Il convento dei minimi di S. Francesco di Paola di Crotone con chiesa di Gesù Maria
Nel 1460 su richiesta del castellano di Crotone,[i] Francesco di Paola mandò Paolo Randacio da Paterno a fondare il convento sotto il titolo di “Gesù Maria”, convento che venne edificato fuori le mura nelle vicinanze dell’Esaro (tra la via per Cutro e le Piane dell’Acquabona). Risale al periodo della costruzione della chiesa, l’erezione della cappella gentilizia dedicata alla Madonna del Carmine, costruita e dotata, con altare e cappella, da Garetto Berlingieri, “il primo di tal nome della sua famiglia di Berlingieri”.[ii] I Berlingieri conserveranno la cappella per tutto il Seicento[iii] e per buona parte del Settecento, condizionando con la loro presenza anche la vita economica conventuale.
L’erezione del nuovo convento dette anche il nome alla fiera che si svolgeva nei suoi pressi che prese il nome di Jesù Maria. All’inizio del Cinquecento non dovette avere vita facile perché, come si rileva da un documento, già nel 1521 troviamo la richiesta di frate Agostino da Crotone rivolta ai superiori, affinché vengano ricondotti nel convento coloro che, rinnegando la fede, ne erano fuggiti, facendo ricorso, se sarà necessario all’aiuto del braccio secolare e minacciando scomuniche contro coloro che li nascondono.[iv] A pochi anni dopo risale la costruzione nella chiesa della cappella della famiglia Pignerio, che verrà dotata per lascito testamentario di Petro Pignerio con l’onere di tre messe settimanali.[v]
Alla metà del Seicento la comunità è sotto la guida di un correttore ed è composta da altri 5 frati detti locali. Come per altri conventi la sua vita economica è legata a prestiti di capitali ad interesse ed a lasciti testamentari e, come gli altri istituti religiosi della città, risentì della crisi seicentesca. Il fallimento dei raccolti e le pestilenze impoverirono non solo i coloni, che non riuscirono a far fronte ai loro impegni e ad alimentare le famiglie, ma colpirono anche di riflesso i religiosi, i quali videro i terreni sfitti ed i censi inevasi.[vi] Molti beni dei coloni, a causa delle loro precarietà, passarono di proprietà degli ecclesiastici.[vii]
In tale periodo il convento è al centro di una vivace attività finanziaria e speculativa. Numerosi piccoli capitali, provenienti da donazioni, da prestiti, da compra-vendite, da lasciti, ecc., vengono infatti concessi ad interesse o investiti, ipotecando case e vigne.[viii] A volte i frati procedono ad acquisti di immobili,[ix] sovente il denaro non è impiegato in beneficio della comunità ma, con la complicità di correttori corrotti, viene dirottato a nobili che lo usano per loro tornaconto.[x]
Situato in una località isolata ma non molto lontana dalla città e godendo dell’immunità, il convento fu luogo ricercato di rifugio per i banditi, e per tutti coloro che erano ricercati dalla giustizia secolare.[xi]
Nel 1674 i frati sono in lite con le clarisse che rifiutano di pagare un censo annuo di tomolate sei di grano, più numerose annate arretrate, su un vignale appartenuto ad una monaca defunta e che ora dovrebbero corrispondere le clarisse in quanto eredi. La lite portata in corte vescovile è sanata per l’intervento di comuni amici dei due monasteri.[xii] Tre anni dopo i frati concedono un prestito vantaggioso alle clarisse, segno della avvenuta pacificazione tra i due monasteri.[xiii] Infatti, nonostante la grave crisi economica che colpisce la città, e che mette in difficoltà finanziarie il ricco monastero di Santa Chiara, il monastero dei Paolotti risulta alquanto vitale, tanto da intervenire a finanziare le stesse clarisse, che non hanno il denaro sufficiente per comprare una casa ed alcuni magazzini vicini al loro monastero dai quali, sovrastando ed essendo attaccati alle mura, “ricevono le monache grandissimo sospetto”, così che nella visita il vescovo Geronimo Caraffa aveva ordinato alle monache, a salvaguardia della clausura, di comprarli e farli demolire.[xiv]
La comunità sarà sempre composta durante il Seicento ed il Settecento, da quattro o cinque religiosi (nel 1755 vi erano Alessandro Manfreda, correttore, Francesco Ranieri, procuratore, Battista Miricelli, frate).
