La cattedrale rovinata di San Teodoro a Cerenzìa Vecchia
La diocesi di Akerentìas
Verso la metà del sec. IX, come si rileva dal Synecdemus, “Acherentia” è uno dei quattro vescovati suffraganei della metropolia di Santa Severina.[i] Esso compare col nome “Acerentinus” nella Notizia III della Diatiposi, che è databile poco prima dell’anno Mille.[ii] Nella bolla con la quale Lucio III conferma nel 1183 i privilegi della chiesa di Santa Severina all’arcivescovo Meleto, “Girentinen” è una delle diocesi suffraganee,[iii] cosa ribadita anche dal Provinciale Vetus di Albino, compilato circa nel 1190, in cui compare il vescovo “Gerentinum”.[iv]
Durante il Medioevo il vescovato rimase suffraganeo di Santa Severina. La diocesi di Cerenzìa confinava con quelle di Santa Severina, Umbriatico, Rossano e Cosenza, e comprendeva oltre alla città di Cerenzìa, i casali di Verzino e di Lucrò ed il castrum di Caccuri.[v] Essa, anche quando sarà dipendente dalla Santa Sede, conserverà per lungo tempo la lingua ed il rito greco.[vi]
Nel periodo normanno-svevo la sua chiesa ebbe una certa importanza, ne sono testimonianza le donazioni che fecero alcuni vescovi. Polycronio, col consenso dell’arcivescovo di Santa Severina Costantino, sul finire dell’Undicesimo secolo ripristinò l’abbazia greca Calabro-Maria di Altilia;[vii] Gilberto, Bernardo e Nicola, arricchirono il monastero florense, concedendo abbazie, chiese, terreni e vigne.[viii] Per questa sua floridezza il vescovato fu occasione di liti. Famosa fu quella che ebbe per protagonista il conte di Crotone Stefano Marchisorto. Il conte voleva imporre sul seggio vescovile di Cerenzìa il suo cappellano Madio contro Guglielmo, opponendosi alla volontà del capitolo di Cerenzìa e dell’arcivescovo di Santa Severina. Dovrà intervenire Innocenzo III per allontanare l’intruso che già aveva cominciato a dilapidare i beni della chiesa.[ix]
Vescovi e feudatari
Con l’arrivo degli Angioini iniziò la decadenza.[x] Violenti liti opposero i vescovi ai nuovi feudatari. Lo stesso vescovo “cum clericis et malandrinis”, all’inizio del Trecento scacciò il feudatario Francesco de Riso, impedendogli di esercitare la giurisdizione feudale.[xi] Sempre pertinente alla condotta del vescovo di Cerenzìa è un breve papale diretto all’arcivescovo di Santa Severina, col quale si ordina di inquisirlo e punirlo secondo le sanzioni canoniche per le molte malefatte; in primo luogo, per aver fatto bastonare crudelmente una donna su richiesta della sua concubina.[xii]
Nonostante le distruzioni causate dalla guerra del Vespro, all’inizio del Trecento la chiesa di Cerenzìa conservava ancora una certa vitalità, come si nota dai versamenti delle collette per la Santa Sede. Negli anni 1324 e 1325 compaiono il vescovo, il decano, il cantore, il tesoriere e quasi una ventina di preti e chierici, alcuni “greci”.[xiii] La decadenza diverrà manifesta dopo la metà del Trecento. Allora per le pestilenze, la malaria, e l’oppressione fiscale regia e baronale, i suoi casali spopoleranno ed alcuni scompariranno (Bordò, Belvedere).[xiv] La posizione dell’abitato su una fragile collina, esposta alle frane ed al terremoto, la vicinanza del pantanoso Lese e la scarsezza di acqua potabile, diverranno col tempo cause impellenti di povertà ed abbandono.[xv]
Il vescovato di Cerenzìa e Cariati
Nel 1437 a preghiera di Covella Ruffo, principessa di Rossano, la chiesa di San Pietro di Cariati, che era una cappella di iuspatronato dei Ruffo, fu elevata da papa Eugenio IV alla dignità vescovile ed unita alla cattedrale di Cerenzìa. Così il vescovo di Cerenzìa unì anche il titolo di vescovo di Cariati,[xvi] ed ebbe due cattedrali e due palazzi vescovili.
