La Torre del barone di Paparone
La torre del barone di Paparone è situata in località “La Torre” poco distante dall’abitato di Cutro e nelle vicinanze del convento del SS.mo Salvatore. Essa era costituita da una costruzione alta e massiccia a base quadrata, della quale ora rimane solamente una parte tronca in parte deturpata da interventi di restauro recenti. Edificata in posizione dominante, controllava la via di Rosito, che collegava Cutro con Le Castella, e l’antico ingresso della città dalla parte della marina. Essa è conosciuta volgarmente come “La Turra” o anche come il “Casino dei briganti” e la sua costruzione dovrebbe situarsi a cavallo tra il Cinquecento ed il Seicento. Secondo il Rohlfs Paparone significa “Prete Arone”.
Il feudo di Paparone
La prima notizia riguardante il feudo di Paparone è un atto di re Ferdinando d’Aragona del 1466, che confermava e faceva nuova concessione a Domenico Gangis dei feudi di Bardari e di Paparone, siti e posti vicino a S. Giovanni Minagò pertinenza di Santa Severina “con adoha et feudali servitio Regiae Curiae praestandis”. In seguito, sempre nella seconda metà del Quattrocento, il feudo di Paparone venne in possesso della famiglia fiorentina dei Buondelmonte. Troilo Firrao sposò Andreana Buondelmonte che gli portò in dote il feudo, che poi passò a Scipione Firrao con il titolo di barone di Paparone. Quest’ultimo si unì con Giulia Caracciolo Rossa ed ebbe una figlia di nome Ippolita, che si accasò con Pelio Tomaso, figlio di Pietr’Antonio Firrao e di Diana Tarsia. Dalla loro unione nacque Scipione che sposò Lucrezia Sersale dei signori di Castefranco, ed ebbe come figli Pietro e Martio. Da Pietro Firrao, barone di Paparone, seguì l’erede Tomaso. (Fiore G., cit. III, 345 -347).
Da feudo a suffeudo
Il 30 maggio 1507 il re Ferdinando confermava e faceva nuova concessione al conte di Santa Severina Andrea Carrafa della baronia di Cutro e gli concedeva “che li feudatarii, che possedevano feudi segregati, esenti, et separati dal territorio di d.o Contato, et Baronia di S. Severina fussero tenuti Adohare ad esso Ill.e Conte suoi heredi , et Successori con pagarli il Jus adohe tante volte quante l’Adoha g.n.l.r in Regno Indigetur sincome a sua Regia Corte erano tenuti, et con pagarli anco il Relevio et dimandare li Investiture Iusta il tenore delli suoi Privilegii”. (ASN, Ref. Quint. vol. 207, f. 86).
Fu così che per privilegio concesso dal re Ferdinando al conte di Santa Severina Andrea Carrafa, essendo il feudo di Paparone all’interno della baronia di Cutro e della contea di Santa Severina, da feudo divenne suffeudo e quindi i baroni di Paparone furono suffeudatari prima dei conti di Santa Severina e poi dei feudatari dello stato di Cutro, dai quali ricevevano l’investitura ed ai quali pagavano l’adoha.
La torre e la chiesa di San Sebastiano
Il 19 febbraio 1629 fu registrato il regio assenso concesso dal vicerè, Fernando Afan de Ribera duca di Alcalà, alla vendita fatta dai tutori dei figli ed eredi del fu Pietro (Ferrari) Firrao e del figlio primogenito di quest’ultimo Tomaso del suffeudo di Paparone, situato nella terra di Cutro, in favore del cutrese Francesco Oliverio, figlio di Fabritio, per il prezzo di ducati 6000. (Giuseppe, altro figlio di Fabritio, si unirà con Prudenza, figlia di Stefano Oliverio, e dalla loro unione nascerà il 3 dicembre 1642 Bartolomeo, futuro vescovo di Umbriatico). In seguito il novello barone Francesco Oliverio tentò di ripopolare e di rendere più produttivo il feudo con la costruzione di un giardino e la ricostruzione della chiesa, che erano situati vicino alla vecchia torre.
In una supplica inviata il 25 ottobre 1637 al reverendo Joseph de Valle, vicario generale dell’arcivescovo di Santa Severina Fausto Caffarelli, Francesco Oliverio, barone di Paparone chiedeva di poter restaurare la chiesa di San Sebastiano vicino alla torre ed al giardino .