Con la rinascita dei primi decenni del Settecento, vennero costruiti numerosi magazzini fuori le mura della città, nelle vicinanze del convento, ed alcuni proprio nel luogo detto volgarmente “S. Francesco di Paola”. Sfruttando la presenza di una richiesta di affitto di magazzini, in quegli anni e precisamente nel 1742/1743, i frati apportarono alcune modifiche al convento e alla chiesa. “Trovandosi la chiesa edificata da circa tre secoli malamente disposta nell’architettura”, per renderla “più perfetta all’uso moderno”, i frati decidono , anche grazie agli aiuti finanziari messi a disposizione dal frate collega Michele Suriano di Cotrone, di “ridurla e perfezzionarla a loro proprie spese per maggior gloria di Dio ed aumento della divozione de fedeli secondo il parere e la disposizione dell’ingegnero e regio tabulario mastro Scipione di Paula di Rogliano”, che appositamente hanno fatto venire a Crotone.
Si dovrà chiudere tutta l’ala in cornu epistole; l’unica ala esistente sarà poi trasformata in magazzini. La chiesa sarà ridotta alla sola navata, ripartendo nella medesima sei cappelle, tre per lato all’uso romano, che saranno abbellite con stucchi. La cappella gentilizia dei Berlingieri, che si trova nell’ala da chiudere, con altare e sotto il titolo della Madonna del Carmine, costruita al tempo che era ancora in vita il santo di Paola, andrà perciò dismessa.
La cappella che fin dalla fondazione, è stata mantenuta e restaurata dalla devozione e liberalità dei discendenti del fondatore, i quali vi mantennero sempre il patronato laicale, ora appartiene al discendente ed erede il marchese Francesco Cesare Berlingieri. Nel dare l’assenso alla distruzione della cappella, il nobile ottiene dai frati di poterne avere un’altra nella stessa chiesa e precisamente la prima e la più prossima all’altare maggiore, delle tre cappelle che i frati intendono far costruire in cornu epistole.
Una volta terminata di rustico la cappella sarà accomodata ed abbellita con stucchi a spese del marchese, il quale ne diverrà patrono e vi porrà il quadro della Madonna del Carmine o la sua statua, vi farà scolpire le insegne della sua casa e sotto l’ultimo scalino dell’altare vi costruirà il sepolcro di famiglia, dove trasferirà tutte le particolari lapidi ed iscrizioni e le ossa dei suoi antenati, che attualmente giacciono nella cappella soppressa. Egli, inoltre, a ricordo della traslazione ha intenzione di mettere anche una nuova lapide.[xv]
La ristrutturazione della chiesa procede e pochi anni dopo, il 16 maggio 1749, nel refettorio del monastero, presenti il correttore fra Michele Suriano ed i locali fra Antonio di Catanzaro, Pietro Lombardo, Benedetto Varano ed Alessandro Manfredi, il barone di Paparone e di Crepacore, Giuseppe Antonio Oliverio, dichiarava che, essendo stati lui ed i suoi antenati sempre devoti a San Francesco di Paola, fin dal 1738 aveva ottenuto il permesso dal padre provinciale di erigere una cappella. Ora aveva deciso di fondare a sue spese una cappella sotto il titolo di San Francesco di Paola nella chiesa e, precisamente, essa sarà la prima a destra in cornu evangelii.
