La costruzione del monastero di S. Chiara o della SS.ma Concezione. Le “Monachelle” di Cutro
Il 29 maggio 1659 Francesco Filomarino, principe di Rocca d’Aspide, acquistava per 150.000 ducati, i feudi di Francesco Maria Ruffo sequestrati per debiti, e messi all’asta dal Sacro Regio Consiglio. I beni consistevano nello stato di Cutro, e comprendevano: le terre di Cutro, Castelle e Roccabernarda, la terra, o casale, ormai in abbandono, di San Giovanni Minagò, ed il ius dell’ancoraggio della città di Cotrone.[i] La vendita dello stato di Cutro restata per “estinto de candela” a Don Pietro Carafa per persona nominanda, cioè Francesco Filomarino, sarà perfezionata successivamente con regio assenso del 6 ottobre 1661.[ii]
Sempre in quell’anno 1659, il 6 novembre, un rovinoso terremoto scuoteva gran parte della Calabria: a Crotone cadeva il campanile della cattedrale,[iii] mentre a Cutro numerosi edifici subivano danni.[iv] Pochi giorni dopo, il 17 novembre in Catanzaro, moriva l’arcivescovo di Santa Severina, Giovanni Antonio Paravicino, strenuo difensore dei diritti e dei privilegi ecclesiastici.[v] Venuto a conoscenza della morte, il nuovo feudatario, da Napoli, il 2 dicembre dello stesso anno, supplicava il cardinale Chigi affinché fosse inviato a Santa Severina un “prelato di giustizia, zelo e carità, per rimediare ai mali che si sono verificati in diocesi negli ultimi anni del defunto arcivescovo”.[vi]
Pochi mesi dopo, il 5 marzo 1660, si svolgeva a Roma presso la Dataria, il processo sulle qualità di Francesco Falabella, prete nativo di Lagonegro, destinato a divenire il nuovo arcivescovo di Santa Severina. Prestato giuramento e avuta il 5 aprile la consacrazione, il Falabella si diresse verso la sua sede,[vii] dove fece ingresso il 23 giugno, come testimonia egli stesso nella breve relazione ad Limina scritta il 25 agosto dello stesso anno.[viii]
I due grandi personaggi visitarono i loro nuovi possedimenti e sorsero subito fieri contrasti. Il nuovo feudatario fece il suo ingresso in Cutro, usurpando le insegne proprie dell’arcivescovo. Egli, infatti, entrò nell’abitato a cavallo, sotto il baldacchino d’oro (il cui uso era consentito solo nella solennità del Corpus Domini), con le aste sostenute da sacerdoti e chierici indossanti la cotta, i quali precedevano gli altri religiosi, vestiti alla stessa maniera. Il corteo percorse le vie e le piazze di Cutro cantando il Te Deum Laudamus ed il Benedictus, e poi entrò nella matrice di San Giuliano.[ix]
Poco dopo, il 10 novembre dello stesso anno, durante la visita ai luoghi della diocesi, l’arcivescovo andò nella chiesa di Santa Caterina, luogo pio amministrato da confrati e posto sulla piazza di Cutro. Entrato con il suo seguito dalla porta principale, si incamminò verso l’altare maggiore posto a mezzogiorno ma, fatti pochi passi, la sua attenzione fu attratta da un letto che troneggiava nella navata, “cum strato pulvinari, tabulis, fulchis, conopeo appenso in laqueari d.e eccl.e nec non aliis necessariis rebus etiam sordibus pro usu et servitio corporis humani”.
Vicino bivaccavano uomini armati con archibugi, fucili e pugnali, che sorvegliavano un tal Giovanni De Rosis della Rocca Bernarda, il quale, perseguitato dagli sbirri del principe della Rocca, creditore di molti denari, fin dal mese di luglio si era rifugiato nella chiesa.[x] Il De Rosis, infatti, assieme al figlio, il chierico Lodovico, nel tentativo di evadere dalle carceri, era stato ferito da una archibugiata sparatagli dal barricello. Riuscito tuttavia a rifugiarsi nella chiesa, era stato estratto con la forza ma, intervenuta l’autorità ecclesiastica, i soldati del principe avevano dovuto riportarlo all’interno del luogo sacro ed ora lo sorvegliavano.
L’arcivescovo cacciò via col timore della scomunica gli armati, e proibì loro di sostare nelle vicinanze, quindi, proseguendo nella sua visita, il suo sguardo fu attratto dal soffitto ligneo colorato della chiesa, ravvivato dai dipinti degli apostoli e dei santi; sopra l’altare maggiore spiccava la statua della patrona in gesso, sotto una volta decorata dalle pitture dei miracoli e del martirio della santa. A destra osservò dapprima l’altare di S. Crispino, edificato e mantenuto dagli scarpari e dai lavoratori delle pelli, poi quello di S. Maria della Pietà dei Guarino, quindi, si diresse alla cappella della SS.ma Concezione, a destra della quale trovò l’oratorio della congregazione omonima, con altare e alla parete una tela “bona depicta”, con l’immagine della titolare.[xi] Proprio la cappella della SS. ma Concezione aveva ottenuto pochi giorni prima un lascito considerevole.
Infatti, il 28 ottobre 1660 nel convento dei Riformati, il sacerdote Gio. Leonardo Quercia, nativo di Cutro, maestro in sacra teologia, dottore in entrambi i diritti e regio cappellano della chiesa di Santa Maria de Prothospatariis di Crotone, aveva dettato le sue ultime volontà al notaio Giovanni Giacomo Tiriolo. Confermando in gran parte le disposizioni di un precedente testamento, redatto presso il notaio Antonino Mendolara, egli aveva istituito erede universale la cappella della SS.ma Concezione, eretta nella chiesa di Santa Caterina, con la condizione che con le rendite dei suoi beni, fosse costruito un monastero femminile presso la chiesa. Designò a vigilare sull’esecuzione della sua volontà il notaio Antonino Mendolara, l’arciprete, i sindaci ed il guardiano dei Riformati di Cutro.[xii] I beni lasciati dal Quercia ascendevano alla somma di circa 8000 ducati. Con le rendite provenienti dai censi e dall’affitto dei fondi si doveva costruire l’edificio, mentre il capitale sarebbe servito a costituire la dote primitiva della comunità monastica.