Questa sarà una ulteriore causa di decadenza della chiesa di Cerenzìa, poichè i vescovi, quando dopo il Concilio di Trento, saranno costretti alla residenza, privilegeranno Cariati e la sua cattedrale. Invano i cittadini di Cerenzìa tenteranno di costringere il presule a risiedere anche nella loro città. I vescovi preferiranno la città sul mare, anche se esposta al pericolo turco,[xvii] piuttosto che un luogo isolato e malarico.
La peste del 1528
La città di Cerenzìa, secondo le testimonianze dei suoi vescovi, era all’inizio del Cinquecento popolosa e florida, ma fu distrutta al tempo della peste nel 1528. In quel frangente molte scritture della chiesa furono bruciate ed altre, furtivamente sottratte, andarono perdute. I superstiti fuggirono dalla città,[xviii] numerose case rovinarono e cadde anche il campanile della cattedrale.[xix] La città allora era divisa nelle cinque parrocchie di S. Martino, S. Maria de Plateis, S. Marina, S. Domenica e S. Nicolò. A causa dello spopolamento e della povertà si cercò dapprima di unirne le rendite,[xx] poi le chiese vennero abbandonate e decaddero.
I parrocchiani “per familias” di ognuna delle chiese curate, furono assegnati alle quattro dignità della cattedrale (decanato, arcidiaconato, cantorato e tesorerato) e ad un canonico. Così il decanato ebbe annessa la cura delle anime della chiesa parrocchiale di San Martino,[xxi] il tesorerato quelle di San Nicola,[xxii] il canonicato quelle di Santa Maria de Plateis, e l’arcidiacono ed il cantore quelle di Santa Marina e Santa Domenica. Ad essi furono anche assegnate le rispettive rendite. L’anno in cui avvenne questa riorganizzazione rimane sconosciuto, in quanto “non vi è archivio né scrittura alcuna”,[xxiii] ma certamente l’evento è collocabile verso la metà del Cinquecento.
La decadenza della città
Alla fine di quel secolo il vescovo Propertio Presta trovò la cattedrale in un luogo solitario, “eminente et mal seguro per i banditi et ladri”. Essa era “tutta per cascar et ritrovato il muro avanti la chiesa tutto per terra et il Santissimo Sacramento come in una campagnia”. Perciò vi fece compiere alcuni lavori, per renderla sicura, edificandovi anche una piccola stanza. Mancava ancora il campanile, che “da sessanta anni cascò … senza esser mai refabricato ne è memoria che niuno vescovo v’abbia posto una pietra”. Le campane erano riposte in chiesa, mentre nella piccolissima e povera sacrestia, erano conservate alcune reliquie di incerta attribuzione e dei paramenti, forniti a suo tempo dal vescovo e poi cardinale, il milanese Alessandro Crivelli (1561-1568 ?). Il palazzo vescovile, nel quale i vescovi da decenni, se non da secoli, non risiedevano, era formato da due piccole e povere stanze terrane, “fabricate di creta, recetto di sorci et formiche senza comodità di acqua ne di cosa alcuna”.
Le usurpazioni baronali
Le rendite della mensa si erano notevolmente ridotte. Esse provenivano principalmente dalle decime sul pascolo delle greggi e dai terraggi. Molti beni e diritti erano stati tuttavia occupati ed usurpati dalle università e dai feudatari. Alcuni corsi, sui quali il vescovo aveva il diritto di decimare, erano stati anche recintati, divenendo camere chiuse. I feudatari a poco a poco, se ne erano appropriati, come nel caso di Malapezza. La stessa regia corte sfruttava una salina, che era situata dentro un fondo della chiesa, senza versare nulla. Il vescovo non desiderava arricchire, ma “solo vivere con quella sobrietà che conviene con la sua famiglia con havere victu et vestito in parcamento”.
