I Diaconi Selvaggi
Per buona parte del Medioevo il clero, o parte di esso, appartenente all’arcidiocesi di Santa Severina e alla diocesi di Crotone, fu dedito all’esercizio delle armi e non praticò il celibato. Gli arcivescovi e i vescovi amministrarono le città, possedettero feudi e vassalli, si dedicarono alla costruzione delle mura e delle fortificazioni, ebbero autorità politica, ed al loro servizio un apparato amministrativo e militare.
Ricordiamo tra tutti, il vescovo di Umbriatico, barone di Santa Marina, San Nicola dell’Alto e Maratea, l’arcivescovo di Santa Severina, feudatario di Santo Stefano e di Casale Nuovo, il vescovo di Isola, feudatario di San Pietro di Tripani e di Massanova, ecc. Ancora all’inizio dell’Ottocento, dopo la nuova distribuzione delle chiese, che portò alla soppressione delle cattedrali di Umbriatico, Strongoli e Cerenzia, unite alla diocesi di Cariati, il vescovo di Cariati poteva insignirsi del titolo di barone di San Nicola dell’Alto, Maratea, Motta e Santa Marina, e dei titoli di abate di San Pietro e di San Mauro, propri delle diocesi soppresse.
In quanto feudatari i vescovi ebbero al loro servizio una milizia, dovettero concorrere alla difesa del regno e alle spese per la fortificazione dei castra. Si sa che per antica consuetudine erano tenuti a concorrere alle spese per la riparazione del castrum di Crotone, i vescovi di Crotone, di Isola e di Strongoli,[i] e che gli stessi vescovi, in tempo di guerra, si attivarono per fronteggiarne le spese.[ii] In particolari circostanze, come nel caso del pericolo dell’invasione turca, le stesse rendite dei vescovi furono utilizzate per riparare e fortificare le difese delle città. Ne abbiamo prova da un breve di Sisto IV che, il 26 settembre 1482, ordinava al vescovo di Viterbo di utilizzare i beni del defunto arcivescovo di Santa Severina Antonio Cantelmi, stimati del valore di 200 ducati, per le riparazioni necessarie alle fortificazioni e per munire la città di Santa Severina.[iii] L’impegno a fortificare proseguì durante il Cinquecento. Sappiamo che il vescovo di Strongoli Timoteo Giustiniani (1568-1571), fece costruire a sue spese quattro robustissime torri per rendere la città sicura e protetta dalle incursioni turche.[iv]
Tra le funzioni esercitate dall’alto clero vi furono quindi, oltre a quelle strettamente connesse alla pratica religiosa, anche quelle civili, tra le quali quelle di amministrare la giustizia, impegnandosi personalmente e con una propria milizia, nella difesa della città e del regno. Tralasciando l’episodio dello sconosciuto vescovo di Crotone che, dopo aver difeso strenuamente ma invano la città dai Saraceni, aveva trovato ultimo rifugio in cattedrale, dove “cum Clero suo, et populo gladio occubuit”,[v] l’impegno militare dei vescovi risulta evidente attraverso alcuni episodi avvenuti durante la Guerra del Vespro, da cui si rileva la parte attiva dell’alto clero nelle vicende belliche.
