Forme di lotta contadina nel Seicento: il caso di Altilia
Durante il Medioevo l’esigenza di avere a disposizione un gran numero di vassalli era particolarmente avvertita dai proprietari di terre (vescovi, feudatari, abbati), i quali ravvisavano nello spopolamento, causato da eventi bellici e da epidemie, il restringersi del seminato e quindi la diminuzione delle rendite. Numerosi sono i casi in cui essi ottennero dai regnanti esenzioni fiscali, per una durata di più o meno lunga, specie dopo fatti cruenti e pestilenze.
Gli stessi feudatari fecero delle concessioni, per ripopolare il loro feudo in spopolamento, a coloro che vi si sarebbero accasati. Ricordiamo tra tutte quelle del feudatario Carlo Ruffo, conte di Montalto e signore di Verzino e Casabona, il quale nel 1389 concesse alcune esenzioni agli abitanti del casale di Lutrò, che sarebbero andati a ripopolare la sua terra di Verzino. Anche il vescovo di Umbriatico nel 1306 aveva ottenuto dal re Carlo II d’Angiò l’esenzione dalle tasse per il legname delle galee e da altri oneri per tutti coloro che sarebbero andati a ripopolare i suoi casali di Santa Marina, S. Nicola de Alto e Marathia, che erano stati distrutti durante la guerra del Vespro.
Vassalli e contadini hanno tentato spesso di liberarsi dal giogo feudale e di ripristinare, o di ottenere, la condizione demaniale più benevola e meno opprimente delle esigenze e dei diritti della popolazione. L’infeudazione di molte terre era spesso legata ad esigenze di reperimento di denaro della corte regia e quindi ogni tentativo veniva soppresso in modo violento dal feudatario, che aveva comprato la terra, con l’aiuto delle truppe regie.
Durante il Viceregno molte città persero lo stato demaniale e la protesta della popolazione alimentò nelle campagne la ripresa del brigantaggio. Aumentarono anche i tentativi di opposizione al feudatario ed al fisco regio. Per sottrarsi, o contrastare, le nuove imposizioni in alcuni casi i vassalli si rifiutarono di seminare le gabelle del feudatario, prendendo in fitto e coltivando terre al di fuori del feudo in cui abitavano. A volte addirittura abbandonarono le loro case e si diedero alla macchia o andarono ad abitare in altri luoghi più ospitali.
Non sono rari i casi di protesta da parte delle università, che venivano tassate per un numero di fuochi che non corrispondeva a quello effettivo, in quanto molte famiglie che erano state censite se ne erano andate, facendo perdere le loro tracce. Questi fenomeni già presenti durante il Medioevo assumeranno una particolare rilevanza con l’aumento del commercio granario e l’ampliamento delle terre a semina. Il conflitto di interessi tra vassalli e feudatario divenne più aspro, soprattutto quando a causa di epidemie e pestilenze lo spopolamento muterà il rapporto tra coloro che seminavano, cioè i vassalli, e le terre da seminare in mano ai feudatari, ai vescovi e agli abbati.[i]
Condizione sociale che dalla seconda metà del Cinquecento e per tutto il Seicento divenne sempre più precaria. Ciò avvenne in quanto la popolazione, che durante la prima metà del Cinquecento era aumentata, a causa delle pestilenze cominciò a diminuire fino a dimezzarsi. Contemporaneamente le molte terre che, sottratte al bosco ed all’incolto, erano state aperte alla semina ed erano entrate nel mercato cerealicolo, non più aperte dall’aratro per mancanza di braccia e di animali, minacciavano di regredire al pascolo e alla selva, con grave danno per i proprietari e gli speculatori.