Oltre a mantenere due chiese cattedrali di olio, cera, fabbriche, candelabri, pagare i sacrestani e lavare le tovaglie, egli doveva versare ogni anno pensioni per 320 ducati, di cui una di ben 200 di moneta romana a Girolamo Parisetto.[xxiv] Quest’ultima era stata imposta da papa Sisto V (1585-1590) e fu ben presto aspramente contestata, in quanto il vescovo vivrebbe “non come vescovo ma come povero prete”. Il presule aveva poi a che fare con quattro baroni ed un principe “senza timor d’Iddio e dille censure ecclesiastiche”. Essi, usando vari artifizi, continuavano ad evadere le decime sul pascolo. Per far ciò introducevano nei pascoli animali non decimabili come vacche e giumente, oppure acquistavano greggi e, col pretesto che erano cittadini, le facevano pascolare nei corsi e nelle terre comuni, nei quali appunto i cittadini erano franchi di decima, mentre avrebbero dovuto pagare i forestieri. Cosa che tuttavia non avveniva in quanto, avendo essi grandi greggi, non solo toglievano l’erba ai cittadini ma anche ai forestieri. Quest’ultimi, perciò, non affittavano il pascolo e quindi non versavano. Oppure per non far pagare i forestieri, usavano il pretesto della comunanza, secondo cui i vassalli di uno stesso feudatario, potevano godere acqua e pascolo comune nei feudi. Le liti si protraevano per decenni con grandissime spese e spesso trascendevano in scontri armati, con scorrerie nei territori contestati e con percosse e ferimenti anche di ecclesiastici. Il clero si era ridotto, a causa della povertà, alle quattro dignità, a cinque preti e a due chierici.[xxv]
Vani tentativi di rinascita
Il vescovo Filippo Gesualdo (1602-1619), appena insediato, tra il 1602 ed il 1605, rifece il campanile e vi mise le campane, che erano conservate in chiesa. Egli descrive la cattedrale come un luogo abbastanza decente, mentre la vicina casa terranea del vescovo era cadente. Quest’ultima era piena di sorci, di formiche, di serpi e di ranocchie, ottime ragioni per non abitarci. Era pur vero che la sacrestia aveva bisogno di ripari e di paramenti, ma egli non poteva farci niente in quanto, a suo dire, le entrate della sua mensa, oltre a non superare i 1000 ducati, erano anche gravate da molti oneri. Doveva pagare le pensioni e nello stesso tempo, mantenere le due cattedrali, le sacrestie, far la Candelora nelle due città, munire le due chiese di luminarie per gli uffici divini, e l’altare maggiore, provvedere ai restauri e pagare sacrestani, notai, procuratori, ecc. Così se ne andava una grossa parte della sua mensa.
Le entrate erano molto incerte e, oltre a variare di anno in anno a seconda dei raccolti, dipendevano dal comportamento dei baroni, i quali continuavano ad usurpare e danneggiare le proprietà della chiesa. Il vescovo per la sua indigenza, che non gli permetteva di intraprendere lunghe e costose liti giudiziarie, era divenuto impotente di fronte alla protervia baronale. Così dopo una visita frettolosa, poiché la città era pericolosa per la presenza dei banditi, scarsa di acqua e “senza medico, senza medicine, senza barbieri, senza comodità di vitto”, egli se ne tornava subito a Cariati.[xxvi]
Cerenzìa, che dopo la peste si era andata pian piano ripopolando,[xxvii] a causa dell’aria malsana e delle nuove pestilenze, ben presto divenne nuovamente una città “destrutta et dove erano case in hora sono campi”. Secondo il vescovo Maurizio Ricci (1619-1626), in poco tempo si era ridotta da alcune migliaia a solo 300 anime, e poiché i migliori fondi della chiesa si trovavano in diocesi di Cerenzìa, a causa dei pochi abitanti, essi rimanevano non arati e incolti. Avendo il vescovo su di essi lo “ius arandi” non intascava niente, anche perchè il barone facilitava il pascolo avendo lo “ius pascendi”. La cattedrale, che prima era dentro la città, in abbandono e senza organo, era ormai isolata dall’abitato e le case terranee del vescovo si erano deteriorate.[xxviii] Perciò, per alleviare questo stato di abbandono, suggerì di chiudere il monastero agostiniano, situato tra Belvedere e Montespinello, per utilizzarne le rendite, circa 60 ducati annui, come aiuto alla cattedrale.[xxix]
Facendo presente questa situazione, il vescovo Laurentio Fei (1627-1633) ottenne nel gennaio 1628 dal papa Urbano VIII, di poter trattenere per un triennio del denaro per la riparazione delle sue chiese, del palazzo vescovile, per acquistare suppellettili sacre e per mantenere il seminario.[xxx] Abbattuta la vecchia abitazione vescovile, che era piccola, modesta ed inabitabile, egli ne costruì una nuova dalle fondamenta, più ampia e degna. Attaccata alla cattedrale, i prelati ora avrebbero potuto risiedervi, con non poco beneficio per il servizio della chiesa e delle anime.