Durante l’invasione della Calabria da parte dell’esercito di Pietro d’Aragona, i fratelli Rogerius e Lucifer de Stephanitia, uno arcivescovo di Santa Severina e l’altro vescovo di Umbriatico, assieme al vescovo Rogerius di Strongoli, si opposero con le armi agli Aragonesi. Per tale motivo i loro beni furono particolarmente saccheggiati dai Catalani, tanto che il tre luglio ed il 23 dicembre 1289, il papa Nicolò IV, tramite il Legato nel Regno di Sicilia, il vescovo di Palestrina e cardinale Berardo, venne in loro soccorso, compensandoli con altri benefici ecclesiastici.[vi]
Sappiamo che Rogerius de Stephanitia, consigliere e familiare di Carlo II d’Angiò, nel 1296 fu trasferito da Bonifacio VIII alla chiesa di Cosenza,[vii] e che non desistette dal condurre la guerra contro i nemici della chiesa romana, finché nel 1298 non trovò la morte sul campo di battaglia.[viii] Anche il fratello Lucifer, che successe al fratello sul seggio di Santa Severina, continuò nell’impegno militare contro i Siculo-Aragonesi. Del suo rinnovato impegno bellico abbiamo notizia con la ripresa delle ostilità e dopo che, nell’estate del 1296, Federico II d’Aragona con un esercito, aveva varcato lo stretto e ricacciato le truppe di Carlo II d’Angiò dalla Calabria. Durante la tregua stipulata tra il conte Ruffo di Catanzaro e Ruggero di Lauria, mentre le città si arrendevano, Federico, che stava acquartierato davanti alla città di Crotone, spostò l’esercito contro la città di Santa Severina dove, confidando sulla natura del luogo, l’arcivescovo Lucifer Stephanitia si era asserragliato nella rocca, e non voleva né arrendersi né accettare la tregua. Il re, considerata l’impossibilità di prendere con la forza la città, ritenuta inespugnabile, la costrinse alla sete, impedendo agli abitanti di approvvigionarsi alla fonte. Allora l’arcivescovo, impossibilitato a sostenere l’assedio, chiese le stesse condizioni di due mesi di tregua poste dal conte Ruffo. Passato il tempo la città si consegnò a Blasco d’Aragona, vicario del re.[ix]
È documentata per tutto il Medioevo, sia la presenza di ecclesiastici armati, che di una milizia vescovile, utilizzata quest’ultima, sia per scopi di difesa da pericoli esterni, che per imporre le decime e salvaguardare le prerogative della chiesa dagli attacchi dei laici e dei feudatari. Pochi fatti rendono evidente, quanto fosse temibile il potere armato ecclesiastico. Nel 1300 Francesco de Riso cercò di prendere possesso del suo feudo di Cerenzia, ma ne fu impedito dal vescovo della città, appartenente alla famiglia dei Faraco, “qui cum clericis et malandrinis eiecit ipsum a dicta terra”.[x]
Una protesta contro il vescovo di Isola è registrata dal notaio Francesco Cesare della città di Squillace il 13 gennaio 1489 in Le Castella. In presenza del baiulo Nicola Antonio Marino e del giudice Nicola Crescente, alcuni pastori dei casali cosentini, che avevano affittato l’erbaggio del tenimento “la valle dell’ulmo” dal procuratore dell’abbate di Corazzo, dichiararono che, nonostante il loro contratto li obbligasse solo verso quest’ultimo, ad un certo momento era intervenuto il vescovo di Isola Angelo Castaldo. Poiché il luogo era nella giurisdizione vescovile di Isola, il prelato cominciò a molestarli, col pretesto che vantava dei diritti. Costretti ad andare a Catanzaro i pecorai dovettero versare al Castaldo dei denari, ma questi non si ritenne ancora soddisfatto e dopo un po’ inviò una lettera al suo vicario, Nicolao de Nicoletta, ordinandogli di informarsi se i pagliai dei pecorai fossero ancora sopra i terreni della chiesa e, trovandoli, “commanderiti tutti questi nostri previti che vengano per nostro ayuto ad abrusciar dette pagliara”, invitandolo, qualora questi non fossero bastati, a rivolgersi al “m.co nostro compare Castro Cane”, per avere una compagnia dei suoi uomini d’arme. Partito il vicario del vescovo con “altri previti dela terra deli Castella armati con lantii spari et tarachetti”, esso è momentaneamente fermato dal capitano di Le Castella, Joanbattista Calamita, il quale costringe i pastori a pagare facendo loro presente che, altrimenti, “andavano ad ardirli li homini de armi et altri homini delisola”.[xi]
Oltre all’esercizio delle armi, anche se formalmente proibito, il basso clero potette ammogliarsi. Per quanto riguarda questa prerogativa, essa è legata alla lunga persistenza del rito greco, sia nella diocesi di Crotone, che a Santa Severina e nelle sue diocesi suffragane. Del permanere in età sveva di tale costume e della sua estensione, ne è prova ciò che accade durante la lunga vertenza, che vide di fronte i cistercensi ed i florensi, per il controllo dell’abbazia greca di Santa Maria di Altilia.
