongoli esigeva la decima sugli agnelli, sul formaggio e sulle ricotte delle pecore che pascolavano sui territori feudali di Serpito e Santo Mauro. Poiché i capimandria rifiutarono, egli chiese l’intervento del governatore, il quale inviò il mastrogiurato con dieci armati, che si presero 68 agnelli, 87 forme di formaggio e, per il loro intervento, altri 2 agnelli, 4 forme di formaggio e 24 ricotte, (ASCZ, B. 1124, f.lo 1753, ff. 59-61).
La fame
“Mentre lui visse non magnò altro, che mele, e pane, ne gustò vino giamai, le sue bevande non erano altro, che herbe crude, ò cotte, non magnò mai frutti di mare, non fu mai saturo, non donò mai scandalo di sua vita, non magnò mai fave, et ordinò alli suoi discepoli, che in modo alcuno ne magnassero”. Così il Nola Molise tratteggia il cibo di Pitagora (Nola Molise G. B., Cronica dell’antichissima e nobilissima citta di Crotone e della Magna Grecia, 1649, p. 132).
I nobili non dovevano mangiare fave, un alimento proprio del popolo, come dimostra la donazione fatta nel giugno del 1115 da Riccardo Senescalco, figlio del conte Drogone e nipote del Guiscardo, all’abate Raimondo ed ai monaci di Santo Salvatore di Monte Tabor. Fra le concessioni e privilegi, in territorio dell’attuale Cirò, il Senescalco concesse anche “totam vallem illam in qua fabas seminatas habui, quas tempore famis pro Dei amore pauperibus erogavit” (Maone P., Contributo alla storia di Cirò in Historica, 2/3, 1965, p. 109).
Il tipo di alimentazione variava a secondo delle classi sociali. Pane, fave, favette, favarole, orzo, germano, verdure ed erbe selvatiche costituivano gli alimenti della maggior parte della popolazione. La malnutrizione a causa di un menù a base di vegetali e frutta era la causa principale della mortalità, come si rileva dalla lettera inviata da Crotone il 18 agosto 1672 da D. Lelio Manfredi al nunzio di Napoli: “… Intorno alla voce sparsa delle malattie di questa Provincia devo dirle ch’in Cotrone, e luochi per diece miglia distanti non s’intende correr infermità comune, e maligna, ma qui da Maggio inquà son morti di mali diversi più che quaranta persone in circa della genti più povera, che nella carestia si è malamente cibata, e patito disaggi nell’inverno passato horidissimo. E di presente sibene com’è solito ogn’anno in queste marine si veggono febricitanti, che sono per la maggior parte di quei che pratticano in campagna, e sregolatamente usano de’ frutti …” (ASV, Nunz. Nap. Vol 78, f. 112).
Sulla situazione alimentare e sui rimedi contro la malattia getta una luce una testimonianza della metà del Settecento, riguardante il governatore di Caccuri. “Una sera mandò il suo Servidore, e soldato per comprare ova, ed entrato in casa di un poveretto chiamato Nicola Perito, il quale perche stava ammalato, e ne teneva due per restorare le di lui forze, doppo averli presi a forza lo fece carcerare barbaramente dentro il carcere criminale, ed ad ora che la gente era ritirata scese il d(ett)o Gov(ernato)re assieme con il d.o Serv.re, ed il serviente fece aprire il carcere, ed ordinò al serviente che l’avesse fatto una bastonata, ed il cennato servidore lo teneva ben legato, sino a tanto che si rese vendicato” (ASCS, Regia Udienza Provinciale 1766, Mazzo 29, fasc. 263).
La situazione non era mutata alla fine dell’Ottocento. “Havvi un’altra considerazione di supremo interesse, che si riferisce al tipo organico che si riscontra nelle infime classi popolari, alle quali manca una buona e sostanziosa alimentazione per resistere all’influenza del miasma palustre. Costretti a vivere in miseri e luridi abituri, esse hanno debole e languida costituzione organica, con tinta pallida e terrea. Il loro aspetto è apatico, insignificante, talora cretino, per lo più vecchi a 40 anni e quasi decrepiti a 50. Siffatto tipo si osserva ordinariamente nei coloni, obbligati a vivere abitualmente nelle nostre campagne …” (Caloiro I., La bonifica della palude Esaro, Cotrone 1888, p. 14).