Qui sarà collocata la statua del santo che ora era senza cappella in una nicchia della chiesa. Ai piedi della cappella, inoltre, il nobile ha intenzione di costruire il sepolcro per sé ed i suoi eredi e successori. La cappella usufruirà di una rendita annua perpetua di ducati 5 su ducati 100 di capitale, da esigersi sulla quarta parte del territorio di Schiavone. L’Oliverio consegna subito al correttore duc. 50 che serviranno per la costruzione, e si impegna una volta che essa sarà terminata a guarnire ed ornare l’altare ed a fornirla di fiori, candelieri, cristalli per la nicchia del santo, anticona, ecc. I frati dovranno in seguito mantenere e curare la cappella, fornendola di ogni cosa necessaria, celebrando, o facendo celebrare, una messa cantata nel suo altare, per l’anima del fondatore e dei suoi antenati e successori nel giorno di San Francesco di Paola.[xvi] Sei anni dopo un’altra cappella con altare, dedicata a San Francesco di Sales, S. Dionisio e S. Giovanni Nepomiceni, che era senza compatrone, veniva concessa alla nuova confraternita sotto la regola del terzo ordine di S. Francesco di Paola, e sotto la protezione di San Francesco di Sales. Nell’occasione i confrati si obbligarono a tenerla sempre adorna e fornita di convenienti suppellettili, potendo utilizzare per loro il sepolcro vicino alla cappella.[xvii]
A quel tempo le proprietà del convento erano costituite da alcuni territori (La Ferrarella, parte di Li Martorani, vignale dentro Li Ponticelli), da dei magazzini (sotto il convento e in città), e da moltissimi annui censi e canoni. Quasi una cinquantina tra censi e canoni gravavano i territori, i vignali, le vigne, i palazzi e le case dei cittadini. Essi erano il frutto di una intensa attività creditizia, basata sul prestito di piccoli capitali ad interesse, diretto soprattutto al ceto dei massari e dei coloni, che, favorita da lasciti e legati, apportava al convento ogni anno una più che discreta quantità di denaro e di grano.[xviii]
Il convento fu causa di varie liti tra il potere ecclesiastico e quello secolare. Di frequente vi si rifugiavano ricercati, fuorusciti e banditi, che sfruttavano l’immunità del luogo per commettere reati. Nel 1773 vi si rifugia Francesco Cavaliere, reo di molti delitti, condannato dal tribunale e fuggito dal carcere. Una notte però l’edificio è circondato su ordine del castellano da sei granatieri, i quali catturano l’evaso nell’atrio della chiesa, su cui si estende l’immunità, e lo portano nelle carceri del castello. Appena sparsasi la notizia, interviene subito la Curia vescovile che minaccia la scomunica contro gli autori, così il Cavaliere deve essere riportato in chiesa e liberato affinché “non s’offenda l’ecclesiastica immunità”.[xix]
Nella seconda metà del Settecento la chiesa di Gesù Maria conservava sei altari, dei quali quattro erano liberi (SS. Sacramento, S. Dionisio, S. Rocco e S. Michele Arcangelo), uno di iuspatronato della famiglia Oliverio (S. Francesco di Paola), e l’ultimo apparteneva a Benedetto Milioti (Beata Vergine del Rinfresco).[xx]
Al tempo della soppressione, avvenuta dopo il terremoto del 1783, era abitato da soli tre frati. L’edificio era composto da un chiostro con vaglio e pozzo, una loggia, un coro, due corridoi, un loggione e dalla chiesa, ben costruita ed ornata, con sacrestia e con le sei cappelle.
Attaccato al convento vi era un giardino con alcuni alberi da frutto, in parte circondato da muri e da piccole siepi e nel convento si aprivano 16 magazzini: otto erano nel chiostro (vicino alla porta dell’orto, presso il pozzo, nella porta di battere, sotto la cucina, sotto e dirimpetto la vinelluzza, sotto la dispensa ed accanto alla sacrestia), cinque nel vaglio (dietro la cappella di S. Francesco, del pulpito, del Carmine, della Torretta e del Vaglio), e tre detti del Portone sulla strada.
Il monastero era tra i luoghi pii della città quello più ricco, dopo il monastero delle clarisse, ma a differenza di quest’ultimo, aveva una comunità di molto inferiore. Le sue rendite provenivano dall’affitto di alcuni fondi rustici (Gesù e Maria, La Vela e la Ferrarella), da due taverne vicino alla piazza, da 16 magazzini e soprattutto, da censi perpetui e bollari. All’atto della sua soppressione, esso esigeva ben 57 censi enfiteutici e 6 censi bollari, potendo godere di una rendita annua dichiarata di circa 300 ducati, ma certamente essa era di molto superiore. Le entrate provenivano per circa l’80 % da canoni e da interessi su capitali, che gravavano soprattutto case e terreni, mentre il rimanente veniva dall’affitto dei terreni e dei magazzini.[xxi]
Dopo la soppressione, parte dei beni furono assegnati dal marchese di Fuscaldo al seminario, mentre la chiesa era abbandonata, “diruta e crollante”, con “l’altare maggiore tutto disfatto … un masoleo marmoreo con suo deposito … Il pavimento tutto disfatto e vi mancano le coperture de sepolture. Lamia tutta lesionata…”. Essa fu trasformata in seguito in magazzini secondo il progetto elaborato dal perito Pasquale Juzzolino.[xxii] Così lo Sculco annotava: “Nel 1900 sprofondò parte del suolo vicino la porta della chiesa ora magazzino scoprendo un sotterraneo che fu subito ricoperto. Nel 1903 fu iniziato uno scavo all’interno della chiesa. Alla profondità di m. 1,80 trovai l’antico pavimento e infrantolo scoprii molti avanzi in muratura dell’antica città. Trovai un emblema con la seguente iscrizione: Pet. Iov. Ormazza Ind. Crot. Pat.”[xxiii]
Note
[i] Martire D., La Calabria sacra e profana, Cosenza 1878, I, p. 395. Russo F., Storia della Chiesa in Calabria, dalle origini al Concilio di Trento, II, p. 622.