Nonostante queste iniziative, alla fine del suo vescovato la situazione della cattedrale non era mutata. Essa custodiva alcune reliquie, non particolarmente degne di nota, tranne tre frammenti di legno, che secondo un’antichissima tradizione, confortata da alcuni documenti, provenivano dalla Santa Croce, ma le quattro campane di cui era munito il campanile, poiché questo era divenuto inadatto a sostenerle, anzi si doveva rifarlo, erano state collocate in chiesa,[xxxi] e tre di esse battevano appese ad una trave.[xxxii]
Banditismo, terremoti e malaria
A tre anni dal suo insediamento, il vescovo Francesco Gonzaga (1633-1658) dovette far fronte alla furia e alla ferocia dei ladroni che, divelte le porte, ruppero dapprima il sacro tabernacolo, nel quale era conservato il SS.mo Sacramento dell’Eucarestia, asportarono due pissidi, una grande ed una piccola, ed una sfera d’argento. Poi infransero la porta dove erano conservate le cose sacre e sottrassero due croci, un turibolo, una navicella, due calici ed alcune patene, tutti d’argento. Il vescovo cercò, per quanto poteva, cercò di riparare al danno, fornendo una nuova croce, due altre pissidi e due calici, e con ogni cura si mise sulle tracce dei colpevoli dell’atto sacrilego, ma senza effetto.[xxxiii]
Si deve al Gonzaga il risanamento dell’edificio della cattedrale. Fatta abbattere la parete sul lato sinistro, che minacciava rovina per quindici passi, incomincia a ricostruirla dalle fondamenta in fabbrica migliore. Fa togliere poi la parte sopra l’altare maggiore, che era pericolante, e la sostituisce con una nuova con grande spesa. Il palazzo vescovile, di cui esistevano solo le nude pareti, lo intonaca, ci fa i pavimenti, lo arreda e lo munisce di robuste porte per proteggerlo.[xxxiv]
Anche se scossa e quasi distrutta, sia per la vecchiaia che per il terremoto del 1638, il vescovo continuò a rinnovarla, con gran dispendio della sua mensa ed utilizzando pubbliche elemosine.[xxxv] Così due anni dopo il sisma essa appariva restaurata e rifatta in forma migliore e, pur non avendo ancora l’organo, mostrava una decente fonte battesimale e un nuovo luogo, adatto a custodire gli oli sacri.[xxxvi] Anche il palazzo vescovile era stato completato. Ora finalmente era un luogo comodo e decoroso, degna dimora per un vescovo.
Il presule era riuscito a fare tutto ciò, nonostante vedesse assottigliarsi, giorno dopo giorno, le rendite per lo spopolamento e la mancata coltura dei campi. Mancava ancora il campanile: era stato così colpito dalle scosse, che di esso non era rimasta traccia. Dapprima le campane furono poste su fondamenta di legno, poi il vescovo Agazio de Somma (1659-1664), nonostante che all’atto di nomina si fosse impegnato a costruire nella città di Cerenzìa il seminario ed il monte di Pietà, versando ogni anno una pensione di 300 scudi al cardinale Antonio Bichi,[xxxvii] a sue spese, diede subito opera alla costruzione del campanile. Già nel novembre 1659, a pochi mesi dal suo insediamento, egli aveva completato la prima volta e, quanto prima, sperava di raggiungere la cima.[xxxviii]
La diocesi che, all’inizio del Seicento, aveva due terre, Verzino e Caccuri, e due casali, Montespinello e Belvedere,[xxxix] quest’ultimi ripopolati con Albanesi e Schiavoni nei primi decenni del Cinquecento,[xl] alla metà del Seicento comprendeva anche il nuovo abitato di Savelli[xli] e, all’inizio del Settecento, aggiungerà il nuovo villaggio di Casino.
