1887: l’epidemia di colera a Cotrone
Il XIX secolo fu un periodo di grandi trasformazioni sociali, politiche, culturali ed economiche, che coinvolsero il mondo intero. Oltre ai lumi del progresso e dell’industrializzazione, il vecchio continente si apprestò a scoprire ben presto nuove malattie, epidemie e pandemie. Una delle più importanti, che caratterizzò l’intero secolo, fu il colera.[i]
Il colera era una malattia nota, della quale si aveva traccia ufficialmente dal 1490[ii] e che si credeva limitata al solo continente asiatico. Al di fuori dei territori indiani era considerata poco pericolosa, e fino ai primi dell’800 nessun paese europeo pensò di tutelarsi. Tuttavia, con i sempre maggiori scambi commerciali ed il frequente via vai di soldati, mercanti e viaggiatori verso le indie, la malattia finì per arrivare in Europa.
L’Italia non venne risparmiata dalla diffusione della “morte asiatica”, e nel corso dell’800 fu “contagiata” per ben sei volte: 1835-1837, 1849, 1854-1855, 1865-1867, 1884-1886 e 1893.[iii] Il contagio avvenne non solo tramite le città portuali, ma anche tramite il semplice passaggio di uomini e merci dai paesi vicini, come Francia e Germania.
Tra le varie città d’Italia che vennero interessate dal colera, purtroppo c’è da annoverare anche Cotrone. L’unica epidemia nota infatti è quella del 1887, raccontata nelle memorie del medico Riccardo Sculco, che si occupò personalmente di assistere i malati e di limitare la diffusione del morbo.
Il 20 Agosto 1887 l’epidemia scoppiò poco distante, nei pressi di Capo Colonna. All’epoca la conoscenza del colera era progredita grazie agli studi di Filippo Pacini[iv] e Robert Koch,[v] tanto da riuscire ad identificare l’agente patogeno della malattia ed indicare i più comuni mezzi di trasmissione, uno su tutti l’acqua. Sul finire dell’800 arrivarono anche i vaccini[vi] che curarono definitivamente il morbo (nonostante alcune sporadiche ricomparse, anche in Italia).
Ma torniamo a Cotrone e riscopriamo la storia. Il 4 Agosto 1887 “per certo appalto di brecciame concesso dall’impresa del Porto di Cotrone ai Sig. Pucci e Turromino”, giunsero a Capo Colonna diversi operai che lo Sculco classifica come “cirotani, Cotronesi e forestieri”. Questi vissero stabilmente a Capo Colonna, dislocati in vari edifici, dal 4 al 14 di Agosto, quando si bloccarono per permettere lo svolgimento della Festa della Madonna (che all’epoca si svolgeva ancora ad Agosto, assieme alla fiera).[vii] Il 16 tornarono regolarmente al lavoro. Lo Sculco ci informa che l’abituale popolazione del Capo è composta da 18 persone, mentre con l’arrivo degli operai il totale delle persone presenti al Capo era di 50, alle quali si andavano a sommare le ulteriori 25 persone residenti tra località Alfieri e Scifo.[viii]
L’epidemia, per una beffarda coincidenza, scoppiò proprio nel momento di maggior afflusso. Il 19 Agosto 1887 alle ore 15 il primo operaio, tale Michele Mazzei, iniziò ad accusare violenti crampi allo stomaco, seguiti da vomito e diarrea. Spirò poco dopo, ed in breve tempo diversi altri operai iniziarono accusare gli stessi sintomi. Diffusosi il panico (probabilmente non ancora associato al colera) gli operai fuggirono, rischiando di diffondere il morbo anche altrove.
Il focolaio esplose tra il 20 ed il 21 Agosto, quando la morte iniziò a cogliere buona parte degli infetti. In tutta fretta venne allestito l’ospedale colerico presso il Lazzaretto,[ix] già utilizzato come “locale d’isolamento nelle epidemie” in quanto posto al di fuori delle mura cittadine. Complessivamente il colera contagiò 31 persone: 19 morirono nell’arco di qualche giorno, 12 riuscirono a salvarsi.
A morire furono: Mazzei Michele da Crosio; Anastasio Andrea da Amalfi; Pucci Fortunato da Cotrone; Pigonusi Giovanni “dal piemonte”; Valerina Valeriano da Cotrone; Spadaio Rocco da Bocchigliero; Scarfò Caterina da Caulonia; Bagnati-Fiore Carmela da Cotrone; Sansalone Domenico da Gerace; Gentile Vincenzo da Caulonia; Carnucci Francesco da Cotrone; Prete Gabriele da Cotrone; Caputo Gaetano da Strongoli; Ruggiero Francesco da Cotrone; Putrino Domenico da Melito Porto Salvo; Tricoli Alessandro da Cotrone; Matteo Pasquale da Cotrone; Tricoli Francesco da Cotrone; Giannoccari Achille da Cotrone.
