Il convento domenicano di Santa Maria della Grazia di Cerenzia
Il convento domenicano di Santa Maria della Grazia di Cerenzia era situato dentro le mura della città, “in strada publica che delle case dell’habitanti è distante dal d.o monasterio passi nove in circa”.
La fondazione
Due anni dopo che la città di Cerenzia era stata spopolata e “destrutta” dalla peste (1), vi fu fondato ed eretto, su concessione del vescovo delle due diocesi unite di Cariati e Cerenzia, Tommaso Cortese da Prato (1529-1532), un convento di domenicani. Correva l’anno 1530 ed era pontefice Clemente VII (1523–1534). Il nuovo convento sarà riconfermato ai domenicani dai vescovi successivi Giovanni Carmuto (1535-1544) e Marcantonio de Falconi (1545-1556). Tranne questi atti, che dimostravano il potere dei vescovi di Cerenzia e Cariati, non esistevano alla metà del Seicento nell’archivio del convento “altre scritture, ne assignamenti, ne obblighi, ne patti fatti con li detti vescovi, ne con l’università” (2).
Il convento nelle relazioni dei vescovi
Scarse sono le notizie della vita economica e religiosa del convento, che risentì della decadenza della città, seguendone ed anticipandone il destino. Il vescovo Filippo Gesualdo (1602-1619) in alcune relazioni lo descrive brevemente. In quella del 1602 vi troviamo : “C’è in città un convento dell’ordine dei Predicatori con pochi frati” (3); nella seguente, di tre anni dopo, spende qualche parola in più: ”Vi sono dui luochi di religiosi li quali sono in fabrica uno delli Padri Domenicani e l’altro delli Padri Conventuali di San Francesco con pochi frati, ma di buon odore e frutto” (4).
Anche il vescovo Maurizio Ricci (1619-1626) si sofferma brevemente nei due monasteri di Cerenzia: “Vi sono due monasteri di frati l’uno di San Domenico et l’altro di San Francesco con un frate per monasterio” (5).
Situazione che al tempo del vescovo Laurentio Fei (1627-1633) risulterà inalterata: “ Ci sono due monasteri maschili uno di San Domenico, l’altro dei minori conventuali di San Francesco” (6).
Alla metà del Seicento
Bisognerà attendere la “Relatione del Monast.o della V.e S.ta Maria della gr.a dell’Ord.ne di Pred.ri della Città di Cerentia a Sua Beatitud.ne”, stesa il 6 marzo 1650 dai due frati del convento, il sacerdote e vicario Francesco Asturino di Verzino e il sacerdote Marco Imbriaco di Caccuri, per poter attingere informazioni più accurate sulla struttura e sull’economia del convento. Nella “Relatione” inviata a Innocenzo X in occasione della pubblicazione in Roma, il 22 dicembre 1649, della Costituzione, i frati fanno una sintetica descrizione degli edifici e dello stato economico del convento, considerando per quest’ultimo la media tra le entrate e le uscite annue degli ultimi sei anni, espressa in scudi romani.
Da essa si ricava che alla metà del Seicento la famiglia del convento era composta oltre che dai due frati già nominati anche dal frate “serviente” Francesco Gallo di Caccuri; tutti i frati quindi provenivano da luoghi vicini. Poche note riguardano gli edifici, che costituivano il piccolo convento che si riduceva ad una piccola casa accanto alla chiesa. Quest’ultima copriva un’area lunga palmi 72 e larga 32. Aveva sacrestia ed alcune cappelle e altari; sono ricordati le cappelle delle famiglie Gugliemo e Russo e l’altare dello SS.mo Rosario. L’abitazione dei frati, detta “il dormitorio”, era lunga 94 palmi e larga 27 ed era formata da sei camere con quattro officine sottostanti. Circondava il piccolo complesso religioso un orto dell’estensione di circa una tomolata di terra, chiuso e coltivato a giardino per uso degli stessi frati. In esso crescevano numerosi alberi da frutto, tra cui alcuni fichi, e dei gelsi (7).