Poco dopo la morte del testatore l’arcivescovo di Santa Severina, Francesco Falabella, cominciò a concretizzare la volontà del Quercia, tracciando l’ambito del monastero e ottenendo il permesso per la sua costruzione dalla Sacra Congregazione dei Vescovi e dei Regolari.
I beni del Quercia passati in eredità alla cappella della SS.ma Concezione, eretta dentro la chiesa di Santa Caterina, furono amministrati, come previsto dalla clausola testamentaria, da un procuratore eletto dal padre guardiano dei Riformati, dall’arciprete e dal sindaco di Cutro. Il procuratore che di fatto fu il procuratore della stessa cappella,[xiii] convocava nella chiesa di Santa Caterina l’arciprete, i confrati della SS.ma Concezione ed il sindaco di Cutro, sottoponendo loro gli atti (acquisti, vendite, spese, ecc.), che interessavano il monastero da erigersi, atti che di solito avevano già avuto il beneplacito dell’arcivescovo di Santa Severina. Ottenuto il consenso dei convocati, egli stipulava i contratti ed impegnava le rendite ed i beni della cappella.
Così per non lasciare il capitale “otioso in cascia”, nel 1662 la cappella della Concezione, tramite il suo procuratore, acquista la terza parte della gabella Gullì[xiv] ed alcune case a Papanice.[xv] L’aumento delle proprietà dell’erigendo monastero proseguirà con l’acquisto della difesa Gurgurà, posta in territorio di Roccabernarda, che sarà comprata per 700 ducati dal chierico Gio. Leonardo Oliverio.[xvi]
Frattanto, nell’agosto 1662, presso il notaio Giacinto Manfredi di Papanice, veniva steso un accordo tra l’arcivescovo ed il duca di Santa Severina, Gio. Andrea Sculco.[xvii] Cessava così una lunga e dispendiosa controversia, riguardante il pagamento delle decime sul pascolo dei corsi di Santa Severina, Scandale e San Mauro. La lite iniziata fin dal 1657 dall’arcivescovo Paravicino, aveva comportato grosse spese per la Mensa arcivescovile, tanto da indurre l’arcivescovo a trattare per un accordo con l’avversario. Morto il Paravicino, mentre si stava concludendo il trattato sulla composizione delle decime, e succeduto il Falabella, quest’ultimo, nell’ottobre 1661, concluse con il feudatario una prima convenzione che non ottenne l’assenso apostolico. Con un nuovo accordo stipulato l’anno dopo, l’arcivescovo si accontentava di 350 ducati annui, che il duca doveva versargli in due rate, il 15 maggio e l’otto settembre.[xviii] Il Falabella chiudeva così frettolosamente, anche se in modo non definitivo,[xix] e con danno per la Mensa arcivescovile, la controversia sulle decime con il feudatario di Santa Severina, ma ne apriva una nuova con l’altro potente feudatario della sua diocesi, il principe della Rocca d’Aspide Francesco Filomarino, che proprio in quell’anno scomunicava.[xx]
Iniziata nel 1662 la costruzione del monastero,[xxi] delineato nella sua forma e dimensione dall’arcivescovo Falabella, i lavori procedono, così il procuratore ed i confrati della Concezione pensano già all’acquisto delle case, che rientrano nel disegno o progetto. Essi, perciò, incaricano dei mastri per apprezzare alcuni edifici, che devono essere comprati ed abbattuti. Ai primi di marzo 1663 i mastri Carlo Muto, Gio. Gerormo Bagnato e Antonio Borbona, consegnano la loro perizia sulle case di Gio. Vittorio Terranova seniore, situate sulla piazza di Cutro. Le case valutate per ducati 338 e tari due, tuttavia non verranno subito acquistate a causa di sopraggiunti impedimenti.[xxii]
Nello stesso tempo anche il principe della Rocca decideva di rifare il suo palazzo di Cutro, e ne dava incarico al suo erario, Gio. Domenico de Bona. Questi alla fine di agosto dello stesso anno 1663, stipulava un contratto con l’ingegnere della bagliva di Rogliano, Pietro Giovanni Belsito. L’ingegnere si impegnava a ricostruire il palazzo, “al presente discoperto et quasi diruto”, iniziando i lavori il 20 settembre seguente. L’accordo prevedeva che l’erario dovesse fornire tutto il materiale occorrente (calce, pietra, arena, acqua, legname, ecc.) mentre spettava al Belsito fornire il lavoro e la “mastria di mastri fabricatori e manipoli”.[xxiii]
La costruzione del monastero procede a rilento. All’inizio del marzo1665, finalmente si conclude l’acquisto delle case palaziate e delle case matte dei coniugi Gio. Vittorio Terranova e Innocenza Legname, situate in piazza accanto alla chiesa di Santa Caterina, già stimate quasi due anni prima. I coniugi, genitori del procuratore della cappella della SS. Concezione, ottengono tuttavia di poter rimanere nelle case senza pagare alcun fitto, finché le abitazioni non dovranno far posto alla fabbrica del monastero che da tempo è ferma.[xxiv]
Il ritardo nei lavori di costruzione del monastero è così descritto nella relazione ad Limina datata Santa Severina, 5 novembre 1668: “Acquistate alcune case presso la chiesa, esse furono abbattute e, dopo aver ottenuta la licenza dalla Sacra Congregazione sui negozi dei Vescovi e dei Regolari, si cominciò a costruire un grande edificio per il monastero e già le mura si alzavano, per diligenza di due procuratori a ciò destinati, e forse oggi sarebbe già finito, se nel frattempo non fosse arrivato a Cutro Marco Antonio Filomarino, nipote del principe della Rocca, il quale seguendo le istruzioni ed i piani dello zio, costrinse i procuratori a comprare altre case vicine alla chiesa, obbligandoli così a spendere altri duemila ducati. Le abitazioni acquistate non erano necessarie, ma ciò egli volle che fosse fatto, non per ingrandire il monastero, ma per rendere la strada diritta e la piazza più ampia per il decoro del luogo. Ma ciò che fu peggio egli fece asportare e condurre al suo palazzo una grande quantità di pietre squadrate, che erano nelle porte e finestre delle case demolite, che sarebbero potute servire alla costruzione del monastero. Per questo motivo e per altri fatti, il citato Marco Antonio fu dichiarato scomunicato da questa curia arcivescovile, ma sopraggiunta la morte, niente restituì. Fu così necessario interrompere i lavori per due anni, in modo da estinguere il debito contratto per l’acquisto delle case, ma attualmente con grande velocità cresce l’edificio.”[xxv]
In verità si erano inaspriti i rapporti tra l’arcivescovo ed il feudatario, accusato quest’ultimo di violare ripetutamente l’immunità ecclesiastica, di usurpare terreni di enti religiosi, di imporre tasse illecite, di perseguitare il clero e di non pagare le decime. La controversia, accompagnata da scomuniche e denunce, non aveva intimorito il principe né i suoi servitori, anzi li aveva resi più aggressivi e audaci.[xxvi]
Durante la visita compiuta al clero ed ai luoghi pii di Cutro nell’aprile 1663, l’arcivescovo aveva istigato i suoi fedeli a ribellarsi al feudatario. Informato di ciò, per prevenire ogni complotto, Marco Antonio Filomarino nel giugno dello stesso anno, aveva minacciato, sotto pena di “morir carcerato dentro le fosse”, tutti coloro che si fossero recati dall’arcivescovo a Santa Severina, o che avessero scritto o ricevuto sue lettere.[xxvii] Ma i contatti tra il Falabella ed i suoi segretamente continuarono, e la sommossa scoppiò il 13 gennaio 1664, giorno in cui si riunivano i governanti di Cutro nelle case della Corte.