“Molto Illmo R.mo S.re. Fran.co Oliverio della terra di Cutro con supp.ne dice a V.S. R.ma come a piedi della torre nel luoco detto del Barone vi è una chiesa diruta sotto il titulo di S. Sebastiano et perche esso supp.te ha volontà per servitio di Dio di repararla acconciarla et adornarla ancora afine di potercivi celebrare messa et altri divini officii et parim(en)ti di dotarla in docati otto l’anno per celebratione di una messa la settimana obligando specialmente per d.a annua prestat(io)ne li frutti del giardino sito e posto in d(ett)a t(er)ra confine la d(ett)a torre e l’altre terre convicine e contigue a d(ett)o giardino cioè il piano di d(ett)a torre che sole rendere ogni anno docati trenta col jus non di meno di presentare il cappellano a chi parerà ad esso supp.te e suoi heredi che li riceverà a gra. di V. S. Ill.ma ut Deus” e così supplicano Gioseppe e Nicolò Oliverio. Il 20 febbraio 1638 il vicario generale concedeva di rifare l’edicola di San Sebastiano “nuc dirutam et existentem prope terram Cutri in loco nuncupato il feudo di Paparone”, ponendo però alcune condizioni che cioè il cappellano dovesse essere presentato alla curia arcivescovile e con l’imposizione dell’onere della celebrazione di una messa settimanale. Il patrono doveva inoltre tenere decentemente la chiesa, fornirla di ogni cosa necessaria per il culto e nell’anniversario della festa della Dedicazione della chiesa cattedrale di Santa Anastasia offrire all’arcivescovo del tempo due libre di cera (AASS, 4D fasc. 3).
Il suffeudo passò nel 1641 al figlio di Francesco, Bernardino Oliverio che ne ottenne l’investitura da Giovanna Ruffo principessa di Scilla (ASN, Ref. Quint. Vol. 218, ff. 1 -13v). Il suffeudo fu amministrato per un certo periodo di tempo, essendo Bernardino di minore età, dalla madre. Nel 1647 infatti risulta amministrato da Anna d’Onofrio, madre e tutrice di Bernardino (ASCZ, Reg. Ud. 113).
La decadenza
Le pestilenze e la crisi economica seicentesca determinano lo spopolamento del luogo. Un documento della metà del Seicento mette in risalto il grave stato di abbandono in cui si trova la chiesa di San Sebastiano. L’arcivescovo di Santa Severina Francesco Falabella, che nel novembre 1660 la visitò, trovò l’altare spoglio e privo di ogni ornamento, la parete della chiesa dalla parte sinistra dell’altare rovinata ed inoltre il tetto era scoperchiato in alcune parti. Per tale motivo l’arcivescovo interdisse la chiesa finché la parete non fosse stata nuovamente edificata, il tetto riparato e l’altare fornito di ogni ornamento necessario al culto. (AASS, Visita pastorale dell’arcivescovo Falabella, 1660, f. 209).
Alla morte di Bernardino Oliverio il suffeudo nel 1668 passò alla figlia Elisabetta Oliverio, che fu moglie di Domenico Oliverio e che ne ottenne l’investitura da Francesco Filomarino, principe della Rocca. Dall’unione nacque Antonia. In seguito nel 1686 ad istanza dei creditori del fu Francesco Filomarino, principe della Rocca, lo stato di Cutro per decisione del Sacro Regio Consiglio fu messo all’asta pubblica e fu acquistato da Ippolita Maria Muscettola. Tra i corpi venduti vi era anche l’adoha del suffeudo di Paparone. In seguito lo stato di Cutro passò a Nicola Filomarino. Alla morte di Elisabetta, avvenuta nel 1688, il suffeudo passò alla figlia Antonia Oliverio, che ottenne l’investitura da Nicola Filomarino principe della Rocca.
Smembramento del suffeudo
All’inizio del Settecento il suffeudo cominciò ad essere oggetto di lite tra i vari rami degli Oliverio.
Antonia Oliverio dopo aver contratto matrimonio nel 1706 con Saverio Perrone , barone di Sellia, col consenso del marito, il 12 maggio 1714 fece una finta vendita in favore del padre, “l’utroque jure doctor” Domenico Oliverio, del feudo di Paparone sito e posto nel territorio di Cutro, S. Giovanni Minagò, le Castelle e Rocca Bernarda con alcuni corpi burgensatici, “consistenti nella sesta parte del territorio di Serrano sita nelle pertinenze di Cutri, la metà della destra nominata li Canalicchi, sita in territorio di Cutro, due camere alte e basse una stalla ed una metà di vigna. I beni le erano pervenuti: il feudo di Paparone dall’eredità di sua madre Elisabetta Oliverio ed i beni burgensatici da sua madre e dall’eredità delle zie materne. Tali beni erano stati a lei assegnati in dote al tempo, che contrasse matrimonio con il barone Saverio Perrone. Tuttavia Antonia Oliverio non ratificò la vendita e, nonostante che il padre Domenico Oliverio, che si era risposato con Livia di Bona, prima di morire avesse fatto testamento ordinandole di effettuare la vendita fattagli del feudo e dei beni burgensatici in favore del suo figlio primogenito, e fratello consanguineo di Antonia, in quanto figlio di Domenico e di Livia di Bona, Giuseppe Antonio Oliverio e dei secondogeniti Felice e Donato. Durante questi anni le proprietà di Antonia Oliverio, situate vicino all’abitato di Cutro, sono dati in fitto a coloni e pastori, seguendo la rotazione triennale, cioè alternando i tre anni a massaria, o a semina, ai tre anni di erbaggio, o pascolo. Da un contratto stipulato in data undici novembre 1715 si viene a sapere che i beni situati in Cutro erano amministrati dal reverendo Camillo Oliverio. Infatti il colono Lodovico Moschetta di Cutro in quel giorno si obbligava a pagare al Reverendo ducati 360 per la durata dei tre anni d’affitto della gabella di Pascale, giardino, piano della torre e sciolle dell’Umbro. Il contratto di fitto ad uso massaria doveva iniziare dal primo settembre dell’anno 1716 e doveva finire alla fine di agosto 1719 (Reg. Vol. 383/VII, f. 23). Sempre in questi anni Domenico Oliverio ammassava il grano che incettava dai coloni nelle sue fosse di Cutro e lo vendeva ai mercanti napoletani. (Alcuni bordonari di Cronone “nelli caduti anni 1716 e 1717 d’ordine del Sig. Domenico de Laurentiis” si recano a Cutro per caricare il grano che deve consegnare Domenico Oliverio, il quale “fece aprire una fossa et incominciò a far cavar fuori li grani vi erano dentro”, Lipari S., 1719, ff. 38-39).