Il convento possedeva dei fondi rustici che dava in fitto. Essi erano costituiti da oliveti, gelseti, una vigna, una possessione in località Patijna, terre aratorie che si estendevano per circa 90 tomolate ed una difesa di 170 tomolate di terre aratorie con querceto.
Oltre alle terre i frati erano proprietari di case, che davano in fitto, ed esigevano dei censi annui su terreni e case. Completavano le entrate le elemosine.
La maggior parte dei proventi venivano dall’affitto delle terre a grano; soprattutto dalla difesa e dalle terre aratorie, che da sole, facendo una media tra annate fertili e sterili, contribuivano per circa il 75% del totale. Seguiva per importanza l’affitto dei gelseti, degli oliveti e della vigna, che contribuiva con circa il 10% e nella stessa misura era la rendita proveniente dai canoni delle case e dai censi sul prestito di capitali. Il rimanente 5% era il frutto delle elemosine dei benefattori e delle offerte del grano per il pane.
Il convento poteva inoltre contare su una buona quantità di olio proveniente dal fitto degli estesi oliveti, parte della quale, circa 40 “litre” era utilizzato per il vitto e per le lampade della chiesa, mentre il resto era venduto. Un’altra risorsa era costituita dai frutti ed dai prodotti dell’orto e del giardino.
Nonostante che dalla relazione il convento non appaia particolarmente ricco, tuttavia tenendo presente che era abitato da solo due o tre frati, le sue entrate dovevano permettere a questi di condurre una vita più che dignitosa, almeno in paragone a quella della maggior parte degli abitanti di Cerenzia.
Questo dato traspare chiaramente dal bilancio annuale del convento, calcolato sulla media degli ultimi sei anni, annate certamente non abbondanti.
Anche se gli estensori fanno di tutto per nascondere la verità, diminuendo a dismisura le entrate e gonfiando le uscite quanto più possibile, i dati che ci forniscono non convincono, anche perché dimostrerebbero uno squilibrio economico non sostenibile. Infatti ai 122 scudi circa portati in entrata, si contrappongono 192 scudi circa in uscita, il che vorrebbe dire che in sei anni il convento avrebbe accumulato debiti per ben 420 scudi!
Eccettuati alcuni piccoli censi che i frati pagavano alla cattedrale di Cerenzia, alla corte baronale ed all’abbazia di San Giovanni in Fiore, che complessivamente incidevano per l’uno per cento sulle uscite, e le spese per i restauri ed il mantenimento del convento e della chiesa e della sacrestia ( reparationi et ciaramidi, calce, pietre et altri ingredienti per la fabrica) che incidevano per un altro 10%, si può dire che tutte le spese rimanenti erano per il mantenimento dei frati, che incideva per l’80% sulle uscite. La maggior parte riguardava il vitto (olio, vino, carne, pesce, uova ecc.) ed il vestiario. I frati dovevano inoltre sopportare la spesa per rifornirsi di acqua in quanto il monastero non aveva la cisterna, né un animale per trasportarla. Vi erano poi le spese consuete di “biancherie, letti, coperte et altri mobili di casa” e quelle per il funzionamento della cucina “vasi di rame, di terra et altre cose simili”. Da ultimo le spese per il barbiere, il medico, le medicine, i viatici ecc.