Il vescovato di Geronimo Barzellino
All’inizio del vescovato di Geronimo Barzellino (1664-1688) la chiesa risulta completamente trascurata ed in abbandono. Essa ha bisogno di grandi interventi, tanto che non vi è parte, che non ne necessiti. Solo con l’aiuto di Dio vi si potrà provvedervi, in quanto le rendite della mensa, per ricorrenti carestie e pestilenze, si riducono sempre più. I frutti, le rendite ed i proventi, di cui il vescovo dispone, consistono nel frumento proveniente dai terraggi, delle terre sulle quali la mensa vescovile ha lo “jus arandi”. Ma a causa della crisi e per la mancanza di coloni, questa è scesa dagli usuali ducati 1000 a solo 800.[xlii]
Il presule, come quelli che lo hanno preceduto, non vi celebra e, dapprima la fornisce di quelle poche cose che sono tra le più necessarie al culto.[xliii] Poi procede ad alcuni ripari che risulteranno inutili. Infatti, nella notte del 25 febbraio 1674, un terremoto la rovina assieme al campanile ed al palazzo vescovile. Il Barzellino applicò i suoi denari per riparare dapprima la cattedrale, tralasciando il campanile ed il palazzo.[xliv] Finita la ricostruzione della chiesa, egli si dedicò a rifare il campanile, che riuscì a completare, e provvide la cattedrale di ornamenti. Essa, come anche tutta la città, mancava di sacerdoti. Come cento anni prima, oltre alle quattro dignità e ai cinque canonici, non c’erano che due diocesani e tre chierici, ma quasi tutti, sacerdoti e chierici, erano incorreggibili e ignoranti. Le messe in suffragio non venivano quasi mai celebrate e pochissimi erano gli uffici divini che, quotidianamente, vi si svolgevano, eccetto alcuni nelle festività. Nella cattedrale si conservava la sola fonte battesimale della città e si amministravano i sacramenti ai fedeli.[xlv] Nel 1684, finalmente, dopo dieci anni dal sisma, il vescovo, sopportando non poche spese, riusciva a completare la ricostruzione del piccolo palazzo vescovile attiguo alla cattedrale.
La decadenza
L’edificio, oltre ad essere riparato, fu anche ampliato e rifatto in forma più razionale, sia per un maggior decoro che per una migliore comodità.[xlvi] Tuttavia, era piccolo e non sufficiente ad ospitare il vescovo con la sua numerosa famiglia. Così il vescovo Sebastiano de Francis (1688-1714) nel 1696 lo ampliò, costruendovi a fianco una abitazione composta da una casa inferiore ed una superiore, con altri due ambienti per uso di stalla dei cavalli, che prima erano tenuti fuori in luoghi affittati. Così esso poteva servire per un comodo soggiorno, sia pure di breve durata, perché l’aria era malsana.[xlvii] Poiché nella sacrestia non c’era l’arca per conservare le sacre suppellettili, ma queste si appendevano, egli la provvide di una molto capiente ed, inoltre, la fornì di molte vesti sacre di tutti i colori, di un turibolo d’argento, di messali, di un graduale e di un pallio di seta.[xlviii]
Lo stato della cattedrale ed il culto peggiorarono durante gli ultimi anni di vescovato di Sebastiano de Francis. Il De Francis allora sostenne una lunga lite con il duca di Caccuri Antonio Cavalcante, il quale non voleva più versare i 110 moggi di frumento “pro iure arandi”, che la mensa vescovile aveva in alcune terre.[xlix] Il presule, quando dopo lunghi periodi di assenza, ritornava nella diocesi, se ne stava sempre a Cariati. Invano i Cerentinesi cercarono di obbligarlo a farvi residenza. La Sacra Congregazione del Concilio nel 1706 lo esentava. Ciò fu ribadito successivamente nel 1708 con una sentenza, che stabiliva il suo obbligo a rimanervi solo in alcuni giorni particolarmente solenni.