In quel giorno la folla istigata alla ribellione dai seguaci dell’arcivescovo tumultuò in piazza, aizzata dal sindaco Gio. Vittorio Foresta e da Tommaso Cosentino, che gridavano: “Viva il Re et muora il malgoverno” e “Se ci viene lo sign.r Marc’Antonio lo volemo scoppettiare”. Intimoriti gli avversari, tra i quali il dottor fisico Antonio Terranova, Gio. Matteo de Mayda e Giuseppe Pagliaro,[xxviii] i clericali imposero ai governanti di inoltrare al preside provinciale una protesta per alcune imposizioni e tasse illecite, imposte dal principe e da suo nipote.[xxix]
Tra esposti e inchieste si arrivò al 6 maggio 1664. Quel giorno, durante la visita che l’arcivescovo fece a Cutro, il prelato con il clero ed i suoi soldati, vennero a rissa sulla piazza con i soldati del barricello. Lo stesso arcivescovo “pose mano ad un soldato di detto barricello per li capelli”, poi si ritirò assieme ai suoi nella chiesa di San Giovanni Battista, da dove partirono due archibugiate che uccisero un soldato del principe.[xxx]
La lite tra i due personaggi col tempo degenerava e coinvolgeva sempre più persone. La popolazione si divideva così in due fazioni.[xxxi] Informato dei fatti e per le continue proteste che ormai arrivavano a Napoli, il viceré cominciò a lamentarsi con il nunzio e, dapprima, chiese un’accurata inchiesta sui contrasti tra l’arcivescovo ed il principe della Rocca, poi convocò il presule, che tuttavia non ubbidì,[xxxii] quindi chiese che il papa richiamasse a Roma l’arcivescovo, ed incaricasse l’arcivescovo di Cosenza, Gennaro Sanfelice, di condurre un’inchiesta.
Mentre il nunzio ribatteva che era dovere della Santa Sede proteggere un prelato fatto oggetto della prepotenza di “baroni tanto potenti”,[xxxiii] e che l’arcivescovo era atteso a Roma per la prossima visita ad Limina, la Sacra Congregazione incaricava il vescovo di Nicastro, Giovan Tommaso Perrone, di raccogliere le testimonianze, e di condurre gli interrogatori dei partecipanti e dei presenti al fatto delittuoso; cosa che il vescovo fece recandosi più volte a Cutro in quell’anno 1665.[xxxiv] L’inchiesta tuttavia si trascinerà senza approdare ad alcun risultato. Nel 1667 essa era affidata al vescovo di San Marco, Teodoro Fantoni, delegato dalla Sacra Congregazione, che proseguiva le indagini con scarsi risultati per il clima di violenza che regnava a Cutro.
Ormai ogni ufficio pubblico o ecclesiastico, era occasione di aspra contesa tra i due partiti. Nell’agosto 1665, all’avvicinarsi del rinnovo delle cariche cittadine, il preside della Provincia era costretto ad inviare le guardie della Regia Udienza, per vigilare sui possibili scontri. Nonostante la precauzione, il 15 agosto, mentre le elezioni si prolungavano nella notte, le guardie dovevano intervenire per sedare la rissa scoppiata tra Pietro Monteleone e Marcello di Bona.[xxxv]
Se questo accadeva per gli uffici pubblici, ancora più duro era lo scontro per quelli ecclesiastici, tanto che la chiesa matrice di San Giuliano rimarrà senza arciprete per più di venti anni. La dignità, ceduta nel 1667 da Lelio Scandale a Giuseppe Quercia, per una pensione annua di 50 ducati, rimase vacante per morte del Quercia, e fu conferita dalla Santa Sede, nel dicembre 1668, a Giovanni de Mayda,[xxxvi] il quale tuttavia non riuscì ad entrarne in possesso, perché l’arcivescovo Falabella, facendosi forte del fatto che, anticamente, il diritto di nomina e di conferimento del beneficio gli apparteneva, imbandito un concorso, gli oppose Ludovico Oliverio, che tentò di occupare con la forza il posto. Sorse allora una lite tra Giovanni de Mayda, Lelio Scandale e Ludovico Oliverio, che si trascinerà per molti anni.[xxxvii]
Le due fazioni intimorivano i testi, costringendoli a mentire, o a ritrattare, tendevano agguati, sequestravano e incarceravano gli avversari e, per controbattere le accuse, facevano rilasciare dai propri adepti numerose false attestazioni. Così il 23 novembre 1664, per confutare l’accusa rivolta a Marcantonio Filomarino, di aver fatto rubare le pietre che dovevano servire per il monastero, Gio. Vittorio Saccomanno dichiarava che, mesi prima, aveva prestato, per la costruzione del palazzo che il feudatario stava edificando, dei cantoni portati dai suoi buoi con i suoi carri da “Soverito”, e depositati davanti al convento dei Riformati, e che il Filomarino glieli aveva già restituiti nella stessa quantità e dimensione, e riposti nello stesso luogo.[xxxviii]
Esemplare della situazione che allora regnava a Cutro, è la traversia di cui fu protagonista Pietro Antonio de Mayda. Figlio dell’erario del principe della Rocca, quando giunsero a Cutro per raccogliere testimonianze, i delegati regi ed ecclesiastici, quali: il giudice della Vicaria, Francesco Fortezza, l’uditore provinciale Giacomo Garzia, il vescovo di Nicastro e quello di San Marco, egli testimoniò sempre a favore del principe.