Sul finire del Dodicesimo secolo l’abbazia greca si era unita ai florensi, sotto l’abate Gioacchino da Fiore, ma impoverita e distrutta, poco dopo i monaci revocarono la precedente decisione e si diedero ai cistercensi di Santa Maria di Corazzo, dai quali avevano ricevuto ampia assistenza ed aiuto. Tale decisione ebbe l’assenso dell’arcivescovo di Santa Severina, in diocesi del quale si trovava l’abbazia, e nel gennaio 1206 del re Federico. Contro le pretese dei cistercensi i florensi chiesero l’aiuto del conte di Santa Severina Petro Guiscardo, signore del feudo dove era situata l’abbazia. Il conte sentenziò in loro favore, ma il decreto, essendo la sede arcivescovile vacante, trovò l’opposizione del capitolo, composto dai canonici di rito greco, i quali però dovettero recedere perché Petro Guiscardo li minacciò di togliere a loro le mogli, con cui erano legittimamente congiunti.[xii]
Testimonianze del passato
Di queste funzioni e prerogative medievali, vescovili e del clero, rimasero a lungo segni tangibili. È documentato che tra i vari privilegi, di cui il vescovo di Crotone godeva ancora nel Quattrocento, vi era quello che, il primo giorno di settembre di ogni anno, egli potesse insediarsi come tribunale, amministrando la giustizia assieme con i suoi chierici, sia ai religiosi che ai laici.[xiii] In seguito, tale privilegio è così descritto alla fine del Seicento, tra i diritti del capitolo: “Il Rev.mo Capitulo di Cotrone ha il jus d’amministrar Giustizia Civile, criminale e mista a tutti i Cittadini, ed abitanti laici di questa città ogni anno il p(ri)mo giorno di settembre da lunga, pacifica ed immemorabile possessione, dalla quale non vi è memoria in contrario (…) L’amministrat(io)ne della Giustizia spetta al R.mo Vicario di Mons.r Vescovo, ed a tempo di sede vacante al vicario Cap(itola)re, in qual giorno il Gov(ernato)re della città cede la verga del comando a chi amministra detta Giustizia”.[xiv]
Per quanto riguarda la milizia vescovile, le funzioni che esercitava e i privilegi di cui godeva chi ne faceva parte, all’inizio del Seicento l’arcivescovo di Santa Severina Alfonso Pisani affermava: “Sono in Calabria alcuni uomini quali vivendo con le proprie mogli senza ricever ordine ecclesiastico si sommettono alla obbedienza di Prelati, et al servitio delle chiese, et questi sono servitori, o serventi della chiesa, et volgarmente li chiamano Jaconi selvaggi. L’officio loro è polir le chiese, sonar le campane, alzar li mantici dell’organi, andar per corrieri per servitio della chiesa, et della Corte per tutta la Diocese, intimar l’ordini, citare, carcerare, custodire le carceri, esseguir le pene, et esser ministri della giustizia ecclesiastica, et haver cura dell’osservanza delle feste, non solo per le Terre, ma per le campagne, et far altri simili bassi servitii, et questi dopo morta la prima pigliano più mogli per antico solito, et da tempo che non vi è memoria di huomo incontrario sono del foro ecclesiastico, et godeno la libertà, immunità, et privilegii clericali come persone ecclesiastiche et il p(rese)nte Arcivescovo, et sua chiesa ne ha otto nella p.ta Arcivescovale”.[xv]
Questi servitori delle chiese, addetti ai servizi più umili e per tale motivo, chiamati anche “Diaconi di servaggio”, volgarmente detti selvatici, furono al centro di numerosi contrasti tra la chiesa e lo stato, soprattutto per quanto riguardava i compiti che svolgevano, il loro numero e l’immunità sia fiscale che di foro. Mentre per decreto della Sacra Congregazione godevano l’esenzione dal foro della giustizia secolare, per il Collaterale Consilio Napoletano essi dovevano essere soggetti ai tribunali regi.[xvi]