Si dovrà quindi arrivare al 13 settembre 1723, quando avuto il regio assenso Antonia Oliverio, baronessa della terra di Sellia e vedova di Saverio Perrone, vendette il suffeudo al fratello Giuseppe Antonio Oliverio, il quale senza patto di ricompra ne vendette una parte per ducati 4650 al principe della Rocca d’Aspro Giovan Battista Filomarino. La parte venduta riguardava alcuni corpi che erano membri del suffeudo di Paparone sito nel territorio dello stato di Cutro, di San Giovanni Minagò, delle Castelle e della Rocca Bernarda e precisamente le gabelle di Pascale e di Pozzo Seccagno. Restò fuori dalla vendita, rimanendo quindi a Giuseppe Antonio Oliverio “La Torre di esso suffeudo di Paparone con suoi casaleni adiacenti a d(ett)a torre siti nel Piano di detta Gabella nominata Pascale, una con quattro tomolate di terra contigue a d(ett)a torre nel luogo Piano giusta detta torre e suoi casaleni, le quali esso D. Giuseppe Antonio e suoi eredi si ne possano servire cosi ad ogni uso di vigna quanto d’ogn’altro uso, che ad essi meglio parerà, e piacerà” (ASN, Ref. Quint. Vol. 218, ff. 1–13v).
Ultimi feudatari
Per un certo periodo di tempo le proprietà, essendo a centro di una contesa tra i vari discendenti Oliverio, furono amministrate da Giacinto, marito di Livia Oliverio, sorella di Elisabetta, e Giuseppe Antonio Oliverio; infatti da un atto del 1727 risulta che la gabella di “Pasquale” appartiene sia Giacinto che a Giuseppe Antonio Oliverio. In seguito, dopo che nel 1729 la lite si era risolta a favore di Giuseppe Antonio, ciò che rimaneva del suffeudo fu aggiudicato a quest’ultimo, come risulta anche dal catasto di Le Castella del 1742, dove Giuseppe Antonio Oliverio di Cutro, che abita nella città di Cotrone “cum domo et familia”, possiede il suffeudo di Paparone.
Pur rimanendo Giuseppe Antonio unico intestatario, il suffeudo sarà gravato dagli oneri dovuti per eredità e legittima ai fratelli Felice e Donato.
Francesco Antonio Oliverio, “barone del feudo di Paparone e Crepacuore” ed aggregato ai primari patrizi di Crotone fin dal 1737, si stabilirà stabilmente a Crotone nel palazzo, che era stato di Cesare Presterà, di cui era nipote; morì il 29 agosto 1765 e fu sepolto nella cappella di S. Francesco di Paola, cappella da lui fondata nel maggio 1749 nella chiesa del convento omonimo fuori le mura. Giuseppe Antonio Oliverio si sposò due volte, la prima volta con Rosa Raimondi e successivamente con Isabella Toscano.
La torre con ciò che rimaneva del suffeudo di Paparone rimase agli Oliverio, Giuseppe Antonio, prima, barone di Paparone e di Crepacore, e poi alla sua morte, avvenuta il 29 agosto 1765, al figlio Cesare, figlio di Giuseppe Antonio e della seconda moglie Isabella Toscano, che manterrà il possesso fino al 1806, anno dell’eversione della feudalità. Cesare Oliverio, affiliato alla massoneria, partecipò a Crotone ai moti rivoluzionari della “Repubblica crotonese” del febbraio/ marzo 1799 e per tale motivo con decreto del 6 aprile fu condannato “sua vita durante nel castello dell’isola del Marittimo”.
Creato il 22 Febbraio 2015. Ultima modifica: 26 Marzo 2015.