Per questo motivo l’arcivescovo Falabella lo perseguitò. Dapprima lo incolpò di aver bastonato una ragazza e tentò di carcerarlo. Il chierico riuscì a salvarsi con la fuga ma, per ritornare dai suoi, dovette estinguere il delitto, di cui era accusato, pagando una discreta somma al procuratore della Mensa arcivescovile. Avendo poi testimoniato quando era venuto al vescovo di San Marco, egli fu ricercato dagli sbirri dell’arcivescovo e per sottrarsi alla cattura, si rifugiò nella chiesa dell’Annunziata. Ma il 31 luglio 1667, presso la porta piccola della chiesa, fu preso a tradimento dal diacono Blasio Lazzo e dal vicario foraneo di Cutro, Marco de Mayda, i quali, violando la legge sull’immunità del luogo sacro, su ordine dell’arcivescovo, prima lo rinchiusero in sacrestia e poi lo condussero, sotto scorta di numerosi ecclesiastici armati, a Santa Severina.
Qui il De Mayda fu rinchiuso nelle prigioni arcivescovili per molti mesi, subendo gravi maltrattamenti che ne minarono la salute. Per non morire fu costretto assieme al padre a ritrattare. Così, mentre il padre a Belvedere Malapezza, presso il notaio Posimataro di Scala, dichiarava che il principe lo aveva costretto con le minacce ad accusare falsamente l’arcivescovo, il figlio su ordine del Falabella, lasciò le carceri sotto scorta. Condotto dal notaio apostolico Marco d’Aloe, dichiarò falsa la testimonianza precedentemente rilasciata al vescovo di San Marco. Riportato in prigione, Pietro Antonio De Mayda, dopo che l’arcivescovo ebbe verificato gli atti, fu rimesso in libertà. Le dichiarazioni contro il principe saranno invalidate dai De Mayda appena avvenuta la morte del Falabella, “perchè per insino ad hoggi non hanno potuto chiarire la verità per tema di d.o arcivescovo”.[xxxix]
Il Falabella, dopo il fatto delittuoso avvenuto a Cutro, lasciò la diocesi e si ritirò a Lagonegro sua città natale.[xl] Nei primi giorni del 1666 era a Roma per la visita ad Limina.[xli] Di ritorno passò per Napoli, dove fece omaggio al viceré, il quale incaricò i suoi funzionari di tentare di appianare i contrasti. Il 9 febbraio l’arcivescovo era già in viaggio per Santa Severina, nonostante i tentativi fatti dal principe della Rocca presso il viceré per trattenerlo ancora.[xlii] Prima di lasciare la capitale, il Falabella, accogliendo le pressioni del viceré, aveva delegato il vescovo di Lettere a rappresentarlo. Gli incontri tra il vescovo e gli avvocati del principe, si susseguirono durante il 1666 senza portare ad alcun risultato. Francesco Filomarino rimaneva scomunicato per aver usurpato i beni della Mensa arcivescovile e violato la libertà e l’esenzione ecclesiastica.[xliii]
Le censure emanate contro il principe della Rocca dalla Curia arcivescovile, continuavano ad essere confermate dalla Sacra Congregazione dell’Immunità, mentre il principe premendo sul Regio Collaterale Consilio, faceva inviare lettere ortatoriali che accusavano l’arcivescovo per le sue iniziative che ledevano la giurisdizione reale.[xliv]
Frattanto, ritornato in sede, dal 28 al 30 ottobre 1668 il Falabella celebrò il sinodo diocesano nella cattedrale di Santa Severina,[xlv] durante il quale furono particolarmente colpiti gli abusi e gli attentati alle proprietà e ai diritti della chiesa. Furono inoltre approvati numerosi decreti che ripristinavano la disciplina ecclesiastica, ponendo un freno alla corrotta gestione dei beni degli enti religiosi, per preservarli da frodi, danni e perdite.
Ma anche in questa occasione non mancò di farsi sentire l’azione del principe della Rocca contro la chiesa, tramite l’avversione che dimostrarono i sindaci ed i governanti delle terre soggette alla sua giurisdizione. Anzi questi riuscirono a corrompere ed a portare dalla loro parte anche il sindaco ed i governanti di Santa Severina, mentre gli amministratori degli altri paesi della diocesi non parteciparono e si astennero da ogni iniziativa. Così assieme essi si opposero ad alcuni decreti, sanciti dal sinodo, specie quelli riguardanti l’osservanza delle feste[xlvi] e l’amministrazione delle confraternite laiche, e chiesero l’intervento dei tribunali regi in modo che i decreti non avessero efficacia.