Già alla fine del Cinquecento il vescovo di Isola Annibale Caracciolo si lamentava “che il Barone de l’Isola per mezzo di soi officiali non cessa di molestare li soi servitori et garzoni carcerandoli et citandoli”.[xvii] In seguito, il vescovo di Isola Martino Alfieri faceva presente che spesso, tra i baroni e la curia vescovile sorgevano aspre contese circa la qualità ed il numero dei chierici serventi, volgarmente detti selvatici. Il vescovo, infatti, oltre a destinarli al servizio delle chiese, come per consuetudine immemorabile approvata, con speciali lettere dalla Sacra Congregazione, era solito sceglierli e impiegarli in altri compiti, tra i quali precipuo era quello della difesa personale,[xviii] ma anche per coltivare, vigilare e proteggere i fondi, le proprietà ed i privilegi della chiesa.[xix] Sempre a Isola l’immunità era estesa anche alle famiglie dei servitori del vescovo; alla cattedrale e al palazzo vescovile presso cui vi era il luogo detto l’“Atrio”. Da tempo immemorabile coloro che abitavano in tale luogo godevano dell’immunità di Rifugio, e quindi erano esenti dal foro secolare.[xx]
Durante la lunga lite tra l’arcivescovo di Santa Severina Francesco Falabella ed il feudatario dello Stato di Cutro Francesco Filomarino, principe di Rocca d’Aspide, più volte le milizie dei due contendenti si scontrarono. Tra l’altro, il 6 maggio 1664, durante la visita che l’arcivescovo fece a Cutro, il prelato con il clero e la sua milizia vennero a rissa sulla piazza con i soldati del barricello. Lo stesso arcivescovo “pose mano ad un soldato di detto barricello per li capelli”, poi si ritirò assieme ai suoi chierici nella chiesa di San Giovanni Battista, da dove partirono due archibugiate, che uccisero un soldato del principe.[xxi]
I “chierici selvaggi”
Con il diminuire del potere vescovile sulle città si restrinse anche il numero dei vassalli al servizio della chiesa, così con il termine “chierici selvaggi” furono indicate un insieme di persone che svolgevano funzioni differenti, cioè i messi, i corrieri giudiziari, i servitori, i guardiani delle chiese, gli armati del vescovo, ecc. Essendo esenti dai pesi fiscali il loro numero fu oggetto di numerose proteste da parte delle università. Il vescovo di Belcastro Antonio Ricciulli (1626-1629) fu costretto a diminuire i diaconi selvaggi, in quanto il loro numero, che era cresciuto a dismisura durante la sede vescovile vacante, eccedeva le necessità della chiesa. Essendo i diaconi selvaggi esenti dalle tasse, queste ricadevano sui cittadini ed impoverivano la città.[xxii]
Secondo il vescovo di Isola Francesco Marini, impropriamente si confondevano sotto tale termine almeno tre distinte categorie di persone, che erano al servizio del vescovo: cioè, i cursori, i chierici selvaggi e la famiglia armata.[xxiii] Il Marini ampliò il numero dei chierici selvaggi, nominando a farne parte uomini benestanti, e reintrodusse anche la categoria distinta de “li patentati della famiglia armata”, suscitando le proteste dei cittadini e l’intervento della Sacra Congregazione.[xxiv]
Il termine “chierico selvaggio”, in genere, indicò successivamente colui che era addetto alla custodia di una chiesa. Così si esprime il vescovo di Belcastro Carlo Sgombrino (1652-1672): “Ci sono in detta città oltre alla cattedrale e la chiesa di S. Giovanni Gerosolimitano dodici altre chiese, ad ognuna delle quali è assegnato per custodia un chierico selvatico, tali chierici selvatici per antichi usi ed immemorabile consuetudine furono e sono immuni ed esenti da ogni giurisdizione laicale, reale e personale”.[xxv] Il numero dei chierici selvaggi si restrinse col tempo ad uno per ogni chiesa, eccetto la cattedrale che ne ebbe quattro.