Il digiuno
Nei primi secoli del Medioevo il digiuno in tempo quaresimale arrivava fino all’astinenza dal bere l’acqua, prima che fosse giunta l’ora del cibarsi, cioè al tramontare del sole. In seguito il digiuno consisteva nella astinenza dalle carni e da tutto ciò che dalla carne traeva la sua origine (uova, latticini, grasso per uso di condimento). Si doveva fare un solo pasto al giorno circa all’ora meridiana e prendere alla sera una piccola refezione.
Ricchi e poveri
Sul finire di novembre dell’anno 1561 arrivarono a Melissa il funzionario addetto alla numerazione dei fuochi con la sua famiglia, il razionale e gli aiutanti (cuntatori). L’università dovette provvedere al mantenimento per tutta la loro permanenza. Nella lista delle spese per il vitto quotidiano troviamo: 12 tomoli di grano macinato per fare “pane et parte simula, horgio, vino bianco, carne, salciczi, crapetti, porcelli, carne di vitella, ova, pisci, oglio, carne de saiine, cauli, radici, et altre foglie, pezze di caso, casi cavalli, miele, zafferana, pipe, galline”.
Sempre l’università nel febbraio dell’anno seguente dovette mantenere il predicatore ed il suo discepolo: “A di 5 de frebaio. Paghato per spise allo predicatore et discipulo per tre giorni de carnelevare per quattro rotula de carne quattro carlini. Per una peza de caso per far moccarruni un carlino. Per due salme di legna un carlino. Per vino un carlino. Per pane otto grana. Per salciczi una cinquina” (ASN, Conti Comunali f.s 199/5, “Libro V.ae Ind.s 1561 fatto per le spise del Un.tà de Melissa”, ff.6-8).
L’uso della carne come parte importante dell’alimentazione è evidente tra gli ecclesiastici, i nobili ed i funzionari statali. Risulta, anche se in modo marginale, la presenza dei “moccarruni”, un alimento che col tempo diverrà popolare. La presenza dei “maccarruni” nel Seicento in tutta l’area del Crotonese è evidenziata dall’utensile usato per confezionarlo. In un atto del notaio Girolamo Palmieri rogato in Crotone il 14 ottobre 1614 e riguardante l’inventario dei beni lasciati in eredità da Gio. Francesco Calegiurio si legge: “ … Item una maylla de fare pane usata, una caldara di rame usata … Uno spito di ferro piccolo, uno maccarronaro di legno, uno fusillo di maganello vecchio …” (ASCZ, Not. Palmieri G. B., 113, an. 1614, f. 68v). Anche nell’inventario dei beni lasciati da Giovanni Francesco Schipani abitante in una casa palaziata in Policastro (Petilia Policastro) troviamo: “… una lanterna scasciata, uno maccorronaro, una cascia dentro la quale vi sono castagne …” (ASCZ, Not. G.B. Guidacciro, B. 79, 1632, f. 92r).
Il conto di spesa giornaliera del sacerdote Don Francesco Tassitano al servizio dell’arciprete di Mesoraca Giulio Antonio Giglio evidenzia alcuni aspetti della vita quotidiana degli ecclesiastici nei paesi della presila crotonese. Il conto copre il periodo dal 20 dicembre 1658 al 24 gennaio 1659. Ogni giorno Francesco segnò minutamente soprattutto gli alimenti acquistati per conto dell’arciprete. Il pasto quotidiano dell’arciprete di Mesoraca era composto quasi sempre da pane, uova, acqua e vino. A volte sono presenti anche le sarde. Ogni settimana Francesco donava pane ai minori osservanti del monastero di Santa Maria delle Grazie ed ai cappuccini di Santa Maria degli Angeli. Ai corrieri che venivano dai paesi vicini dava pane e vino. Ben diversa si presenta la “spesa fatta in Catanzaro con due cavalcature et cinque persone”. Dal 5 al 10 gennaio 1659 gli alimenti comprati oltre al pane, al vino e alle sarde, ci sono i “macaroni”, il “cascio”, la carne, i cavoli ed i cardoni. Al mulattiere, che portò in Mesoraca le cose acquistate a Catanzaro, al pane ed al vino furono aggiunte le sarde. Anche il vicario ebbe un trattamento di favore ed ai soliti alimenti ebbe aggiunta la carne (AASS, 002A, Inventari di libri, scritture ecc., ff. 165-174).