L’arcivescovo già contestato all’inizio e durante il sinodo dalle dignità ecclesiastiche e dai canonici del capitolo, ostili a qualsiasi innovazione, o intervento disciplinare, e poi anche dai sindaci e dagli amministratori di Santa Severina,[xlvii] oggetto di violenti insulti e intimidazioni, prima scomunicò la città e poi se ne andò, e uscendo “portando egli stesso, solennemente l’immagine del Crocifisso”, si ritirò in Catanzaro.[xlviii] Qui morì il 28 maggio 1670, come si ricava da una lettera del nunzio di Napoli al papa, che fa presente l’urgenza di nominare un nuovo prelato “di molto zelo e privo d’ogni interesse e rispetto”, da contrapporre al principe della Rocca, per recuperare i beni ed i privilegi della chiesa usurpati.[xlix]
Una lettera successiva del nunzio al segretario di stato, informava che le difficoltà incontrate, per entrare in possesso dei beni in controversia, appartenenti allo spoglio dell’arcivescovo, si andavano risolvendo.[l] Sempre in relazione allo spoglio dell’arcivescovo Falabella, sarà inquisito nel tribunale della Nunziatura di Napoli il vicario dell’arcivescovo, Galeotto de Galeottis, colpevole di aver sottratto quattro casse piene di oggetti appartenenti al defunto arcivescovo, con un materasso dove era nascosto del denaro, e di aver trafugato 700 ducati, destinati a pagare le pensioni dei cardinali Barberini e Raggi.[li]
Il 24 luglio presso la Dataria, si vagliavano le qualità di Giuseppe Palermo, vescovo di Conversano, scelto per divenire il nuovo arcivescovo di Santa Severina.[lii] Consacrato il primo ottobre, egli resse la diocesi fino alla sua morte, avvenuta il 30 ottobre 1673. Succedeva il 19 febbraio 1674 l’arcidiacono crotonese Mutio Suriano, che ricoprirà la carica fino al 26 agosto 1679, giorno della sua morte.[liii] Da una sua relazione, datata Santa Severina 2 febbraio 1675, apprendiamo che a Cutro, dove per il fallimento dell’annata 1670/71 e la gravissima epidemia del 1672/73, erano rimasti solo 1710 abitanti, vi è la chiesa di Santa Caterina, alla quale sono unite le fabbriche magnificamente costruite dalle fondamenta e ampliate per il convento delle monache. La costruzione resa possibile dal lascito di Gio. Leonardo Quercia, non era ancora finita, ma l’arcivescovo aggiungeva che presto con l’aiuto di Dio curerò che sia completata, per maggiore servizio e utilità della terra di Cutro e della diocesi, nella quale non vi è alcun convento di monache.[liv]
In effetti, i procuratori e i confrati della “cappella della SS.ma Concezione e del monastero di monache erigendo”, cercavano in tutti i modi di ritardare la fine dei lavori, perché ciò avrebbe reso esecutive le disposizioni testamentarie del fondatore, togliendo ad essi l’amministrazione dei numerosi fondi rustici, le cui rendite sarebbero andate in beneficio e sostentamento della comunità claustrale.[lv] Essi, traendo vantaggio dalla situazione di rivalità e di scontro che regnava a Cutro, tra le fazioni del feudatario e dell’arcivescovo, amministravano a proprio conto i beni lasciati dal Quercia e quelli successivamente comprati con le rendite, facilitando così gli affari propri e delle proprie casate.[lvi]
Erano passati ormai quasi venti anni dall’inizio dell’opera. A Francesco Filomarino, morto il 14 novembre 1678, era succeduto il fratello Giovanni Battista, che morirà il 4 aprile 1685, lasciando il feudo a Tomaso Filomarino. Alla fine dell’arcivescovato di Mutio Suriano, il monastero risultava recintato, ma aveva subito e pativa danni e furti, a causa del disinteresse del procuratore Nardo Antonio Turrioti, il quale indaffarato in molte e varie faccende, badava soprattutto al proprio tornaconto, godendo della protezione delle alte gerarchie ecclesiastiche.[lvii] Durante il periodo del suo mandato l’amministrazione del “monastero di monache erigendo” divenne autonoma da quella della cappella della SS.ma Concezione.[lviii]
Il Turrioti, procuratore anche della Mensa arcivescovile, appena morto l’arcivescovo Suriano, improvvisamente lasciava Cutro “per alcuni accidenti nati”, senza rendere conto dell’amministrazione delle rendite del monastero e delle spese fatte per i lavori, così parte del capitale rimastogli continuava ad andare in suo utile e non in quello dell’opera.[lix]
Tre giorni dopo la morte dell’arcivescovo, il Turrioti verrà perciò estromesso. Il 29 agosto 1679, approfittando della mancanza dell’arciprete e della partenza del procuratore Turrioti e del guardiano dei Riformati, si riunivano coloro che per testamento dovevano vigilare sui beni del monastero erigendo, cioè il vicario dei Riformati, fra Giuseppe di Cutro ed il sindaco Giuseppe Raymondo. Col pretesto di porre fine al continuo danno economico che pativa il monastero, per la cattiva amministrazione dell’attuale e dei passati procuratori, che avevano disposto dei beni a loro piacimento, essi nominavano due procuratori al posto di uno; cioè, i dottori Nicolò Oliverio e Giacomo Antonio Petrucci, ai quali consegnavano le chiavi dell’edificio.
I nuovi incaricati dovevano amministrare le proprietà del monastero, e completare la costruzione senza ricevere alcun compenso, trattandosi di opera pia, cosa non osservata in passato. Fu stabilito, inoltre, che ogni impegno, o spesa, dovesse recare l’avallo di entrambi, sia che si trattasse dell’affitto di fondi, che dell’acquisto di materiale da costruzione. I procuratori dovevano rendicontare distintamente le entrate e le uscite, presentando un consuntivo alla fine del mandato. All’inizio dell’incarico essi dovevano fare l’inventario del materiale giacente (legname, calce, pietre, cantoni, chiodi, ecc.), prendendolo in consegna dal Turrioti, in modo da conoscere la spesa da quest’ultimo sopportata.[lx]
Negli stessi giorni il sindaco di Cutro, poiché a causa delle continue annate rovinate dalle locuste e dall’aridità, la popolazione soffriva la fame e incombeva una grave carestia, per assicurare il pane ai cittadini, si faceva consegnare il grano che era pervenuto al monastero dai coloni. I due procuratori durarono poco, il 30 novembre 1679 veniva consacrato il nuovo arcivescovo, il nobile crotonese Carlo Berlingieri (1679-1719) e, poco dopo, era eletto il nuovo procuratore del “monastero di monache erigendo” Filippo Pagano, il quale cercò subito di rientrare in possesso del grano.[lxi] Il Pagano ricoprirà la carica per diversi anni e durante il suo mandato il monastero delle monache della Concezione sarà completato.