Anche se il loro numero e le loro funzioni con il passare del tempo si ridussero, sia nella diocesi di Santa Severina che in quelle contermini, i diaconi, o chierici selvaggi, nonostante fossero laici, godevano ancora in età moderna l’immunità e potevano prender moglie. Da documenti risulta che a Santa Severina essi mantenevano anche il diritto di avere più mogli, come testimonia l’arcivescovo Carlo Berlingieri sul finire del Seicento. Il presule, infatti, notava che: “In Palatio (…) residet Generalis Vicarius cum Curiae Ministris iustitiam regens, ad mandatorum exequtionem novem urbanos habens servientes, praeter rurales, quos Jaconos servagios vocant, ecclesiastica immunitate, quamvis layci, et quandoq. Bigami sint, ab immemorabili gaudentes”.[xxvi]
Essendo la bigamia non riferibile né alla presenza del rito greco, né ai costumi locali, sembra affacciarsi l’ipotesi della presenza in età medievale, di una milizia arcivescovile composta da armati pagani di credenza musulmana. In tale maniera, probabilmente, l’arcivescovo ebbe al suo servizio una milizia fidata, salvaguardando il divieto che interdiva a chierici, presbiteri e diaconi l’uso delle armi, pena la scomunica.
Per quanto riguarda il divieto per il clero di portare le armi e di praticare la caccia, esso fu sempre più formale che sostanziale, come dimostrano i numerosi processi che videro implicati l’alto e basso clero, sia regolare che secolare, in omicidi e ferimenti. Che quasi tutto il clero possedesse ed usasse armi, risulta chiaramente da questa lettera inviata dal nunzio di Napoli al papa. In data 17 aprile 1708, il nunzio faceva presente che: “Scrivono da Catanzaro esser capitato colà uno, che si faceva chiamare Paolo Ger(oni)mo Gentile nobile genovese cercando passaporti per andar in Messina e come che dal suo discorso si ricavorno diverse varietà, si mandò un scrivano alla marina a riconoscere il brigantino, che lo conduceva, che si suppose esser guidato da marinai genovesi, ma essendosi scoperti poi per siciliani, si fecero tutti carcerare. Al sudetto sig.r Gentile non si trovorno lettere d’alcun sospetto, et avendo offerto sicurtà in Cotrone per condursi in Napoli, si fè condurre in quella città da un gentiluomo di qua chiamato sig.r Costantino de Cumis per consegnarlo à quel Governatore sotto pena di ducati Xm. Il vescovo di Cotrone fautore del medesimo, incontratolo due miglia fuori della Città con quantità d’ecclesiastici armati, se lo portò nel suo Palazzo senza volerlo consegnare. La cosa non cammina senza sospetto; si son ordinate le guardie a’ tutta la città per non lasciarlo uscire”.[xxvii]
Note
[i] Dopo la conquista del regno Carlo I d’Angiò scrive al Giustiziere di Val di Grati affinché faccia riparare il castrum di Crotone. Tra i feudatari chiamati a sostenere le spese vi è il vescovo di Isola, che deve riparare la torre detta “Barbacana”, il vescovo di Crotone a cui è affidata la torre che è “ante hostium”, ed il vescovo di Strongoli, che deve far riparare la “cisterna” del castrum. Reg. Ang., Vol. VI (1270-1271), pp. 109-110.
[ii] Nel 1284 il vescovo di Crotone è in Calabria per sollecitare il pagamento delle decime che servono per fronteggiare le spese della guerra in Sicilia. Reg. Ang. Vol. XXVII (1283-1285), p. 249.
[iii] ASV, Arm. XXXIX, 15, ff. 38v-39.
[iv] Ughelli F., Italia Sacra, IX, 522-523.
[v] Ughelli F., Italia Sacra, IX, 384.
[vi] Russo F., La guerra del Vespro in Calabria nei documenti vaticani, in ASPN, 1961, pp. 207 sgg.