Il casale di Altilia
Si deve a Tiberio Barracco, abbate commendatario dell’abbazia di Santa Maria di Altilia (1577? – 1604), la fondazione ed il popolamento del casale entro i confini del territorio e presso l’abbazia. La nascita del nuovo villaggio avvenne nei primi anni di commenda con Greci, Albanesi e Schiavoni. Il nuovo abitato all’inizio dovette avere una vita piuttosto precaria, come un po’ tutti i casali sorti in quegli anni con gente proveniente da levante, con fenomeni di popolamento e di “disabitatione” repentini e frequenti, specie quando erano in arrivo i contatori regi, che dovevano censire e tassare i fuochi.[ii]
Era infatti frequente, spesso con il tacito consenso del feudatario, che all’avvicinarsi dei funzionari regi gli abitanti, per sfuggire alle tasse, disfacessero “i pagliara”, per poi rifarli, una volta venuto meno il pericolo. È di quegli anni la stesura dei capitoli, che avrebbero regolato i rapporti sociali ed economici tra il commendatario dell’abbazia, in qualità di signore e possessore del luogo, ed i vassalli che erano andati, o che sarebbero andati, a coltivare il territorio ed ad abitare nel casale dell’abbazia.
I capitoli, firmati dalle due parti contraenti, comprendevano le concessioni fatte dall’abbate commendatario e le prestazioni dovute dai vassalli. Tra le concessioni vi era il pascolo in metà del bosco vicino all’abbazia, la possibilità di seminare in alcuni terreni, l’assegnazione del suolo per poter costruire le case, ecc.. In cambio i nuovi coloni si obbligarono a fornire gratis una giornata di lavoro con le loro bestie, a versare ogni anno due carlini ed una gallina per casalinatico, a pagare la decima sul bestiame e sul raccolto, a dare un carlino per ogni nuovo vitello, a prestare una giornata all’anno per la manutenzione del mulino, dove essi erano obbligati a macinare il loro grano, pagando “la giusta ragione”, ecc. Inoltre essi promisero di edificare ed avere cura della cappella ed a mantenere il cappellano a loro spese.[iii] Si sa che all’inizio del Seicento il casale si era consolidato ed aveva una sua università detta di Santa Maria di Altilia.[iv]
La condizione degli abitanti
Durante il Seicento la condizione dei vassalli non mutò. Essi dovevano pagare la decima sulle pecore, le capre ed i porci, che allevavano. Per ogni vitello, che nasceva, dovevano sborsare un carlino. Inoltre erano costretti a rifornire di paglia e di legna l’abbate commendatario o il suo rappresentante.
Quelli che possedevano buoi dovevano lavorare con le loro bestie per una giornata all’anno gratuitamente, mentre l’altra giornata annuale di lavoro e la gallina, dovute per casalinaggio, erano state commutate in carlini sei all’anno, che ciascuna delle 311 “bocche” dei 59 capi famiglia, di cui era composto il casale, doveva versare nel mese di agosto al commendatario in segno di ubbidienza e di riconoscimento.
Oltre a queste prestazioni vi erano poi le tasse dovute al re, soprattutto il focatico. Per sfuggire agli aggravi dei fiscali regi poco dopo la metà del Seicento tutti gli abitanti di Altilia avevano abbandonato le loro case e se ne erano andati via, lasciando il casale deserto. Dopo tre o quattro anni vi ritornarono, ma molti di loro non potettero rientrare più in possesso delle loro case e dei loro orti, perché nel frattempo i frati del monastero ed altri se ne erano impossessati.[v]
La crisi economica e lo spopolamento, che si svilupparono in quegli anni, poco dopo la metà del Seicento, oltre a far diminuire le rendite del commendatario, in quanto i beni abbaziali dovettero essere affittati a prezzo inferiore, intaccarono anche i rapporti tra coloro che vivevano nel luogo e traevano dal lavoro dei campi i mezzi di sussistenza, cioè gli abitanti del casale ed i monaci del monastero, e coloro che vivevano e prosperavano sulla rendita e sul commercio granario, cioè l’abbate commendatario e gli affittuari dell’abbazia.