Cerenzia, la decadenza
La relazione dei domenicani e quelle dei vescovi, specie di Francesco Gonzaga (1633-1658) e di Agazio de Somma (1659- 1664), ci informano che Cerenzia a metà Seicento era situata su una rupe sassosa, circondata da precipizi e di difficile accesso. La città era in piena decadenza e rovina, sia per i danni causati dal terremoto del 1638, che aveva distrutto la cattedrale, abbattuto il campanile e rovinato il palazzo vescovile, sia per la povertà e l’abbandono degli abitanti. Il vescovo Agazio Somma, che come i suoi predecessori risiedeva nel palazzo di Cariati e raramente visitava questa sua diocesi, trovò che essa era gravemente ammalata e identificò la ferale malattia: il suo nome era “vetustate” (8). Un morbo che colpiva anche gli uomini giunti in età avanzata, fiaccandoli lentamente nelle membra e nello spirito, corrodendoli e corrompendoli fino a far loro esalare l’ultimo respiro. Per tale flagello non v’era né medico né chirurgo e tanto meno rimedio di medicina. Giorno dopo giorno esso erodeva sia gli edifici sacri che secolari e rendeva sterili i terreni coltivati. Col tempo i primi collassavano in macerie, i secondi divenivano preda della selva. Gli abitanti erano impotenti. Tutti i tentativi e gli sforzi, escogitati per fermare l’avanzare del degrado e ripristinare l’antica importanza religiosa e civile, non sortivano alcun effetto. Una maligna forza oscura li contrastava, rendendoli vani e inefficaci. La popolazione di continuo impoveriva e scemava dalla città. Le mura, in parte diroccate, racchiudevano un abitato evanescente, il cui aspetto appariva all’incauto visitatore ancor più spettrale, perché avvolto dai vapori e dalle nebbie, che salivano dal vicino malarico Lese. Molte case vuote e abbandonate erano già state invase dai rovi e dalle erbacce e le altre, piene di crepe e minaccianti rovina, davano albergo a formiche, ranocchie, serpi e sorci, l’avanguardia insidiosa del selvatico. Dove prima ferveva la vita e prosperavano casate popolose, ora regnava il silenzio dei luoghi solitari e degli spazi vuoti. La stessa cattedrale, simbolo dell’antico splendore ecclesiastico, in passato punto focale e luogo eminente della città, ora quasi rudere dimenticato svettava isolata su un promontorio lontano dalle abitazioni. Il vescovo, quando poteva, la evitava ma, se costretto, vi saliva per una visita frettolosa, in modo da lasciarla all’avvicinarsi delle ombre della sera, quando il posto diveniva insicuro perché banditi e ladri spadroneggiavano e bisognava esser solleciti per affrontare col chiarore il lungo cammino alla marina, impervio e pericoloso. Gli edifici della città non davano altro che l’immagine speculare delle avversità, che di recente avevano colpito gli abitanti. La peste, la siccità, i bruchi e le cavallette si erano uniti alla vecchia protervia ed avidità baronale ed avevano messo a dura prova la vita degli uomini e la fertilità delle campagne. In certe annate molte terre erano rimaste incolte per la mancanza di braccia e di buoi, altre volte erano stati gli stessi coloni ad andarsene altrove, dove le terre erano più fertili e lo sfruttamento minore. Parte del territorio, quello più lontano e meno produttivo, era ritornato col tempo alle sterpaglie ed alla signoria delle fiere. Prolungandosi tali condizioni, i superstiti avevano cercato di adattare ai tristi tempi lo stile di vita. Da tempo immemorabile la maggior parte dei terreni, del bestiame e delle coltivazioni era in mano del barone e degli ecclesiastici, i quali, pur tra loro sempre in lite, nei momenti avversi erano uniti nel rivalersi sulla popolazione, sottraendole il poco e mettendo a repentaglio il fragile e precario equilibrio su cui si reggeva l’esistenza comunitaria. In un ambiente ed in una congiuntura storica così sfavorevoli, molti Cerentinesi si erano arresi ed avevano abbandonato la città. I