[vii] Russo F., Regesto, I, 1357. AASS, Elenco degli arcivescovi di Santa Severina.
[viii] Russo F., Storia della chiesa in Calabria, Rubbettino Ed. 1982, p. 523.
[ix] Nicolai Specialis, Historica Sicula, Lib. III, cap. X, in muratori t. X, pp. 975-976.
[x] Maone P., Caccuri monastica e feudale, Portici 1969, p. 14.
[xi] AVC, Processo grosso di fogli cinq.cento settanta due della lite, che Mons. Ill.mo Caracciolo ha col S.r Duca di Nocera per il Vescovato, ff. 531-533.
[xii] Taccone Gallucci D., Regesti dei romani pontefici per le chiese della Calabria, Roma 1902, p. 108. Rodotà P. P., Dell’origine progresso, e stato presente del rito greco in Italia, Roma 1758, pp. 432-433.
[xiii] Zangari D., Capitoli e grazie concessi dagli Aragonesi al vescovo e all’Università e uomini della città di Cotrone durante il sec. XV, Napoli 1923, p. 5.
[xiv] Sempre tra i diritti del capitolo vi è: “Di più nel p(redi)tto giorno assegna i prezzi, e dona la meta a tutte le cose venali. Di più esigge da’ macellari il capo di ciascun bove, vacca, vitella, o altro animale, che si macellasse, e se tal primo giorno di settembre non si macella per esser giorno proibito, l’esigge quel giorno non proibito, che segue mediatam(ent)e, o immediatam(ent)e. Di più da ogni cosa venale ne esigge il jus edilis, che s’intende l’istessa portione di robba che si doverebbe pagare alla Catapania, e ciò da oglio, vino, frutti, foglie, e simili vittuarii. L’autorità poi d’assignar detti prezzi ed esigere le prenom(ina)te portioni spetta al can(onic)o eddommadario di quella settimana, che corre la p(ri)ma di sett(emb)re”. AVC, Acta Sanctae Visitationis ab Ill.mo ac R.mo D.no Episcopo D. Marco Rama Ordinis Eremit.rum S.ti Augustini A.D. 1699 Confectae, f. 80.
[xv] ASV, Rel. Lim. S. Severina., 1603.
[xvi] ASV, Rel. Lim. S. Severina., 1645.
[xvii] ASCZ, Busta 43, anno 1585, f. 68.
[xviii] “… Undiq. enim audiuntur furta, assassinia, incendia, scelera hominum perditorum furentium, et ruinas minitantium, qui in obscuro me vivere cogunt ergastulo, noctuq. diuq. a viris armatis custodito, ut meae vitae consulam …”. ASV, Rel. Lim. Bellicastren., 1765.
[xix] ASV, Rel. Lim. Insulan., 1635.
[xx] ASV, Rel. Lim. Insulan., 1677.
[xxi] ASCZ, Busta 231, anno 1665, ff. 25v-30.
[xxii] ASV, Rel. Lim. Bellicastren., 1627.
[xxiii] Secondo il vescovo di Isola erano al suo servizio tre cursori, quattro di famiglia armata e sette chierici selvaggi. Marino F., Lettere familiari, Studio Zeta, Rossano 1989, p. 377.
[xxiv] Il 7 giugno 1711 in Crotone alcuni cittadini di Isola dichiarano che i chierici selvaggi che servivano le chiese prima della venuta del vescovo Marini erano persone povere e prive di beni. Il nuovo vescovo, invece, aveva fatto chierici selvaggi uomini benestanti e aveva introdotto “li patentati della famiglia armata oltre li selvaggi servienti delle chiese”. ASCZ, Busta 611, anno 1711, f. 59v.
[xxv] ASV, Rel. Lim. Bellicastren. 1665.
[xxvi] ASV, Rel. Lim. S. Severina., 1685.
[xxvii] ASV, Nunz. Nap. 139, f. 295.
Creato il 13 Marzo 2015. Ultima modifica: 24 Luglio 2024.