La situazione peggiorò anche per la vecchiaia e la cecità del vescovo. Alla sua morte, avvenuta nel 1714, la sede rimase per lungo tempo vacante, nonostante che il capitolo della cattedrale e l’università, avessero fatto presente con un memoriale al papa Clemente XI, le cure di cui aveva urgente bisogno la cattedrale.[l] Dopo quattro anni, nel 1718, venne eletto il vescovo Bartolomeo Porzio (1718-1719), il quale a malincuore e con ritardo, ne prese possesso e passati appena undici mesi morì. Il nuovo vescovo Giovanni Andrea Tria (1720-1726) trovò la chiesa abbandonata ed il clero privo di ogni dignità e decoro. La città di Cerenzìa si era ridotta ormai a circa 400 anime, che vivevano miseramente sulla sommità di un monte sassoso, circondato da ogni parte da scoscese rupi.[li]
Posta accanto al fiume Lese in un luogo sulfureo, gli abitanti erano travagliati soprattutto in estate ed in autunno, dall’aria insalubre e pestilenziale, perciò il vescovo se ne stava sempre lontano e raramente si faceva vivo in occasione di qualche solennità. In questi anni era ancora vigente la consuetudine che il nove novembre di ogni anno, giorno in cui si festeggia San Teodoro Martire, dovevano convenire in cattedrale, che necessitava di grandi lavori, tutte le dignità, i canonici e gli ecclesiastici della diocesi che, per dimostrare ubbidienza al vescovo, o al suo vicario e delegato, gli baciavano le mani.[lii]
Il lungo vescovato di Carlo Ronchi
Il napoletano Carlo Ronchi (1732-1764) trovò che nella cattedrale erano erette le due confraternite del SS.mo Rosario e dei Sette Dolori di Maria Vergine. Situata in un promontorio, fuori e dominante l’abitato, che contava circa 400 abitanti, ad essa era unito il piccolo palazzo vescovile. Entrambi malmessi e rovinavano da ogni parte. Egli intervenne con proprio denaro nella cattedrale, rendendola sicura ed agibile.[liii] Nella sacrestia vi erano alcuni sacri indumenti del tutto consumati. Perciò egli ordinò al suo procuratore di provvedere.[liv]
Durante il suo lungo vescovato intervenne a fornirla di sacre suppellettili, ad ornare i suoi altari con fiori, ed a restaurare il palazzo vescovile che era cadente.[lv] Egli se ne stette quasi sempre assente in Napoli, avanzando ogni pretesto per star lontano da una diocesi pericolosa e malarica. Tuttavia, tramite il suo vicario, si adoperò a ricostruire e ad ornare la cattedrale di Cariati, mentre trascurò quasi completamente quella di Cerenzìa. Sollecitato più volte per le numerose proteste ad intervenire, nel settembre 1745 assicurava il nunzio di aver dato l’ordine “per gli opportuni restauri” ma, nello stesso tempo, faceva presente che le rendite della sua mensa non superavano i mille ducati, dei quali ben 400 spettavano al vicario. Aggiungeva che aveva dovuto sostenere notevoli spese per rifare la cattedrale di Cariati e perciò non poteva ricostruire anche quella di Cerenzìa.[lvi]
Da cattedrale a collegiata
Il successore Francesco Maria Trombini (1764-1785) nel 1769, si adoperò a riparare l’angusto palazzo vescovile, che era congiunto alla cattedrale di antica struttura. Anche egli se ne stette lontano dalla città e, come i suoi predecessori, ostacolò in ogni modo i tentativi dei cittadini di costringerlo alla residenza. Perciò la cattedrale continuava nella sua lunga decadenza ed il clero era ormai ristretto alle quattro dignità, ai sei canonici,[lvii] ad un solo sacerdote semplice ed a tre chierici.[lviii]
Con la nuova distribuzione delle chiese in Calabria, approvata da Pio VI il 27 giugno 1818, la metropolia di Santa Severina ebbe per suffraganea la sola Cariati.[lix] La cattedrale di Cerenzìa fu ridotta a collegiata insigne, e la sua diocesi, assieme a quelle di Strongoli e Umbriatico, soggetta al vescovo di Cariati.[lx]
Per la mancanza di acqua, per l’aria malsana e per la precarietà del suolo su cui sorgeva l’abitato, poco dopo la metà dell’Ottocento gli abitanti si trasferirono nella nuova Cerenzìa, costruita sul fondo “Paparotto”. Qui, con l’aiuto dei cittadini, fu edificata una piccola chiesa dedicata a S. Teodoro Martire. Di essa ne fu primo parroco Don Munzio Quintieri, che iniziò a redigere i registri parrocchiali nel 1862.[lxi] A ricordo dell’antica cattedrale, Paolo Orsi nel giugno 1911, così annotava: “Al centro della spianata sorge sopra un mammellone il così detto Vescovado, chiesa con un tozzo campanile, quadro al piede, ottagono nell’alzata superiore; esso non parmi anteriore, al più al Cinquecento, ma potrebbe essere riproduzione di un normanno preesistente. Al piede del campanile in un vano, a pareti robustissime con portina ogivale, ravviso l’unico avanzo antico, forse del Quattrocento, dell’intera città. Sulla spianata a levante della chiesa era il sagrato, ancor pieno di ossa umane. In quella triste e desolata solitudine s’erge ancora, a ricordo di tante memorie e vite scomparse, una colonna monolita sormontata da un capitello con croce in ferro”.[lxii]
Note
[i] Russo F., Storia della chiesa in Calabria, Rubbettino 1982, Vol. I, pp. 201-204.