I monasteri
L’uso quotidiano della “pasta”, specie da parte degli ecclesiastici e dei nobili, risulta alquanto limitato, da come appare dal libro delle spese per il vitto del monastero di San Francesco di Paola di Roccabernarda e in quello del monastero di Santa Chiara di Crotone. Predominano nel primo i pesci, in quanto i minimi erano obbligati a rispettare tutti i giorni dell’anno le prescrizioni quaresimali, e nel secondo la carne. Nel caso dei cappuccini di Cutro l’alimentazione dipendeva quasi completamente dai prodotti questuati sul territorio.
Il cibo dei Minimi
Il grano, il vino e l’olio.
Il convento, tranne che in certe annate, di questi generi era autosufficiente. I correttori nei loro conti raramente riportano la gestione di questi generi. Tutta l’attività creditizia basata sul prestito del grano ai coloni, che doveva costituire una delle voci più importanti delle rendite del convento, rimane all’oscuro. Abbiamo solamente per alcuni trimestri la quantità di grano “impastato” e di olio consumato. Annualmente il grano “impastato” era di poco più di 30 tomoli, mentre per quanto riguarda il consumo di olio, esso variava a seconda delle annate dai 110 litre alle 150. Sappiamo inoltre, da un’indagine fatta alla fine di settembre 1745, che nell’annata 1744/1745 la quantità di grano esitato era stata di 391 tomoli; così suddivisa: il 9% era stata impastata, il 31% era stata venduta ed il restante 60% si conservava nel magazzino del convento. I frati di solito all’inizio dell’autunno facevano le provviste annuali. Essi prendevano parte del grano, venuto al convento come pagamento per il fitto dei terreni a semina o in quanto dato a credito, e si recavano a Crotone o a Policastro. Macinato il grano, si procedeva con la “fattura della pasta”, che doveva bastare per tutto l’anno. Di solito si trattava di “maccaroni”, di “gnoccoli”, o “ingnoccole”, e di “vermicelli”. Il pane di solito veniva acquistato quasi giornalmente. Per quanto riguarda il vino, fino all’ampliamento del vigneto, avvenuto nel 1738, il convento dovette in autunno procedere ad acquisti di vino vecchio, in quanto quello che aveva imbottato non risultò sufficiente a coprire tutta l’annata. Nell’autunno 1735 i frati acquistarono 50 cannati di vino, nell’autunno seguente il doppio, tre barili nel settembre 1737 ed un barile l’anno seguente. In certe annate mancò anche l’olio. Acquisti di olio a due carlini e a due carlini e mezzo a litra sono segnalati nell’autunno 1736 (2 litre), nell’inverno 1739/1740 (8 litre) e nell’autunno successivo (5 litre). L’annata 1743/1744 fu così disastrosa che nel luglio 1744 i frati furono costretti a comprare addirittura 30 litre di olio a carlini 4 la litra.
Pesci, molluschi, ecc..
I pesci costituivano l’alimentazione ordinaria dei frati. Giornalmente essi acquistavano anguille, “verracchi” e trote, che abbondavano nel Tacina e nei torrenti. Altri pesci d’acqua dolce di cui i frati si cibavano, anche se in minor quantità, erano le “minuse”. Il resto era costituito dalla grande varietà degli animali marini, che i frati acquistavano anche in luoghi lontani. Solitamente all’inizio di ottobre i frati si premuravano di comprare a Pizzo due barili di tonnina. Acquistavano anche tonno salato, tarantello, ova tarachi e trippa di tonno fatto al sole. A volte portarono, o si fecero portare, da Maida o da Pizzo barili di “sgambirro”, da Crotone sarde salate, da Le Castella baccalà, da Cutro una cernia, da Fasana pesci di diversa qualità tra i quali molti “sardi per salare” ecc. Tra i pesci, i molluschi ed i rettili marini quelli che ricorrono più spesso sono: il pesce squadro, le “arenghe”, i merluzzi, le sarde, il palombo, le “trigliozze”, i “luvri”, le cozze, le “sarache”, i cefali, la “testudine di mare”, le seppi, i calamari, il pesce mastino, lo “spinolo”, le alici, le triglie, i “vavosi”, le cernie, il tonno (nell’aprile 1744 acquistarono un “tonnacchio” di dodici rotoli spendendo sette carlini) ecc. Inoltre i frati si cibavano, anche se in modo saltuario, di “dormituri”, il cui costo era di un carlino a rotolo, di “tartuche” e di “testudini”.