La ribellione ad un nuovo sopruso
Per far fronte alla diminuzione delle rendite i possidenti cercarono di far pagare il costo della crisi alla popolazione, tentando di introdurre nuovi pesi fiscali nelle campagne e di aggiungere altri obblighi. Il tentativo tuttavia trovò l’opposizione dei coloni e dei massari, i quali contrapposero le uniche armi a loro disposizione. Essi infatti negarono le braccia per seminare le terre di coloro che avevano introdotto gli abusi, optando per altre gabelle o andando a vivere in terre dove il giogo era più sopportabile.
Da un processo, tenutosi nel 1678 e riguardante il diritto di “spica” della abbazia di Santa Maria di Altilia,[vi] si viene a conoscenza che nel 1675, l’abbate commendatario dell’abbazia di Altilia, il cardinale Fabrizio Spada, aveva dato in fitto l’abbazia di Calabro Maria con i suoi territori e prerogative a Thomaso Massaccaro. A causa del comportamento del nuovo affittuario molti abitanti abbandonarono il casale e, sia nel 1676 che nella successiva annata, non presero in fitto a semina la gabella di Neto, che così in parte inselvatichì.
La causa fu che il Massaccaro introdusse alcuni abusi. Egli pretese di esigere il diritto di “spica”, che mai aveva gravato sulla gabella. Sempre il Massacaro fu accusato, evidentemente dagli abitanti di Altilia, sorretti anche dalla complicità dei monaci del monastero, di aver permesso che si tagliassero nel territorio dell’abbazia alcune querce ed altri alberi fruttiferi, non solo arrecando danno al patrimonio abbaziale, ma anche non tenendo in debito conto che tale danno era soggetto alla scomunica e che quindi ogni composizione era di pertinenza dell’abbate commendatario.
L’affittuario incurante della grave infrazione aveva intascato dieci carlini per ogni albero tagliato ed aveva favorito e permesso agli abitanti del vicino casale di Belvedere di tagliare querce nel territorio dell’abbazia. Allarmato dalle notizie che sempre più di frequente gli giungevano dal casale, il cardinale fece pressione perché si avviasse un’inchiesta e all’inizio del mese di luglio del 1678 l’abbate Nicola Tagliafero, in qualità di delegato apostolico, si recò ad Altilia per investigare e chiarire i motivi, che avevano determinato una situazione pericolosa per i beni e le entrate dell’abbate commendatario.
Egli si insediò nel monastero e citò perché venissero a testimoniare una decina di coloni e massari, tutti abitanti del casale, anche se alcuni lo avevano già abbandonato. I testimoni furono costretti a comparire al suo cospetto e, previo giuramento di dire la verità sotto pena di scomunica, essi dovettero sottoporsi ad una serie prefissata di quesiti, che il delegato apostolico rivolse ad ognuno dei convocati. Le domande riguardavano il luogo dove il colono aveva seminato l’anno precedente e quello attuale; il motivo a causa del quale non aveva seminato nella gabella di Neto, come avevano fatto altri massari, la rendita che apportava all’affittuario l’imposizione della “spica” e se il nuovo ius poteva determinare nel tempo un beneficio o un pregiudizio agli interessi dell’abbate commendatario.
In particolare l’inquisitore voleva approfondire l’origine e lo svolgimento dei fatti, che avevano portato alla mancata semina di parte della gabella di Neto, e come si sarebbero comportati in futuro gli abitanti del casale, nel caso che la situazione rimanesse immutata. In particolare modo egli si interessò di sapere se la nuova imposizione, che il Massaccaro aveva introdotta, a giudizio dei vassalli più anziani ed esperti, avrebbe arrecato un beneficio futuro all’abbate commendatario o si sarebbe rilevata alla lunga di danno. Questo fatto era di vitale importanza per esprimere il giudizio, in quanto la situazione delle campagne era quanto mai precaria a causa dello spopolamento, causato dalla grave epidemia del 1671/1672 e dalle seguenti cattive annate.