[ii] Siberene, Cronaca del Passato per le Diocesi di Santaseverina – Crotone – Cariati, a cura di G. B. Scalise, 1999, p. 148.
[iii] Siberene, Cronaca del Passato per le Diocesi di Santaseverina – Crotone – Cariati, a cura di G. B. Scalise, 1999, pp. 4 sgg.
[iv] Russo F., Regesto, I, 87.
[v] Russo F., Regesto, I, 307.
[vi] Lo si rileva da atti di donazione fatti in Acherontia. Trinchera F., Syllabus garecarum membranarum, Napoli 1865, pp. 231, 280, 326.
[vii] Ughelli F., Italia Sacra, IX, 476 sgg.
[viii] Siberene, Cronaca del Passato per le Diocesi di Santaseverina – Crotone – Cariati, a cura di G. B. Scalise, 1999, p. 212.
[ix] Russo F., Regesto, I, 105.
[x] Nel 1276 Cerenzìa venne tassata per 41 once con una popolazione presunta di 2050 abitanti, Caccuri per 47 – 16 -16 per 2378 abitanti, Lucrò per 4 – 3 – 12 per 206 abitanti, Verzino per 30 -12 – 0 per 1520 abitanti. Pardi G., I registri angioini e la popolazione calabrese nel 1276, in ASPN a.VII, pp. 39-40.
[xi] Maone P., Caccuri monastica e feudale, Portici 1969, p. 14.
[xii] Dito O., La storia calabrese, Cosenza 1979, Rist., p. 139.
[xiii] Russo F., Regesto, I, 307, 340.
[xiv] Nel 1389 Carlo Ruffo concede agli abitanti di Lucrò l’esenzione dal pagamento del casalinatico se fossero andati ad abitare a Verzino. La concessione fu poi riconfermata nel 1427 dalla figlia Covella. Giuranna G., Storia di Umbriatico. Dal Medioevo alla conquista spagnuola, in Studi Storici Meridionali, Fasc. I, 1971, pp. 22-26.
[xv] L’università di Cerenzìa nel 1491 chiede al re delle concessioni e delle esenzioni per poter costruire una cisterna, in quanto i suoi cittadini patiscono per la mancanza di acqua, e di poter riparare le mura della città. Trinchera F., Codice aragonese, Napoli 1866 – 1868, III, pp. 222-223.
[xvi] Covella Ruffo per maggior decoro del vescovo e per indulgenza per sé e per i suoi progenitori concesse al vescovo ed ai suoi successori una rendita di 10 once d’oro annue sui diritti di passaggio, dogana e fondaco di Cariati. Per la difficoltà di esazione, il figlio di Covella, Marino Marzano, principe di Rossano, il 9 settembre 1448, accogliendo la richiesta del vescovo Giovanni, la trasferì sull’entrate del suo corso di Malapezza, posto in tenimento di Rocca di Neto. Siberene, Cronaca del Passato per le Diocesi di Santaseverina – Crotone – Cariati, a cura di G. B. Scalise, 1999, pp. 376 sgg.
[xvii] Cariati fu distrutta due volte dai Turchi, nel 1544 e nel 1557. La prima volta fu preso schiavo anche il vescovo Giovanni Carnuto. ASV, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin. 1605. Fiore G., Della Calabria illustrata, I, p. 235.
[xviii] ASV, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin., 1589.
[xix] ASV, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin., 1589.