I legumi, i salumi, le foglie e altro commestibile per far minestre.
I vegetali costituivano assieme ai pesci la maggior parte dell’alimentazione dei frati. Le spese per “foglia” sono spesso una voce mensile a parte. In media in un anno essa assommava a circa cinque ducati. In ottobre il correttore procedeva a fare la provvista annuale di riso, pepe, cannella, zucchero e mandole. Cicerchia, ceci, fave, suriaca occhinigrella e bianca. Piselli di soriaca e fasoli erano acquistati anche in luoghi lontani come Cosenza, Rosarno e Crotone. Tra le verdure usate comunemente sono ricordati i “scacciofoli”, le cipolle, “capucci”, i broccoli, i cardoni, le lattughe, i “rafanelli”, le “cocozze”, le “foglie cappuccia”, teste di cipollina, i “caoli”, gli “acci”, i finocchi, i talli, i “fungi”, le “cicoie” e i “sparaci”. La frutta annoverava “mendole”, “nucilli”, “miloni”, “cerasi”, “mela”, “pomi melabbi”, noci, fichi, “arangue”, “melignani”, pinoli, prugni, peri, “persica”, “percochi” e castagne. I frati acquistavano inoltre olive fatte al forno, castagne infornate e lancelle di pepi all’aceto.
La neve.
Di solito i frati acquistavano la neve da giugno a fine settembre. In certe annate tuttavia essi cominciarono ad acquistare dalla metà di maggio fino alla fine di ottobre. La spesa fu di poco più o poco meno di quattro ducati, fecero accezione le annate particolarmente aride e secche del 1735 e 1743 quando i frati spesero circa 6 ducati. Dal 1744 in poi la spesa della neve e di “ballo” o “ballone di neve di somarro” aumentò sensibilmente in quanto furono più numerosi gli acquisti in maggio e si prolungarono anche a novembre.
Il sale.
I frati possedevano un centinaio di vacche, che fornivano latticini, carne e pelli. Le pelli delle vacche, spesso “morte dal lupo”, appena scuoiate erano trattate con il sale, che i frati compravano alla salina di Neto. Altro sale era acquistato “per commodo de’ frati” e per salare le sarde, le “sarache” ed altri pesci (ASCZ, Roccabernarda 80/12, 1735).
Il cibo delle Clarisse
All’inizio del Settecento nel monastero di Santa Chiara di Crotone vi erano 24 clarisse, 3 novizie, 4 converse e 16 educande (Acta, f. 16). Dalle ricevute del procuratore del monastero D. Francesco Cirrelli risulta che nell’anno 1703/1704 furono forniti alla comunità 45 paia di casicavalli, 40 raschi, 300 pezze di caso, 315 rotola di carne di porco, 81 rotola di insogna, 167 rotola di miele, 161 militra di olio, 10 sporte di passoli, 8 barili di mosto, fichi, noci e sale.
A questi generi alimentari vanno inoltre aggiunte le “spese minute”giornaliere, gestite direttamente dalla badessa (“Notamento delle robbe ch’habbiamo ric.to noi sotto s.tte Sor Francesca Suriano Abb.a e Sor Maria Mad.a dal D. Fran.co Cirrello n.ro attuale Procuratore”). Nelle ricevute dell’annata 1706/1707 oltre a caso, casicavalli, raschi, olio, carne di porco e insogna compaiono anche maiorca, ricotte fresche e salate e sarde. (“Esito di spesa per robbe a benef.o del Ven. Mon.o di S. Chiara dalli 9 8bre 1706 al 26 7bre 1707”).