La forte mortalità aveva creato uno scompenso, rafforzando e dando maggior forza contrattuale ai pochi coloni ed ai massari nei confronti dei latifondisti. Questi ultimi giorno per giorno vedevano compromesse le gabelle, che a causa della mancanza di braccia rimanevano spesso sfitte e non arate ed oltre a rendere di meno, correvano il grave rischio di inselvatichire.
La ricostruzione del fatto
Il primo anno l’affittuario Tommaso Massaccaro affittò i territori della commenda di Bosco e di Caria a semina e rispettò gli usi, non facendosi pagare dai massari di Altilia la spica. L’anno dopo egli decise di dare a semina il territorio di Neto. Perciò egli procedette a dividerlo in tante quote numerate ed ad assegnarle franche e libere da ogni imposizione, come era sempre avvenuto, agli abitanti del casale, che ne avevano fatto richiesta.
Dopo che molti degli assegnatari delle quote, impiegando giorni di lavoro e di fatica, avevano già compiuto la nettatura, la roncatura e l’aratura con i buoi, ed alcuni avevano anche seminato, il Massaccaro li convocò ed impose che gli si donasse la spica della raccolta futura, oppure i coloni dovevano lasciare i terreni con tutte le loro fatiche, in quanto i coloni del vicino casale di Belvedere, pur di avere terreni da seminare, erano pronti a prenderli in fitto con il nuovo aggravio. Mentre coloro che avevano già seminato dovettero accettare questa nuova imposizione, per non andare incontro ad una grave perdita, gli altri decisero di non sottomettersi a questo giogo e nuova imposizione. Perciò, anche per non permettere che il territorio di Neto fosse anche in futuro gravato da questo abuso, lasciarono le quote che avevano in fitto ed andarono a coltivare altri terreni, che non facevano parte della commenda abbaziale di Altilia.
Il Massaccaro tuttavia non ritornò sul suo proposito; egli ricavò dal diritto di spica ben ducati 40 e l’anno dopo proseguì nel suo intento. Tuttavia a causa dell’introduzione della nuova imposizione sulla gabella di Neto, nessun abitante del casale la prese in fitto; tutti i massari del casale, sorretti anche dal consenso e dal consiglio dei monaci del monastero, se ne andarono a coltivare terreni vicini ma posti fuori dal territorio dell’abbazia, quali Armiro, Ardacuri, Atimari, Li Comuni, ecc. che appartenevano ad altri proprietari (abbazia di S. Giovanni in Fiore, monaci di Altilia, ecc.).
Con il passare del tempo e non mutando la situazione, sempre più numerosi furono coloro che lasciarono il casale, separandosi da moglie, figli, fratelli ed altri parenti. Essi andarono ad abitare in altri luoghi vicini, dove le condizioni lavorative erano migliori. Poiché il diritto di spica non era compreso tra i corpi d’entrata affittati al Massaccaro, né in passato gli altri che avevano avuto in fitto la commenda l’avevano mai preteso, in quanto non era uso esigere la “spica”, i vassalli rimasti nel casale ed i monaci cominciarono a protestare, facendo presente all’abbate commendatario, che continuando a gravare i territori con questa nuova imposta, presto i terreni dell’abbazia sarebbero rimasti sfitti e si sarebbero inselvatichiti, creando un grave danno alla commenda. In tale modo si premunivano, affinché in futuro un sopruso non divenisse un diritto.
Note
[i] Il feudatario di Strongoli Gio. Maria Campitelli poco dopo la metà del Cinquecento in una causa con l’università di Melissa denunciava che in passato, evidentemente per sfuggire a nuovi gravami imposti dal feudatario, i Melissesi “per pura malignità et per dannificare al detto ec.te Barone hanno cessato di coltivare lo territorio de melsa et sono andati a fare le loro industrie di massarie seu campi fora ditto territorio di melsa in lo territorio di stronguli, del zirò, calfizzi et casobono, et lo ditto territorio del melsa e restato in culto per loro colpa et defetto.” ASN, Fondo Pignatelli Ferrara Fs. 51 bis, prat. N. 100, f. 4; vedi anche Cosentino A., Melissa Medievale e Moderna, Rossano 2001, p. 49.