[ii] ASCZ, Busta 911, anno 1742, ff. 73-77; Busta 666, anno 1743, ff. 61-62.
[iii] Scipione Berlingieri, marito di Isabella Mangione e padre di Carlo e Felice, dispone per testamento di essere seppellito nella cappella di famiglia, eretta nella chiesa di Gesù Maria. ASCZ, Busta 310, anno 1664, f. 44.
[iv] Russo F., Regesto, III, 16258.
[v] Il 16 febbraio 1531 il papa Clemente VII conferma ai frati l’erezione della cappella. Russo F., Regesto, III, 16951.
[vi] Nel 1651 i frati imprestano ad interesse 130 ducati ad alcuni coloni ma, non riuscendo a riscuotere gli interessi, cedono nel 1660 ogni loro diritto al decano della cattedrale per ducati 150 all’otto %, su una casa di Lorenzo Siciliano. Ma non soddisfacendo gli interessi, né il Siciliano né il figlio ed erede di costui, i frati ricorrono alla corte vescovile, facendo mettere all’asta la casa che fu aggiudicata a Giuseppe Gerace, il quale si obbliga a versare subito gli interessi maturati e l’anno dopo il capitale, che i frati dovranno per obbligo subito impiegare in altra compra. ASCZ, Busta 334, anno 1675, ff. 26-30.
[vii] G. Capicchiano madre di 4 figli e con il marito infermo, a causa delle disastrose annate e per le malattie, per poter vivere ed alimentare la sua famiglia, si indebita gravemente, tanto che il marito deve stare in un rifugio per non essere carcerato. Essa, perciò, è costretta a prendere a prestito duc. 30 all’otto % dai paolotti impegnando la casa dotale (ASCZ, Busta 497, anno 1703, f. 13). Lo stesso fa R. Greco. Poiché per le annate calamitose e scarse, il marito è stato costretto ad indebitarsi e rischia di essere imprigionato, essa chiede un prestito ai frati, impegnando la casa dotale (ASCZ, Busta 915, anno 1762, ff. 103-104).
[viii] L. A. Villirillo cede a J. Messina, una vigna gravata da un censo enfiteutico di annui carlini 31 dovuti al convento (ASCZ, Busta 253, anno 1670, f. 16). G. Sillano vende a G. Galluccio una continenza di case gravata da un annuo censo di carlini 12 dovuti al convento (ASCZ, Busta 334, anno 1672, f. 33). F. Aprigliano vende ad A. Corea una vigna su cui grava un censo annui dovuto al convento per “ratione soli” (ASCZ, Busta 335, anno 1685, f. 17).
[ix] I frati vendono un magazzino che, a causa dello spopolamento, rimane sfitto, per impiegare il capitale in maniera più proficua (ASCZ, Busta 334, anno 1672, f. 41). I frati vendono una casa che minaccia rovina (ASCZ, Busta 334, anno 1679, f. 20).
[x] Il correttore del convento invece di riporre il denaro proveniente dall’affrancazione di un censo nella cassa del convento detta “quattro chiavi”, affinché esso sia reinvestito per utilità dei frati, dà la somma ad Ottaviano Cesare Berlingieri, il quale se lo trattiene per uso proprio. Solamente dopo la morte, gli eredi del Berlingieri lo consegneranno al convento e senza pagare mai alcun interesse. ASCZ, Busta 335, anno 1685, ff. 17-20.
[xi] L’aristocratico Giacinto Suriano, evasore fiscale e contrabbandiere, è ferito mortalmente in uno scontro con alcuni soldati spagnoli. Egli riesce a rifugiarsi nel convento dove “in una camera di fuori la loggetta”, fa testamento prima di morire. ASCZ, Busta 333, anno 1674, ff. 51-53.