A salvarsi nonostante il contagio furono: Potestino Cataldo da Cirò; Tricoli Gaetano da Cotrone; Canossa Federico da Caserta; Carnucci Michele da Cotrone; Mungari Adolfo da Cotrone; Mungari Pasquale da Cotrone; Notarianni Giovanni da Soveria Mannelli; Sabia Antonietta da Cotrone; Pannone Giordano da Napoli; Fontana Filippo (provenienza ignota); Cavaliere Francesco da Cotrone; Carnucci Tommaso da Cotrone.
Fortunatamente (o forse è il caso di dire miracolosamente) il morbo non si diffuse all’infuori dei diretti contagiati. Gli operai scappati nelle loro case non contagiarono i familiari, ed anzi in alcuni casi si curarono “magicamente”. L’operaio Mungari Pasquale ad esempio, visti alcuni colleghi morire scappò a casa dalla madre, e come annota lo stesso Sculco si salvò grazie ad una cura rudimentale ma efficace: una spessa coperta di lana e mezzo litro di alcool.[x] Neppure i soccorritori, tra cui lo stesso Sculco ed il sindaco Berlingieri, furono contagiati, nonostante la loro unica protezione consistesse in un fazzoletto di stoffa utilizzato come mascherina.[xi]
Terminato il periodo emergenziale, si cercò di capire non solo il perché di un contagio così limitato, ma anche la sua causa scatenante. Inizialmente si pensò ad un “contagio esterno”, in quanto lo Sculco annota tra i suoi appunti la storia di Putrino Domenico, operaio forestiero che prima di giungere a Cotrone aveva sostato a Roccella, all’epoca infestata dal colera. A quanto scrive, lo stesso Putrino poco prima di spirare avvisò il suo dottore (Cantafora) di essere giunto da una località infetta.[xii] Ma l’ipotesi non venne ritenuta valida, visti i contagi relativamente scarsi.
Nonostante il rigore delle sue analisi, lo Sculco ipotizzò sin da subito che il contagio fosse causato dall’acqua (così come suggerito dagli studi di Koch, che aveva visionato) e non dal cibo o da eventuali contatti. Lui stesso notò che gli abitanti del Capo si rifornivano di acqua potabile da due “fontane”: quella principale a Scifo e quella “di riserva” Cicala. Quest’ultima è così descritta:
“L’acqua sotterranea vi è scarsa, e spesso nei profondi e faticosi scavi che tentarono la roccia difficilmente si rinvenne. Onde gli abitanti del Capo e per bere e per gli usi domestici, quando non possono usufruire dell’acqua di una fontana a Scifo, che dista circa 1 km, son costretti ad attingere ad una fontanella vicina, in sito denominato Cicala, a mezzogiorno del Capo. Quivi a piè di un masso incavato a grotta, tre a quattro metri dal mare percola una scarsa vena di acqua, che per opera dell’uomo raccogliesi in un pozzetto circolare del diametro di 60 centimetri, dalla profondità circa di 20 centimetri, dalla capacità di poco più di un ettolitro di liquido. L’acqua poi che il pozzetto si colma, effonda dall’orlo lentamente e spandersi sino a mare. Chi va ad attingere servesi di un orciuolo, quivi lasciato per comodità, con che beve o riempie i recipienti che porti.”
Ed è proprio la fontana di Cicala che viene subito attenzionata dallo Sculco. I superstiti infatti confermarono di aver utilizzato tutti quella fontana per attingere l’acqua, e riportano un fatto curioso. Fino al 18 Agosto sia gli abitanti del Capo che gli operai avevano bevuto l’acqua prelevata dalla fontana di Scifo, ma in quella stessa data il proprietario della fontana, lamentando la scarsezza d’acqua per le sue coltivazioni, decise “di inibirla”. Non potendo più rifornirsi di acqua potabile a Scifo, gli abitanti del Capo furono costretti ad utilizzare la fontana di Cicala. Riporta Sculco: “Ed ecco che nei giorni 18 e 19 Agosto fanalisti ed operai attingevano alla fontanella di Cicala. Ora, se questi appunto hanno dato a tutto il contingente all’epidemia, se le guardie finanziarie, l’eremita, la popolazione di Scifo che altrove si provvedettero furono immuni, forza è concluderne che veicolo alla diffusione del morbo fosse stata esclusivamente l’acqua del pozzetto di Cicala.”
Insomma, chi tra gli abitanti bevve l’acqua di tale fontana finì per essere contagiato, mentre chi si adoperò per procurarsi altra acqua, pur abitando al Capo o nei suoi pressi non venne contagiato. La conclusione era lampante, e dopo giorni di ricerche lo Sculco non solo poté confermare che il morbo era certamente il colera, ma anche il punto esatto da dove si era diffuso.