Nel 1768/69 le monache erano 13. Il loro vitto risulta vario, ricco di spezie e raffinato, dove sono presenti alcuni prodotti provenienti anche da fuori regione. Tra le spese fatte dal luglio 1768 al maggio 1769 dal procuratore del monastero, il canonico D. Francesco Torrone, troviamo che le spese cibarie assommavano a Ducati 330:50 a queste erano da aggiungere altre numerose spese: olio militra 136, provole grasse e grosse pezze 12, capicolli 16, cascio pezze 150, baccalà rotola 30, insogna rotola 80, lardo rotola 32, neri 2, musto barili 14, vino barili 2, vino per acquavite barili 4, maiorca tomoli 100, grano orocavallo tomoli 40, sale, legumi (fave, ceci, riso, cicerchia), uva, amandole, neve, noci, torrone, cannella, garofalo, zucchero, miele, pepe, sciruppata, olive, castagne, mele (“1768 e 69 Esito per il Ven.le Monastero di S. Chiara Gov. Il Can.co D. Francesco Torrone”). Nel 1835 le clarisse si erano ridotte a due. Nel libro quotidiano delle spese per il vitto del monastero di Santa Chiara troviamo che da domenica 31 maggio al venerdì 5 giugno 1835 e da domenica 19 luglio 1835 al venerdì 31 luglio, cioè in 19 giorni, solo tre volte le clarisse hanno mangiato pasta a mezzogiorno, mentre è quasi sempre presente la carne: “Pranzo: carne 10 volte, macinata 1, pumadore 5, vino 3, verdura 5, sopra tavola 5, coniglia 1, riso 1, pullo 1, pasta 3, sale 1, pisilla e cipolle 4, ricotte 1, acomodatura di confetture 1, capuci 1, pesce 1, cirasi 1. Cena: Insalata 13 volte, sopra tavola 6, sardi 2, pomodoro 1, lattuche 4, cacciofole 1, pesce 1, cirasi 2, carne 1”.
Il cibo dei Cappuccini
Alla metà dell’Ottocento il convento dei cappuccini di Cutro, “sito in luogo amenissimo nel centro dell’ubertoso, ed estesissimo territorio del Marchesato”, era composto da quattro religiosi. I cespiti che il convento possedeva, o ritraeva dalla questua erano i seguenti: “Dal giardino contiguo al convento oltre delle foglie e frutta, ne ritrae dal terreno libero da 20 a 30 tomoli di frumento l’anno. Questua annuale di frumento, che quando vi è un sufficiente n(umer)o di questuanti si ne raccolgono oltre a tomoli 100 tanto vero che q(uest)o anno un solo questuante si ne ha raccolti tomoli 30. Idem del granone, civaje, biade, olio, salami, castagne, patate, mosto e fichi secchi. Secondo l’attività e numero de questuanti si ne raccolgono bastanti. Tre questue annuali di latticinio il cui prodotto approssimativo suole ascendere a oltre 100 forme di cacio, mentre in q(uest)o anno un solo terziario ne ha raccolto forme 30. Grascio che si raccoglie nel carnovale previa la distribuzione di circa 200 pentoline che si fa tanto in Cutro, che ne’ paesi, e villaggi circonvicini, ciascuna della capienza di c.a 2 libre, il di cui prodotto approssimativo suole ascendere a c.a rotoli 100. Finalmente la questua del pane che si fa due volte la settimana per l’abitato” (Carte Piterà, “Stato nominativo de Religiosi, Cutro li 2 7bre 1856”).
Il cibo dei mietitori
Il salario di un mietitore d’orzo era composto da un tari e da un “quartuchi” di vino al giorno; ai mietitori di grano inoltre era dovuto, a seconda dei giorni che lavoravano, un pasto composto da un po’ di pane, lardo, caso, cipolle e olio. A volte compaiono nel pasto anche carne, lattuga, olio, aceto, sarde e cipolle.
Dalle spese fatte da Gio. Andrea Pugliese, procuratore di Lelio Lucifero: “A 23 di Giug. 1586 car.ni tretasei per tanta carne, lettuche, oglio, aceto, sarde et cepolle serviro al governo et vitto de detti metitori et altre persone travagliavano in detta max.ria/ A 23 di giug. 86 docati trent’otto e car.ni sei pag.ti a tanti metitori, et ligatori, che metiro la max.ria (ASCZ, Not. Dionisio Speziale, B. 108, fasc. 1614, f. 208).