[xx] Il 10.11.1530 il papa concede a Pignerio Protopapa, rettore della parrocchia di S. Maria de Plateis di Cerenzìa, di assumere anche la carica di rettore della parrocchiale di S. Domenica. Russo F., Regesto, III, 395.
[xxi] Russo F., Regesto, VIII, 58.
[xxii] Russo F., Regesto, VII, 490.
[xxiii] ASV, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin., 1621.
[xxiv] ASV, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin., 1589.
[xxv] ASV, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin., 1589, 1605.
[xxvi] ASV, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin., 1616.
[xxvii] ASV, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin., 1605.
[xxviii] ASV, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin., 1621.
[xxix] Il vescovo chiese di allontanare il frate in modo da togliere lo scandalo “per il passaggio che hanno le donne per detto monastero”. ASV, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin., 1625.
[xxx] Russo F., Regesto, VI, 181.
[xxxi] ASV, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin., 1631.
[xxxii] ASV, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin., 1633.
[xxxiii] ASV, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin.,1637.
[xxxiv] ASV, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin., 1637.
[xxxv] ASV, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin., 1640, 1654.
[xxxvi] ASV, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin., 1643.
[xxxvii] Russo F., Regesto, VII, 451.
[xxxviii] ASV, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin., 1659.
[xxxix] ASV, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin., 1616.
[xl] Maone P., Notizie storiche su Belvedere Spinello, in ASCL., 1962, Fasc. I-II, p. 28.
[xli] ASV, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin., 1659.
[xlii] ASV, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin., 1666.
[xliii] ASV, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin., 1667.
[xliv] ASV, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin., 1678.
[xlv] ASV, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin., 1679, 1682.
[xlvi] ASV, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin., 1685, 1687.
[xlvii] ASV, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin., 1705.
[xlviii] ASV, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin., 1698, 1701.
[xlix] Il vescovo aveva lo ius arandi su alcune terre nelle difese di Fontana e Basilico. Dopo lunga lite fu raggiunto un accordo ed il duca, invece di dare ogni anno 110 moggi di grano, si impegnò a pagare 63 ducati. ASV, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin., 1701.
[l] ASV, Nunz. Nap. 352, f. 55.
[li] Cerenzìa era stata tassata per 84 fuochi nel 1669 e per 97 fuochi nel 1732. Barbagallo De Divitiis M. R., Una fonte per lo studio della popolazione del Regno di Napoli: La numerazione dei fuochi del 1732, Roma 1977, p. 50.
[lii] ASV, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin., 1725, 1733.
[liii] ASV, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin., 1738.
[liv] ASV, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin. 1733.
[lv] ASV, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin., 1753.
[lvi] ASV, Nunz. Nap. 218, f. 54.
[lvii] Tra i canonicati oltre a quello curato di Santa Maria de Plateis, ricordiamo quelli di S. Stefano, S. Maria della Scala e di S. Andrea. Russo F., Regesto, XII, 66; XIII, 314.
[lviii] ASV, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin., 1769.
[lix] Russo F., Regesto, XIII, 233.
[lx] Siberene, Cronaca del Passato per le Diocesi di Santaseverina – Crotone – Cariati, a cura di G. B. Scalise, 1999, p. 279.
[lxi] La nuova chiesa madre, pur prevista e tracciata, rimase per oltre un secolo incompleta e fu terminata solo alla fine del 1969. Aragona G., Cerenzia, Crotone 1989, pp. 314-315.
[lxii] Orsi P., Le chiese basiliane della Calabria, Firenze 1929, p. 232.
Creato il 19 Febbraio 2015. Ultima modifica: 10 Febbraio 2023.
Buon giorno, più che un commento è una richiesta per ottenere una risposta storica ad un mio interrogativo: IL CULTO DI SAN TEODORO DI AMASEA, PATRONO DI CERENZIA DAL 960 D.C. DA CHI E’ STATO IMPORTATO, ESSENDO UN MARTIRE ORIENTALE? BIZANTINI ? MONACI BASILIANI? MONACI ITALO GRECI? GRAZIE DELLA RISPOSTA. DISTINTI SALUTI.
Mi scuso per la tardiva risposta alla sua domanda già reiterata in un post precedente che non avevo letto. Anche in assenza di una documentazione adeguata, è probabile che questo culto sia di derivazione bizantina. Altro non saprei dire. Saluti Pino Rende