rimasti avevano dovuto modellare i loro bisogni in base alle poche risorse di cui disponevano. Si può dire che la sopravvivenza di ogni famiglia era legata al possesso oltre che di una casa terranea di una stanza, da almeno qualche gallina e dal maiale. Completava il bagaglio un piccolo vignale, con alcune vigne e qualche albero da frutto, quasi sempre gravato da censi e prestazioni, dovuti al barone o alla chiesa, ed una cavalcatura, asino o mulo. Quest’ultima era essenziale per andare e venire quotidianamente, all’alba e al tramonto, dalla campagna e mezzo necessario per poter cogliere e trasportare, oltre ai prodotti del campo e del bosco, la legna e l’acqua, di cui la città era carente. Per questo sforzo collettivo di sfuggire alla precarietà, il paesaggio collinare era divenuto quanto mai variegato. Le terre aratorie ed a pascolo intervallavano i vigneti, il querceto, l’oliveto, il gelseto, il bosco, ecc. Giardini ed orti con alberi da frutto sorgevano qua e là, dentro le mura e nei pressi delle sorgenti e dei corsi d’acqua. Il Lese ed alcuni torrenti fornivano specie d’estate copioso pesce, che veniva pescato deviando i corsi. Esteso ed importante era l’oliveto, tanto che nelle annate di carica l’olio prodotto era in parte esportato. Lo stesso valeva per il grano, che i possidenti facevano condurre dai bordonari nei magazzini di Crotone, da dove avrebbe poi preso la via del mare alla volta di Napoli. Le vigne davano del buon anche se non abbondante vino, che era consumato localmente. I numerosi gelsi inoltre denotavano il permanere di un intenso allevamento del baco da seta e la presenza di lavoranti addetti a questa “arte”.
Soppressione del convento
Il 15 ottobre 1652 diveniva esecutiva la Costituzione innocenziana che prevedeva la chiusura e soppressione dei piccoli conventi, che erano composti da meno di sei soggetti o non godevano di rendite adeguate. Il 24 dello stesso mese il cardinale Spada, prefetto della Santa Congregazione sopra lo Stato dei Regolari, istituto nato da poco per la riforma dei monasteri, comunicava al procuratore dell’ordine dei predicatori i conventi da chiudere in esecuzione della Costituzione di Innocenzo X e tra questi vi erano tutti e tre i conventi domenicani in diocesi di Cerenzia: cioè di Verzino, Cerenzia e Caccuri (9).
La chiesa di Santa Maria della Grazia
I conventi domenicani di Verzino e di Caccuri dopo poco potranno riaprire, non quello di Cerenzia. Soppresso il convento, rimarrà la chiesa. Tra le molte piccole chiese che sorgevano dentro e fuori la città di Cerenzia, quasi tutte mancanti di ogni cosa necessaria al culto (10), c’era sul finire del Seicento anche la chiesa di Santa Maria della Grazia. Essa è richiamata in un atto notarile riguardante uno scambio di terre, avvenuto nell’ottobre 1683, tra il barone di Cerenzia Vincenzo Rota e la possidente Petruzza Russa, vedova di Francesco Secreti e figlia ed erede di Lucretia Peta. Il barone cedeva una difesa in Sila in località Redisole mentre la Russa dava al barone la difesa detta “Popiri” in territorio di Cerenzia, quest’ultima risultava gravata da un annuo censo di carlini quindici “debiti alla venerabile chiesia di Santa Maria della Gratia di Cerentia” (11).
Note
1. Rel- Lim. Cariaten. Geruntin., 1589.
2. S. C. Stat. Regul. Relationes, 25, ff. 278 –283, Arch. Segr. Vat.
3. Rel. Lim. Cariaten. Geruntin., 1602.
4. Rel. Lim. Cariaten. Geruntin., 1605.
5. Rel. Lim. Cariaten. Geruntin., 1621.
6. Rel. Lim. Cariaten. Geruntin., 1631.
7. S. C. Stat. Regul. cit.
8. Civitas Geruntin., vetustate, ad pauciores habitatores est redacta, Rel. Lim. Cariaten. Geruntin., 1659.
9. Russo F., Regesto, (36838), (36845),
10. Rel. Lim. Cariaten. Geruntin., 1679.
11. Atto del notaio Marcello Jaquinto di San Giovanni in Fiore del 12 ottobre 1683, ff. 26v-29, Arch. Stat. CS.
Creato il 19 Febbraio 2015. Ultima modifica: 15 Ottobre 2017.