Dal “Conto de la masaria” del monastero di Santa Chiara di Crotone: “Adi 18 di giongno 1600. aio prestato docate sette per metire la masaria dico D. 7 – 0 – 0/ Per uno metitore che aio fato ametere lorgio ametuto giorne cinco ho dato carline dece dico D. 1 – 0 – 0/ Per vino per lo steso metetore ho comprato quartuchi quatro che sonno carline quatro dico D. 0 – 2 – 0/ Per una pala lo comprato grana cinco dico D. 0 – 0 – 5/ Adi 21 di giongio 1600/ O pagato due metetore di macisano per metere il grano carline otto a ragione di uno tari il giorno dico D. 0 – 4 – 0/ Per vino per il stesso metitore quartuche quatro che sonno carline quatro dico D.0 – 2 – 0/ Per salato per il stesse rotolo uno il quale lo comprato tari uno dico D. 0 – 1 – 0/ Per metire lo grano o comprato sei menczalare di grano a ragione di dudici carline il tommino che sonno carlini dichiadotto dico D. 1 – 4 – 0/ Adi 25 di giugno 1600/ O piglato cinco metetore a ragione di uno tari il giorno/ Spisa per il stesse metetore/ Cipulle per il stesse tari uno dico D. 0 – 1 – 0/ Per uno badile di scino per il stesse carline cinco D. 0 – 2 – 10/ Di pio o piglato due altre quartuchi di vino per il stesse che stanno carline due dico D. 0 – 1 – 0/ Per carne per il stesse carlini quatro dico D. 0 – 2 – 0/ Per lardo per il stesse rotola dui che stanno tari due D. 0 – 2 – 0/ Per pane per il stesse metitore carline tridici D. 1 – 1 – 10/ Per caso per il stesse peze tre che stanno carline quatro e menczo dico D. 0 – 2 – 5/ Per olio per il stesse D. 0 – 0 – 5/ Per cipule per il stesse D. 0 – 0 – 5/ Per pane per il stesse D. 0 – 0 – 10/ Per una pecza di caso per il stesse D. 0 – 0 – 15/ Per vino per il stesse D. 0 – 0 – 10/ (ASCZ; Cart. 26 n. 1784/96, Carte di S. Chiara di Crotone).
Il 10 agosto 1761 per mano del notaio Nicolao Partale di Crotone è rogato un atto pubblico col quale Antonio Giaquinta, massaro e fattore di campagna di Giuseppe Micilotto, elenca le spese sostenute dal suo padrone, che aveva preso in fitto e seminato la gabella Li Miccesi appartenente al monastero di Santa Chiara di Cutro. Tra le varie spese sono descritte quelle sopportate per la mietitura. “Per tante giornate pagate à mietitori e ligatori per mietere e ligare d.a massaria doc.ti cento diecesette e grana trenta/ Per le spese cibarie occorse in mietere d.a massaria essersi consumate la seg.te robba/ Grano tt.a trentadue = vino barili quarantuno = aceto barili due = formaggio pezze cinquanta quattro = oglio militra tre = foglia carlini tretatre = sale rot.la diece e pecore numero quindici e per macinare sud.o grano, sale, frasche e fattura del pane docati diece” (ASCZ, Not. Nicola Partale B.1342, 1761, 34v).
Il vitto dei mastri e dei manipoli
Alla fine di ottobre 1619 iniziarono i lavori al “campanaro” della chiesa della SS. Annunziata di Belcastro. Dall’”Exito” compilato dal procuratore della confraternita Antonello Salvato sappiamo che all’opera lavorarono due mastri ed otto manipoli. I mastri lavorarono complessivamente sei giornate, i manipoli quattordici. Il salario dei primi fu di tre carlini e mezzo il giorno, dei secondi di grana 15. Il totale della spesa per salari fu di quattro ducati un tari e 2 grana (4 – 1 – 2). Le spese per il vitto assommarono a quattro tari ed 8 grana (0 – 4 – 8). Per salari e spese di vitto andarono cinque ducati e dieci grana (5 – 0 – 10). Le spese per il vitto rappresentarono circa il 20% della spesa ed erano costituite da: caso, vino, sarde, “fuggi”, “cauli”, carne di capra, cipolle e olio (ASCZ, Platea SS. Annunciata di Belcastro).
Il vitto dei soldati
Il 24 agosto 1562 l’università di Melissa dovette provvedere a sfamare venticinque soldati di Crucoli che scortavano il capitano a guerra Gerolamo de Rao. Gli alimenti che l’università fornì furono “due lancelle de vino … due pezze de caso … et dece pani” (ASN, Conti cit., f. 16). Un trattamento migliore dovettero avere i soldati del castello di Crotone. Nel novembre del 1651 le monizioni di vitto del castello di Crotone erano costituite da: “Grano forte bianco, fave, sarde salate, tunno salato, sale in pietra, carne salata di porco, “oglio”, caso pecorino, “musto”, vino vecchio e aceto (ASCZ, Not. Protentino Felice Girolamo, B. 229, 1651, f. 101).