Il nuovo arcivescovo nella relazione ad limina, datata Mesoraca 20 ottobre 1685, così si esprime: Nella città di Cutro vi è un ampio monastero, edificato di recente e provvisto di una sufficiente dote. Le vergini, tuttavia, non sono ancora entrate, mancando il permesso della Santa Sede per ottenere il quale, già da molto tempo furono inviati alla Sacra Congregazione sui negozi dei Vescovi tutte le informazioni richieste e i documenti necessari.[lxii] Alla fine del 1685, dopo venticinque anni dal lascito testamentario del Quercia, il monastero era abitabile,[lxiii] anche se mancavano ancora delle opere e delle rifiniture, come la fogna che sarà costruita nell’estate dell’anno dopo.[lxiv]
Dovranno ancora passare diversi anni prima che esso possa ospitare una comunità monastica accettata e riconosciuta, vivente secondo la regola di Santa Chiara. Il 16 febbraio 1693, presso il notaio Giuseppe di Fiore di Cutro, a garanzia del monastero, i reverendi Andrea de Mayda e Nicola e Ludovico Palmieri, prendevano in consegna le doti spirituali, ognuna di 200 ducati, dai congiunti delle educande Caterinella Zurlo, Innocenza Terranova, Porzia Boffa e Anna Asteriti, che iniziavano l’anno di noviziato. I garanti promettevano di consegnare prima della professione, le doti spirituali al procuratore del monastero, non ancora eretto sotto la regola di Santa Chiara.[lxv]
Seguono alcuni giorni dopo, i contratti riguardanti altre educande che iniziano il noviziato nel monastero della SS.ma Concezione: il 3 marzo è la volta della consegna della dote di Elisabetta Oliverio, di cui si fa garante il reverendo Pietro Florillo, ed il 3 aprile quelle di Elisabetta Morelli e delle sorelle Clara e Dianora Raymondo. Finalmente, tra il 3 ed il 9 aprile, il monastero della SS.ma Concezione è riconosciuto, e può iniziare la vita comunitaria secondo la regola di Santa Chiara. Il 9 aprile 1693, le educande Porzia ed Elisabetta Oliverio iniziano l’anno di noviziato nel monastero della SS.ma Concezione, da poco eretto sotto la regola di Santa Chiara.[lxvi]
Il monastero, sottoposto alla giurisdizione dell’arcivescovo di Santa Severina, potrà accogliere, come per atto della sua fondazione, dodici coriste o professe che, successivamente, per indulto apostolico, saranno aumentate a quindici: quattro converse e otto educande. Per poter far parte della comunità delle clarisse, le figlie dei nobili dovranno versare al monastero, prima della professione, la dote di duecento ducati, mentre le educande per accedervi pagheranno una retta annua di 20 ducati che, all’inizio del Settecento, aumenterà a 30 ducati.[lxvii] A ricordo della sua origine il monastero di Santa Chiara pagherà ogni anno un canone alla cappella della Immacolata Concezione eretta nella chiesa di Santa Caterina.[lxviii]
Inizia la clausura ed il tempo del noviziato. Durante questo periodo e finché non si formerà la comunità, che si darà una propria organizzazione, eleggendosi le cariche, il monastero sarà retto dalla badessa Elisabetta Modio, parente dell’arcivescovo di Santa Severina, Carlo Berlingieri,[lxix] e dalla vicaria Ippolita Suriano, clarisse del monastero di Santa Chiara di Crotone, trasferitesi temporaneamente in quello della SS.ma Concezione di Cutro, per iniziarvi la vita comunitaria.
Nella primavera del 1694 le prime novizie, prima di accedere alla professione, presso la grata di ferro del monastero, in presenza della badessa e della vicaria, fanno atto di rinuncia di tutti i loro beni e diritti.[lxx] Versata poi dai parenti la dote nelle mani del procuratore del monastero,[lxxi] che la impiegherà in acquisto di beni e/o censi,[lxxii] avviene la cerimonia della professione: la novizia promette nelle mani del vescovo e della badessa, di osservare i voti di obbedienza, castità e povertà, entrando così a far parte della nuova comunità monacale.
Note
[i] ASN, Refute dei Quinternioni Vol. 207, ff. 79-122.
[ii] Maone P.- Ventura P., Isola Capo Rizzuto, Rubbettino 1981, p. 308. Pellicano Castagna M., Le ultime intestazioni feudali in Calabria, Effe Emme 1978, p. 86.
[iii] Copia d’una lettera scritta a Monsignor vescovo di Catanzaro in Calabria. ASV, Vat. Lat. 8076, f. 6.
[iv] AASS, Fondo Arcivescovile, Volume 36A, Visita pastorale di Mons. Francesco Falabella, arcivescovo di Santa Severina, 1660.
[v] Bernardo S., Santa Severina nella vita calabrese, Napoli 1960, p. 211.
[vi] Russo F., Regesto,VII, p. 472.
[vii] Russo F., Regesto, VII, pp. 478, 482. Siberene (a cura di Scalise G. B.), Cronaca del Passato delle diocesi di Crotone, S. Severina, Cariati, p. 388.
[viii] ASV, Rel. Lim. S. Severina, 1660.
[ix] ASV, Rel. Lim. S. Severina. 1666.
[x] Gio. Battista di Rosa era stato erario di Roccabernarda (1653-1658) e poi dello stato di Cutro (dalla fine del 1658 all’inizio dell’estate del 1660). Gli seguiranno Gio. Domenico di Bona (1660-1662), Gio Matteo de Mayda (1662-1665), Petro Monteleone (1667). ASCZ, Reg. Udienza 383-47, fasc. VII-1721.
[xi] AASS, Fondo Arcivescovile, Volume 36A, Visita pastorale di Mons. Francesco Falabella, arcivescovo di Santa Severina, 1660.
[xii] ASCZ, Busta 231, anno 1660, ff. 28-29.
[xiii] ASCZ, Busta 331, anno 1679, f. 43.
[xiv] ASCZ, Busta 231, anno 1662, ff. 77-78.
[xv] Archivio Piterà, Indice generale di tutti gli atti publici riguardanti al presente la chiesa collegiata della SS. Annunciata di Cutro, stipulati da varii notai del med.o comune. Notaio Gio. Giacomo Tiriolo, 1662, ff. 30, 76, 138.
[xvi] ASCZ, Busta 231, anno 1665, ff. 18v-19.
[xvii] Carlo Sculco nel 1654 comprò il feudo di Santa Severina ed il 3 agosto 1656 morì di peste senza lasciare figli. Gli successe il fratello Jo. Andrea che nel 1660 ebbe il titolo di Duca di Santa Severina. Jo. Andrea nel 1674 rinunciò in favore del figlio primogenito Domenico. Morto quest’ultimo senza legittimo successore, lo stato di Santa Severina fu devoluto alla Regia Corte e venduto all’asta dalla Regia Camera nel 1691, alla vedova Cecilia Carrara, che lo intestò al figlio Antonio Grutther. ASN, Ref. Quint. Vol. 201, f. 318.