[ii] Nel conto del regio tesoriere di Calabria Ultra dell’anno 1579/1580 si accenna alla “disabitatione di S. Maria de Altilia”. ASN, Tesorieri e Percettori, fs. 506, ff. I – II, f. 41v.
[iii] “Capitoli concessi per l’Ill.mo e Rev.mo S.r Tiberio Barracco perpetuo commendatario dell’Abbadia di S.ta Maria d’Altilia alli vassalli che sono venuti e veneranno ad habitare nel territorio e casale di d.a Abbadia. In primis detti vassalli offereno a d. S.r Abbate commendatario di d.a Abbadia anno quolibet per ciascheduno d’essi una giornata a fatigare con loro persone ad elettione di d. Sig.re o di suo leg.mo Procu.re circa il tempo, e quelli che haveranno bovi promettono una giornata d’un paricchio di bovi per uno anno quolibet a seminare o ad altro servitio che loro saranno richiesti. Placet dummodo unusquique serviat eo modo quo poterit unus tantum die vel cum hominis, vel cum aliis animalibus quo habuerit. Item promettono per ciascheduno casalino de loro habitationi carlini due et una gallina anno quolibet. Placet. Item la decima di tutte le bestiami cioè pecore, capre e porci di loro allevi per ciascheduno anno. Placet. Item per ciascheduna vacca anno quolibet ogni vitella o vitello che nasceranno uno carlino. Placet. Item promettono anno quolibet portare et chiudere al bisogno tanto di paglia come di legna per la casa di d.o S.re Abbate o vero procuratore in d.a abba.a. Placet.. Item promettono tutti li deritti e raggioni di vassallaggi. Placet. Item supplicano si degni farli immunità a capitolo che volendo fabricare case, o piantare vigni in d.o territorio che quelle possano vendere, alienare et permutare a loro arbitrio a chi loro piacerà. Placet habita prius licentia. Item promettono edificare loro cappella e tenere il loro cappellano a loro spese. Placet. Item promettono per ciascheduno miglaro de vigne che faranno a d.o territorio cioè in la cersa grana quindici per tomolata et a bascio un tari per tumulata. Placet dummodo in designatione vinear. faciendar. interveniat Procurator noster. Item promettono che edificando d. Abbate molino in suo potere pervenendoli a d. territorio convicino essi pr.tti habitanti siano tenuti andare a macinare in d.o molina e pagare la giusta raggione et a tempo che si guasta l’acquaro siano tenuti donarci una giornata per ciascheduno, e cossi un’altra giornata al portare delle mole quando accaderà gratis. Placet. Item supplicano che loro se conceda da detto S.r Abbate che possano con loro bestiame andare a pascolare alla metà del bosco che oggi possede d.o Sig. re d’ogni tempo gratis. Placet dummodo non escludantur animalia nostra et domus nostra. Item supplicano che d.o S.r Abbate loro voglia donare una parte di terreni che siano bastanti per il paricchio in d.o casale qual possano seminare et cultivare et delli frutti perveniendi offereno di pagare di qualsivoglia sorte di vettovaglie che li pervenerà di detti terreni che loro saranno concessi la decima debita. Placet. Item se contentano et promettono essi habitanti di non estraere le vettovaglie da d.o territorio se prima non richiedono a d.o Sig.re o suo procuratore e pagare la raggione della decima. Placet. Item supplicano che si degni concedere per qualsivoglia causa che appartenerà a d. S.r Abbate o sua corte, non voglia far procedere a officio, ma a richiesta de parte. Placet quantum in nobis extat. Item supplicano si degni concederli che possano in d.a parte di bosco fare il bisogno de stigli de massaria, che ci possano far frasche per loro bovi ultra le quercie et