Il vitto dei forzati addetti alla costruzione del porto di Crotone
Nella seconda metà del Settecento le razioni di viveri per i forzati addetti alla costruzione del porto di Crotone erano: “pane, oglio, fave, sale” (ASCZ, 1345, 1777, 78).
L’industria dei maccheroni
Da un atto del notaio G. B. Guidacciro, rogato in Policastro (odierna Petilia Policastro) il 15 novembre 1627 e riguardante la divisione dei beni paterni ereditati dai fratelli Petro e Matteo Curto di Policastro, apprendiamo che i due fratelli detenevano in comune ed indiviso per successione paterna “un trappito cioè le ordigna dove si soleno fare maccarroni et vermicelli”. Per porre fine alle liti, i due decisero di dividere i beni ereditati. Fatta la divisione tuttavia gli “stigli di trappito” rimasero in comune, “accio comunemente se ne possano servire” (ASCZ, Not. G. B. Guidacciro, B. 79, 1627, ff. 170-172).
Bisognerà attendere diversi decenni per avere notizia di un vero e proprio pastificio. Furono protagonisti di questa iniziativa alcuni imprenditori partenopei, già presenti a Crotone in quanto area di esportazione di grano verso l’area napoletana. Nel mese di marzo dell’anno 1764, il patrone Gasparo di Trapani ed il figlio Gio. Camillo assieme al Signor Giacomo de Martino, figlio di Renato, tutti del Piano di Sorrento stabilirono di recarsi a Crotone “coll’ingegno de’ Maccaroni”. Per tale scopo stabilirono la loro attività in un magazzino fuori le porte della città ed iniziarono a lavorare il prodotto. Alla fine del mese di febbraio dell’anno seguente tirarono le somme della loro attività. Fatti i conti dell’entrate e delle uscite i Trapani risultarono debitori verso il Martino in ducati 373 e grana 82, in quanto i Trapani avevano usato il denaro ricavato dalla vendita della pasta per estinguere alcuni loro debiti e per far fronte all’annata “calamitosa, e carestosa” del 1764, quando il grano si vendette a Crotone fino a ducati 5 il tomolo. Raggiunto un accordo tra le parti, i Trapani si impegnano a saldare il debito ed a pagare al Martino nella città di Sorrento ducati 173 entro tre anni ed il restante ducati 200 e grana 82 entro sei anni, coll’annuo interesse del tre per cento (ASCZ, 1128, 1765, 111-112).
Il 14 luglio 1764 I mastri crivellatori Antonio, o Tonno, Fuscaldo (Fiscardi) ed il figlio Michele, originari di Cusinola, casale di Napoli ma da tempo residenti a Crotone, in società con il mastro “maccarronaro” Carmine Apicella di Majula, acquistano dagli eredi di Pietro e Orazio Zurlo mille tomola di grano della recente raccolta “per farne di quelli maccarroni ed altri di pasta”, pagandoli un carlino più del prezzo della voce (ASCZ, Not. Antonio Asturi B. 1345, an. 1777, ff. 106v–108). L’attività dei Fuscardo sarà proseguita dal figlio Michele che si accasò a Crotone con Libonia Rucciolillo. Il 9 gennaio 1777 il barone Ignazio Schipano della città di Taverna, tramite il suo procuratore nella città di Crotone Vincenzo Maccarone, vendeva ai coniugi crotonesi Michele Fuscaldo e Libonia Rucciolillo “un ordegno grande per lavorar maccarroni, con sei trafili, bronzo, ferro e legname necessari al lavoro sud.o, l’istesso ordegno che mesi sono mi fu dal detto Michele dato in solutum, et pro soluti nomine per il prezzo di ducati duecento”.
Non passano molti mesi che nel luglio dello stesso anno Libonia Rucciolillo, moglie di Michele Fuscaldo, fa presente che “per le annate calamitose occorse ha dovuto d.o suo marito contrarre molti debiti per alimentare la sua numerosa famiglia”. Indebitato col barone Schipani per circa 400 ducati ora si trova incarcerato nel castello. Per non morir di fame la Rucciolillo chiede di poter vendere o ipotecare la sua casa dotale, in modo da scarcerare il marito. Solo per l’intervento della moglie e del cognato Vincenzo Rucciolillo si raggiungerà un accordo col barone (ASCZ, 1327, 1777, 45 46).