[xviii] L’accordo conteneva la clausola che fosse lecito agli arcivescovi “di ritornare alle primerie raggioni et esigere le decime”. Su questo atto non fu chiesto il regio assenso mentre quello apostolico pur richiesto non divenne esecutivo. Nonostante tutto ciò per molti anni l’accordo pur mancante degli assensi, fu osservato dalle parti. Passato il feudo ai Grutther, l’arcivescovo Berlingieri lo rigettò e costrinse nel 1693 il nuovo feudatario al pagamento di ducati 400 invece dei soliti 350. ASCZ, Busta 402, anno 1693, ff. 101-115. ASV, Secr. Brevi 1268, ff. 229-232.
[xix] Ricevuta la supplica dal duca e dall’arcivescovo per ottenere l’assenso all’accordo raggiunto, il papa Alessandro VII aveva inviato un breve il 12 dicembre 1662 al vescovo di Crotone, ma essendo rimasta vacante quella sede, il 17 febbraio 1663 incaricava il vescovo di Umbriatico di informarsi sulla trattativa intercorsa tra l’arcivescovo Falabella ed il duca Io. Andrea Sculco. Il tempo passò e l’accordo rimase privo dell’assenso apostolico. Russo F., Regesto, VIII, p. 74.
[xx] AASS, Controversia Principis Roccae D’Aspidis, 1662.
[xxi] ASCZ, Busta 400, anno 1686, f. 195v.
[xxii] ASCZ, Busta 231, anno 1665, ff. 21v-23.
[xxiii] ASCZ, Busta 231, anno 1663, f. 36. Il palazzo feudale esisteva già nel 1551, quando assieme alla motta o casale di Cutro, fu venduto da Galeotto Carrafa al Duca di Nocera. ASN, Ref. Quint. Vol. 207, ff. 79-122.
[xxiv] ASCZ, Busta 231, anno 1665, ff. 21v-23.
[xxv] ASV, Rel. Lim. Santa Severina 1668.
[xxvi] Il chierico H. Sollazzo si era rifugiato nel convento di S. Francesco di Paola di Roccabernarda. Di notte il mastrogiurato T. Riccio con il famiglio del principe, A. Bosco, vi penetra a mano armata. Estratto con la forza il Sollazzo è percosso finché non rinuncia al chiericato. Gli armati del principe di notte scassano le porte della casa del chierico I. P. Dattilo e lo portano fuori l’abitato, dove lo bastonano e lo feriscono finché non abdica al chiericato. Così in Roccabernarda gli uomini del principe avevano costretto con la violenza e le percosse i chierici ad abbandonare lo stato religioso, tanto che vi erano 20 sacerdoti ma nessun chierico. ASV, Rel. Lim. S. Severina, 1666.
[xxvii] ASCZ, Busta 231, anno 1664, f. 37.
[xxviii] ASCZ, Busta 231, anno 1664, ff. 40v-41.
[xxix] ASCZ, Busta 231, anno 1664, f. 37.
[xxx] ASCZ, Busta 231, anno 1665, f. 25v.
[xxxi] Nel settembre 1664, Antonio Ceraldi, erario di Roccabernarda del principe della Rocca, in Cutro era costretto a pagare come da atti della Corte di Crotone, delegata dalla Gran Corte della Vicaria, numerosi chierici, sui terreni dei quali, posti dentro ai corsi, avevano pascolato le “pecore gentili” del principe della Rocca. La corte di Crotone aveva obbligato al pagamento l’erario di Cutro, i capi massari e custodi di pecore del principe: Gio. Matteo di Mayda, Gio. Vittorio Terranova, Antonio Foresta, Gio. Vittorio Saccomanno, Vito Antonio Muto, Gio. Pietro di Rose e Salvatore Le Pera. ASCZ, Regia Udienza Cart. 383-47, fasc. VII-1721.
[xxxii] ASV, Nunz. Nap. 58, f. 245; 65, ff. 30-35.
[xxxiii] ASV, Nunz. Nap. 64, f. 285.
[xxxiv] ASCZ, Busta 231, anno 1665, f. 25v. Camposano L., Cronaca di una lite, Il Paese n.2/3, 1989, p. 8.
[xxxv] ASCZ, Busta 312, anno 1665, ff. 44-45.
[xxxvi] Russo F., Regesto VIII, pp. 197, 240.
[xxxvii] Il prolungarsi della lite porterà la chiesa principale di Cutro alla decadenza con proprietà e culto trascurati. La lite durò fino all’ottobre 1692 quando, morto Lelio Scandale e tacitato Ludovico Oliverio, finalmente Giovanni De Mayda potè prenderne possesso. ASV, Rel. Lim. S. Severina., 1685, 1687. Russo F., Regesto, IX, pp. 189-190.
[xxxviii] ASCZ, Busta 231, anno 1664, f. 91v.
[xxxix] ASCZ, Busta 232, anno 1667, f. 61; Busta 331, anno 1670, ff. 12-13.
[xl] Il 3 maggio 1665 il Falabella è a Lagonegro, dove nella cappella della SS. Trinità amministrò il sacramento della cresima. Siberene (a cura di Scalise G. B.), Cronaca del Passato delle diocesi di Crotone, S. Severina, Cariati, p. 383.
[xli] La relazione ad Limina del Falabella è datata 7 gennaio 1666. ASV, Rel. Lim. S. Severina 1666.
[xlii] ASV, Nunz. Nap. 67, f. 77.
[xliii] ASV, Nunz. Nap. 62, f. 665.
[xliv] L’arcivescovo Falabella scomunica il sindaco di Cutro Antonio Terranova e l’esattore Joanne Victorio Monteleone, rei di aver tassato, come da ordine ricevuto, i chierici selvaggi e quelli coniugati. Interviene il viceré, tramite il Consiglio Collaterale, con tre lettere ortatoriali dirette all’arcivescovo, intimandogli di desistere dall’ostacolare l’esazione. Ma l’arcivescovo non le prende in considerazione. ASCZ, Busta 313, anno 1667, f. 163.