Resta solo un “mistero” da risolvere: chi o come si è contagiata l’acqua della fontana Cicala? Anche in questo caso la spiegazione può non essere così ovvia. La letteratura medica del tempo forniva vari esempi, come quella del fiume Serino di Napoli, che dal trasportare acqua “limpida e purissima” finì per diffondere il morbo, così come il fiume Sarno finì per contagiare Torre Annunziata. Ma in questi casi si tratta di veri e propri fiumi, mentre quello di Cicala è definito come un “misero stillicidio” di acqua “che trasuda dalla roccia”.
A seguito di ulteriori indagini, lo Sculco venne a scoprire un particolare. L’operaio Michele Mazzei, il primo che morì a causa del colera, soffriva di diarrea e vomito già da diverso tempo. Alcuni sopravvissuti confermeranno che si lamentava spesso della sua condizione sin dal 9 Agosto, ben dieci giorni prima il contagio generale. La particolarità di questa rivelazione sta nel fatto che il Mazzei era uno degli addetti alla raccolta ed al trasporto dell’acqua, e che di fatto, sicuramente in modo involontario, finì per contagiare tutti gli altri. Riporta Sculco: “L’infelice imbrattato dalle proprie deiezioni, quale in circostanze simili suole uomo di campagna, per riempire i barili alla fontanella, tuffava per attingere coll’orciuolo le mani insozzate di quella piccola raccolta d’acqua, che doveasene inquinare. Chi assicura non vi vomitasse, non lavasse qualche effetto, alcun che ormai impuro in quella persona?”
Il contagio sarebbe poi avvenuto per via del fatto che gli operai bevevano tutti allo stesso barilotto d’acqua, appoggiando non solo le mani ma anche le labbra. In questo modo il colera, sviluppatosi nell’acqua tramite i ripetuti contatti del “paziente zero” e grazie alle alte temperature, finì per contagiare tutti coloro i quali vi attinsero. Successivamente, per evitare trasmissioni di malattie e contagi proprio nei cantieri, pare che venne istituita la regola non scritta del “bere senza attaccarsi ai barilotti” o “alle bottiglie”, oggi detta “bere alla muratora” per l’ovvio collegamento ai cantieri.
L’attenzione dello Sculco verso i malati non passò inosservata. Acclamato non solo dai sopravvissuti, ma anche dalla popolazione Cotronese, nel 1888 viene nominato sindaco, e gli venne dedicata una lapide di marmo scolpita che lo raffigura mentre cura i malati a Capo Colonna. La lapide oggi si trova all’interno della cripta dei Berlingieri all’interno del Cimitero Comunale di Cotrone.
I defunti a causa del colera non vennero sepolti nel cimitero cittadino, ma riposti in una tomba comune realizzata appositamente nei pressi di Capo Colonna, ovvero “un mausoleo eretto vicino al faro e colmo di calce viva”. La città di Cotrone, colpita da misure contumaciali assieme a buona parte della costa Jonica,[xiii] continuò a vivere nel timore di un nuovo focolaio fino al 1889, quando l’emergenza venne considerata finalmente superata.[xiv]
Note
Fonti: 1887, “Il colera del 1887 a Cotrone” di Riccardo Sculco; 2007, “Il colera del 1887 a Cotrone” a cura di Pina Basile; 2012, “Capo Colonna – Luci e ombre dal Medioevo al XX secolo” di Margherita Corrado.
[i] https://it.wikipedia.org/wiki/Colera.
[ii] Luca Borghi, Umori, Roma, Società Editrice Universo, 2012.
[iii] https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_del_colera#Le_epidemie_di_colera_in_Europa_e_in_Italia.
[iv] https://it.wikipedia.org/wiki/Filippo_Pacini.
[v] https://it.wikipedia.org/wiki/Robert_Koch.
[vi] https://books.google.it/books?id=6Nu058ZNa1MC&pg=PA870&redir_esc=y#v=onepage&q&f=false.
[vii] https://briganteggiando.it/2018/05/19/breve-storia-della-fiera-della-madonna/.
[viii] Riccardo Sculco, Il Colera del 1887 a Cotrone, 1887.
[ix] http://www.archiviostoricoCotrone.it/chiese-e-castelli/il-convento-del-carmino-o-dei-carmelitani-di-Cotrone-con-chiesa-intitolata-a-santa-maria-di-monte-carmelo/.
[x] Riccardo Sculco, Il Colera del 1887 a Cotrone, 1887.
[xi] Pina Basile, Il Colera del 1887 a Cotrone, 2007.
[xii] Riccardo Sculco, Il Colera del 1887 a Cotrone, 1887.
[xiii] Corriere della Sera, “Nuove misure contumaciali” del 4 Luglio 1887.
[xiv] Eugenia Tognotti, Il mostro asiatico. Storia del colera in Italia, 2000.
Creato il 18 Dicembre 2018. Ultima modifica: 18 Dicembre 2018.
Molto interessante. Grazie. Sono una storica e sto facendo ricerche sulle famiglie Sculco e Bruno di Crotone