Nonostante la disavvenuta i Fuscaldo proseguirono nella loro attività. Alla fine del Settecento Antonio Fuscaldo, figlio di Michele e di Libonia Rucciolillo, possedeva una bottega sotto la sua casa di abitazione in parrocchia di Santa Margherita “per uso di maccaroni” (Catasto Cotrone 1793, f. 13). Anche il figlio di Carmine Apicella continuerà nell’attività del padre. Gio. Apicella di anni 39 nel catasto del 1793 ha una attività di “fornaro”,(Catasto Cotrone 1793, f. 93). Sempre a quel tempo tra i “Forastieri Laici Abbitanti” troviamo Giacomo Amato “maccaronaro” di anni 35, il quale ha “applicato a negozio” un capitale di ducati 100 (Catasto Cotrone 1793, 193v).
Un grande pastificio sorgerà a Crotone alla metà dell’Ottocento per opera di Gregorio Macrì con i capitali del barone Barracco, come si legge nel decreto del re del 17 novembre 1848, numero 571 che “permette al comune di Cotrone … di dare a censo al signor Gregorio Macrì da Verzino, un tratto di suolo sterile, sito in contrada Acquabona, unicamente per costruirsi un opificio di pasta mercè l’annuo canone netto di ducati 10 e a condizione che tutte le spese calano a carico dell’enfiteuta” (Valente G., La Calabria nella legislazione borbonica, Ed. Effe Emme, 1977). Nel 1860 questo stabilimento a vapore per la lavorazione della pasta, situato vicino all’Esaro, occupava 17 lavoratori e utilizzava un macchinario moderno. I suoi ruderi e la sua ciminiera quadrata erano ancora visibili alla metà del Novecento (Vaccaro A., Kroton, II, 88).
Il Largo dei Maccaronari
Il largo, o vico, dei “Maccaronari” era situato a Crotone in parrocchia di Santa Margherita vicino alla piazza lorda e alla “fila dei tavernari”. Nel marzo 1775 il mastro Francesco Antonio Scavello possedeva in comune e indiviso con il mastro Pascale Cirrello e con Rosa Pasciari una casa nella parrocchia di Santa Margarita “e proprio dietro la piazza, luogo d.o il Largo delli Maccaronari, attaccata a quella di Leonardo Trovato. Consistente in una camera divisa in mezo, con parita di tavola”. La casa era pervenuta dalla fu Antonia Arena, dalla quale pervenne divisa e promessa in tre uguali porzioni. Cioè una terza porzione fu promessa a Grazia Scavello, in di cui vice subentrano le sue figlie Giuseppa Coco … (ASCZ, B.1528, f.lo 1775, f. 31).
A Maria Teresa Sacco furono promesse in dote dagli zii Bruno, Dianora e Lucrezia Sacco tre quarte porzioni di una metà di casa sita in parrocchia di Santa Margarita confine la casa di M.ro Pasquale Cirrelli, e proprio nel vicolo della piazza anticamente nominato lo stretto de Maccaronari, che era stata comprata dai suoi zii e dal q.m Tommaso Antonio Sacco, di lei padre, dal q.m Leonardo Trovato per la somma di ducati 74 gravata della metà di un capitale di ducati 25, dovuto al Capitolo, che prima si doveva alla congregazione dell’immacolata Concezione. L’altra metà di detta casa era posseduta da Tommaso Antonio Sacco, in quanto da lui antecedentemente comprata e gravata pure d’altri ducati 25 metà di capitale di ducati 50 dovuti al capitolo. Con carlini 25 di censo (Maria Teresa Sacco moglie di Pietro Geremicca di Napoli, abitante a Crotone. Capitoli matrimoniali nel 1788).
Il 15 ottobre 1799 il capo mastro muratore Gio. Juzzolino ed il capo mastro falegname Ant.o Federico su richiesta delle sorelle Maria Teresa e Caterina Sacco, figlie ed eredi di Tommaso Antonio si recano ad apprezzare la casa del padre “sita entro q.a città nel rione della parrocchia di S. Margarita confine la casa del mastro falegname Pasquale Cirrelli, ed altri fini, proprio nel luogo entro il stretto della piazza, anticam(en)te nominato il vico dei maccarronari” (ASCZ, Not. Nicola Partale b. 435, an. 1800, ff. 18-26).
Creato il 18 Novembre 2015. Ultima modifica: 18 Novembre 2015.