[xlv] Parteciparono al sinodo gli ecclesiastici cutresi: Antonio Oliverio, Giuseppe Palmerio, parroco di San Nicola ed il cantore Io. Vittorio de Fiore. Synodus Dioecesana Sanctae Severinae ab Illustriss. et Reverendiss. D. Francisco Falabello celebrata, Roma 1669.
[xlvi] Già il 28 maggio 1661 l’arcivescovo Falabella aveva emanato un editto contro coloro che trasgredivano l’osservanza delle feste. Synodus Dioecesana Sanctae Severinae ab Illustriss. et Reverendiss. D. Francisco Falabello celebrata, Roma 1669, pp. 98-100.
[xlvii] ASV, Rel Lim. S. Severina., 1668.
[xlviii] Siberene (a cura di Scalise G. B.), Cronaca del Passato delle diocesi di Crotone, S. Severina, Cariati, pp. 377, 378, 388.
[xlix] ASV, Nunz. Nap. 73, f. 115.
[l] Russo F., Regesto, VIII, p. 277.
[li] Russo F., Regesto, VIII, p. 285. Siberene (a cura di Scalise G. B.), Cronaca del Passato delle diocesi di Crotone, S. Severina, Cariati, p. 383.
[lii] Russo F., Regesto, VIII, p. 278.
[liii] Siberene (a cura di Scalise G. B.), Cronaca del Passato delle diocesi di Crotone, S. Severina, Cariati, p. 356.
[liv] ASV, Rel. Lim. S. Severina, 1675.
[lv] Tra i procuratori ricordiamo Gio. Tomaso Ganguzza (1668), Marcantonio Terranova (1678), Antonio Turrioti (1678), Filippo Pagano (1683). ASCZ, Busta 331, anno 1668, f. 58; Busta 331, anno 1678, ff. 19v, 83v; Busta 331, anno 1683, f. 14.
[lvi] La dote del monastero di S. Chiara di Cutro sarà costituita da numerosi fondi rustici in territorio di Crotone (Capo di Ferro, Destra della Concezione, Jacopuccio, Gullì, Misula di Pudano e Spartì), di Cutro (Mirgolei, Altomare e Scinetto), e di Roccabernarda (Gurgurà), da alcuni crediti verso i nobili provenienti dalle doti e da due botteghe in piazza. Catasto onciario di Cutro, 1745, Archivio Piterà.
[lvii] Il 19 settembre 1679 il nunzio di Napoli informava il segretario di stato che stava per scrivere al commissario che si interessava allo spoglio dell’arcivescovo Suriano, in modo che sia trattato con ogni riguardo il Turrioti, che era procuratore della mensa arcivescovile e curava gli interessi dell’abbazia “che V. Em.za gode in quelle parti”. ASV, Nunz. Nap. Vol. 91, f. 616.
[lviii] In alcuni atti del 1678 il Turrioti è procuratore della cappella della SS.ma Concezione e del monastero di monache erigendo, mentre in altri del 1679 risulta procuratore solo del monastero erigendo. ASCZ, Busta 331, anno 1678, ff. 83-84; Busta 331, anno 1679, ff. 43-44.
[lix] Il 28 agosto 1679, su richiesta del sindaco di Cutro, esecutore testamentario del Quercia, A. Oliverio, nipote e procuratore del Turrioti, consegna tt. 366 di grano a saldo di una somma di denaro rientrata e dell’affitto pagato dai coloni per un fondo del monastero. ASCZ, Busta 331, anno 1679, f. 42.
[lx] ASCZ, Busta 331, anno 1679, f. 43.
[lxi] All’inizio di maggio 1680, il procuratore del monastero F. Pagano protesta perchè il sindaco di Cutro si rifiuta di pagare al prezzo corrente parte del grano che si era fatto consegnare. Il sindaco A. di Mayda ribatte che è pronto a versare il rimanente del prezzo che spetta al monastero appena il grano sarà panizzato, al prezzo stabilito dai decreti e nelle mani dell’arcivescovo o di persona da questi delegata. ASCZ, Busta 331, anno 1680, ff. nn.
[lxii] ASV, Rel. Lim. S. Severina.,1685.
[lxiii] Fiore G., Della Calabria Illustrata, II, p. 433.
[lxiv] Il 22.8.1686 i procuratori delle chiese dell’Annunciazione e di S. Caterina, proprietarie di alcune case dietro il monastero, protestano perchè lo scavo fatto per il passaggio della fogna ha causato danni alle loro proprietà. ASCZ, Busta 400, anno 1686, ff. 194v-195. Il 6.9.1686 viene fatta una convenzione tra il procuratore F. Pagano e C. Ascoli, proprietario di un orto per il quale dovrà passare la fogna. ASCZ, Busta 400, anno 1686, ff. 209v-210.
[lxv] ASCZ, Busta 402, anno 1693, ff. 22v-27.
[lxvi] ASCZ, Busta 402, anno 1693, ff. 39 sgg.
[lxvii] ASV, Rel. Lim. S. Severina ,1725.
[lxviii] Catasto Onciario di Cutro, 1745. Arch. Piterà.
[lxix] L’arcivescovo di Santa Severina Carlo Berlingieri era figlio di Cesare Ottaviano Berlingieri e della sua prima moglie Faustina Modio. Pesavento A., Imperiali a Crotone (1707-1734), Crotone 1991, p. 37.
[lxx] Atti di rinuncia: Anna Oliverio (30.3.1694), Chiara e Ursula Oliverio (26.4.1694), Maria Maddalena Terranova (4.5.1694), Teresa Morelli (4.5.1694). ASCZ, Busta 402, anno 1694, ff. 57-85.
[lxxi] Atti di consegna delle doti: Anna Oliverio Teresa Morelli e Maddalena Maria Terranova (17.5.1694). ASCZ, Busta 402, anno 1694, ff. 102-116.
[lxxii] Nell’aprile 1693 il monastero, tramite il suo procuratore L. A. Turrioti, acquista la metà del territorio Miccisi da Domenico Raymondo. Non avendo tutto il denaro il monastero ottiene un prestito dal clero di Cutro. ASCZ, Busta 402, anno 1693, ff. 72-81.
Creato il 22 Febbraio 2015. Ultima modifica: 11 Maggio 2024.