[xii] Il monastero era composto da Fra Carlo Coppola (correttore), e dai frati Marco Antonio della Rocca, fra Bernardino della Rocca, fra Antonio Galiano, fra Marco di Anoia e fra Domenico di Catanzaro. ASCZ, Busta 334, anno 1674, ff. 45-47.
[xiii] Il monastero era composto da fra Antonio Galiano (correttore) fra Micheli Roggeri della Rocca Bernarda, fra Stefano di Mayda, fra Gio. Batt.a di Borrello e fra Domenico delo Pizzo. ASCZ, Busta 334, anno 1677, ff. 34-37.
[xiv] Le monache si rivolgono ai paolotti ottenendo un prestito di ducati 150 all’8%. ASCZ, Busta 334, anno 1677, ff. 33v-37r.
[xv] Il monastero era composto dal correttore Domenico Cosentino di Pizzone, dal collega Michele Suriano di Cotrone e dai sacerdoti locali e gremiali, Luigi Donato di Marcellinara e Antonio Dommijanni di Catanzaro. ASCZ, Busta 911, anno 1742, ff. 73-77.
[xvi] ASCZ, Busta 668, anno 1749, ff. 90-92. Il 10 aprile 1758 Giuseppe Antonio Oliverio fa testamento, disponendo di essere seppellito nella chiesa di S. Francesco di Paola “a piè della cappella di detto glorioso Santo da lui fondata, con dover fare li suoi Eredi una lapide di marmo, che servirà per tutti della sua famiglia”. Dall’atto del notaio Petro Grandelli di Cutro in copia gentilmente fornitami dal Dott. Nicola Oliverio.
[xvii] ASCZ, Busta 1125, anno 1755, ff. 29-33.
[xviii] ASN, Cam. Som., Catasto Onciario Cotrone, 1743, vol. 6955, f. 241.
[xix] AVC, Lettera di Giuseppe Friozzi al vicario capitolare, Cotrone 16 maggio 1773.
[xx] Nel 1777 era superiore P. Giuseppe Creto di Troia, Nota delle chiese e luoghi pii ecclesiastici. AVC, Cotrone 18 febbraro 1777.
[xxi] D. Aragona Reg. Ammin. Cotrone, Lista di carico, 1790, ff. 16-22 e sgg.
[xxii] Perizia per la riforma della chiesa del convento di San Francesco di Paola la quale è diruta e crollante. 1) E necessario che si demolisse la volta della nave, e quella del coro con una porzione di muro di cortina fino all’imposta de’ cornicioni dove poggia la nuova armatura del tetto, per essere acciaccati e crollanti dette mura e volte. 2) E necessario ancora dividere il corale della chiesa per mezzo di un muro di fabrica di calce fino all’altezza che sporge alla tettoia onde rendere il locale diviso in due membri vasti per uso di magazzini di conserva. L’ingresso del primo sarà l’antica porta della chiesa e del secondo di aprirsi un vano dalla porta della loggia a fianco de due magazzinetti attuali costruendoci un piccolo muro di prospetto a quello che attualmente divide i due magazzinetti in parola ed in seguito aprire un vano al muro della chiesa; dove è l’antico pulpito e quest’ultimo restare senza serrande di legno che la comunicazione al secondo magazzino 3) la tettoia intera tanto nella navata che in quella del coro deve essere costruita a cavalletti a forbaci con manaci ad ogni cavalletto, saette e staffoni di ferro ognuno palmi 3. Il resto dell’armatura di legname si farà di castane di abete della grossezza di once 4 inchiodate con chiovi di conce 6 e sopra di essi applicarsi tutte quella quantità di genelli che il bisogno richiede dove poggeranno le tegole 4) Il pavimento della navata verrà alzato circa palmi due parallelo a quello del coro, essendo il punto più atto regolarizzandoli a livello e indi costruirci mattonata a calce …”. AVC, Cotrone 20.6.1843, Il perito incaricato Pasquale Juzzolino, Cart. 116.
[xxiii] Sculco N., Ricordi sugli avanzi di Cotrone, 1905.
Creato il 10 Marzo 2015. Ultima modifica: 2 Novembre 2022.
A chi appartiene ora questo convento?
Del convento oggi rimangono solo alcuni resti degli antichi edifici, nei pressi della vecchia sede del Liceo Scientifico, dove esiste una officina auto ed altri locali di privati. Pino Rende