ogliastri e trovandone alcuno tagliar quercie o altri alberi fruttiferi in d.o bosco non si possa alterare la pena d’uno ducato pro quolibet vice. Placet. Item che per l’affittare che si farà in d.a Corte non siano tenuti pagare più di diece grana per atto. Placet. Item che l’officiale seu capitano locotenenti et m.o d’atti siano tenuti dare plegeria di stare a sindacato. Placet. Item la supplicano che si degni non ricevere in d.ta habitatione persone ingati o altri et loro promettono se alcuno ce ne accadera rivelarlo all’officiali di sua sig.ria. Placet. Item che loro bovi o altri bestiami essendo trovati querelati alle poss.ni et lavori in lo d. territorio non possano essere astretti ad altro solo che al danno alla parte et un tarì alla corte di pena per ciascheduna persona pro quolibet vice. Placet. Item la supplicano si degni favorirli che non siano aggravati per l’officiali delle terre convicine et esser conosciuti dall’officiali di S.E. Placet quod pro viribus procurabimus. Item la supplicano si degni favorirli che li monaci di d.o monasterio loro voglia vaditare l’olive di d.a abatia in perpetuo per esse propinque dell’habitatione che loro offereno pagare il medesimo censo che alli monaci l’ha scomputato il S.r abbate passato.procurabimus. Item la supplicano che venendoli detta habitatione in complimento li voglia reformare li predetti capitoli in meglio forma. Iam reformavimus. Io Tiberio Barracco Abbate di S.ta M.a di Altilia mi contento et accetto ut. s.a. Antonio Intornicchia, Matteo Papaianne, Morchia Bansti, Antonio Naso, Pietro Menza, Antonio Schureri, Federico Severi, Andrea Basta Dima Instegneri, Marco Antonio Russo, Jo Maria Lafredi, Luca Butero, Stefano de Richetta, Minico Spupparo, Pietro Cordapoli, Ger.mo Pisano, M.o Aurelio Andisano. ASCZ, Copia di Platea antica con i pesi de’ vassalli, Misc. Monastero di S. Maria di Altilia, fasc. 529, 659, B. 8.
[iv] ASN, Fuochi della Provincia di Calabria Ultra, 1602, Fs. 558, f. 42.
[v] Durante il periodo in cui le entrate dell’abbazia di Altilia furono affittate a Giuseppe Mancini (1661-1664) fu compilata una Platea. In essa così è descritto l’avvenimento: “perché gl’anni passati scasorno tutti i vassalli affatto d’Altilia per non poter comportar più gl’aggravii di fiscali Regii e stettero assenti per lo spatio di tre o quattro anni, in questo termine si presuppone che li P(adr)i del monastero s’impatronissero di molte case, e giardini ch’è di presente godono senza poterne mostrare titolo veruno e li P(adro)ni prin(cipal)i d’esse hanno reclamato assai per la recuperatione ad ef(fett)o di tornare ad habitare come hanno fatto gl’altri e però d’avvertire che essendoci in Altilia uso e consuetudine a favore dell’Ab(bat)e Com(mendata)rio che quando un vassallo non habiti in detto casale dove non vi habbia vignia ma casa sola la medesima ritorni all’istesso Ab(bat)e Com(mendatari)o e così tutte le case ch’hora godono in questa forma li P(adr)i doverebbero restituirle all’Ab(bat)e Com(mendatari)o mentre ne le restituiscono a P(adro)ni per il quale effetto anco e danno del medesimo Ab(bat)e Com(mendatari)o che riceverebbe da questi il casalinaggio annualemente …”. ASCZ, Copia di platea antica con i pesi de vassalli di d. scritta a foliate numero 29, in Miscellanea. Monastero di S. Maria di Altilia (1579-1782), 529, 659, B. 8.
[vi] Processo per la spica della Badia fatto nel 1678, in Miscellanea. Monastero di S. Maria di Altilia (1579-1782), 529, 659, B. 8.
Creato il 14 Marzo 2015. Ultima modifica: 21 Maggio 2021.