Il convento di San Francesco di Paola a Roccabernarda
La formazione della mensa conventuale
Il convento dei minimi di Roccabernarda fu fondato nel 1539 dal frate Laurentius de Bernalda. Situato su di un colle fuori le mura a cinquecento passi dalla città, aveva la chiesa sotto il titolo di S. Geronimo.[i] Esso fu oggetto fin dalla sua erezione, di donazioni da parte di benefattori e di devoti, soprattutto del luogo, verso San Francesco di Paola, così in breve tempo, crebbe in fabbriche ed in ricchezza. Nel 1544 il rocchese Antonio Ymmus donava al monastero delle terre situate nel territorio del casale di S. Mauro in località “Caravà”, in modo che i frati potessero utilizzare le rendite per la riparazione delle fabbriche del convento.[ii]
Nonostante le distruzioni e lo spopolamento a causa delle invasioni turche, specie quella del luglio 1547,[iii] che in pochi anni dimezzarono la popolazione di Roccabernarda e dei vicini abitati,[iv] col passare del tempo i beni e le rendite del convento aumentarono, soprattutto per i numerosi lasciti per messe in suffragio. Ciò permise ai frati di esercitare una intensa attività di compra-vendita e di impiego del capitale che, attraverso un’accorta, ed a volte spregiudicata, attività creditizia, porterà il convento ad accumulare in pochi anni cospicui capitali con le relative rendite.
Nel 1575 Donna Fiore, vedova di Antonio de Marino di Roccabernarda, nel suo testamento, per la salvazione della sua anima, lasciava al monastero una casa nel luogo detto “il piano del castello”.[v] Nello stesso anno i frati vendevano una partita di vacche ricavandone trecento ducati, che diedero a censo alla ragione del 10% a Gio. Francesco Inserra di Policastro.[vi] Nel 1582 il rocchese Antonino Cappa istituiva e dotava una cappella sotto il titolo del SS.mo Salvatore nella chiesa del convento, dotandola di una rendita di ducati tre annui, con l’onere per i frati di celebrare una messa ogni sabato. Dopo la morte del fondatore, avvenuta nel 1586, l’obbligo fu soddisfatto dal figlio ed erede Gio. Lorenzo Cappa il quale, “essendo morto di morte violenta per strada ritornando da Napoli”, lasciò per testamento che nella sua cappella si celebrassero altre due messe settimanali, il lunedì ed il mercoledì. Così il primo agosto di ogni anno per le tre messe, i frati incamerarono nove ducati.[vii]
Nel 1593 i frati vendettero alcune vacche ricavando cinquecento ducati; trecento li diedero a censo all’università di Roccabernarda, e duecento al conte di S. Severina Vespasiano Carrafa. Morto il conte, la moglie Geronima Carrafa nel 1600, saldò il monastero con “certi pezzotti d’artiglierie et alcune bestiame bovine”. I frati, in seguito, cedettero i “pezzotti d’artiglierie” alla chiesa dell’Annunciata di Policastro, ricavando ducati 80, che furono dati a censo.[viii]
Alla fine del Cinquecento il convento aveva raggiunto una certa floridezza economica, tanto da mantenere 12 frati,[ix] potendo contare su rendite sicure e più che sufficienti. Un credito di ben 600 ducati al 10% era stato concesso all’università della Roccabernarda. Tale somma era pervenuta al convento, per metà dalla vendita di alcune vacche e per l’altra metà, dal dazio della salina di Neto e dalla vendita di alcune case lasciate da un frate.[x] A questo credito c’era da aggiungere le rendite di altri capitali. Tra i maggiori vi era quello di ducati 90, che si era formato unendo il denaro riscosso dalle vendite di una casa, delle artiglierie e di alcune cagne; un capitale di ducati 100 concesso alla ragione del 10% a Gio. Vincenzo Sollazzo, denaro che proveniva in parte dalla vendita di alcune vacche; un altro capitale di ducati 100 concesso in prestito al reverendo Rocco Guercio al 9%, ecc.
Sempre in questi anni i frati aumentavano il loro avere con delle terre situate nel “piano di Mulerà”. Esse provenivano da un voto fatto da Maria Benincasa, la quale, essendo il nipote Gio. Domenico Visciglia “ammalato a morte”, aveva promesso a S. Francesco di Paola, che se il nipote fosse guarito, le avrebbe date in elemosina.[xi]
Non mancarono anche donazioni al convento da parte di persone particolarmente devote a San Francesco di Paola, divenuto col tempo protettore di Roccabernarda, i quali fecero oblazione di sé stessi e dei propri averi. Tra le scritture della fine del Cinquecento, spiccano l’obbligo per il convento di una messa al giorno per il Duca di Nocera e quella con cui il rocchese Gio. Ammirato si fa “offerto”.
Non mancarono in questi anni le liti. Tra le varie, risalta quella che nel 1606, ebbe per protagonista Pietro Paulo Serra di Policastro, erede del padre Battista e di Gio. Francesco Serra, i quali a suo tempo, avevano venduto ai frati un territorio per ducati 300. Il terreno, del valore di gran lunga superiore, era stato ceduto per stringente necessità con la condizione di retrovendita; che, cioè potesse ritornare ai venditori, o ai loro eredi, nel mese di agosto, dopo la raccolta, previa restituzione del denaro. I frati, tuttavia, rifiutarono, così il Serra inoltrò dapprima la sua protesta al vicario di Roccabernarda, il quale la intimò inutilmente al correttore del convento. Allora il malcapitato si rivolse alla curia arcivescovile di Santa Severina, la quale ordinò al vicario di Policastro di intimare al correttore, tramite un diacono coniugato, di consegnare le terre. Invano, i frati risposero che obbedivano solo ai loro superiori.[xii]
Altre terre giunsero al convento per devozione verso il santo e relativamente a lasciti testamentari per celebrazione di messe. È quest’ultimo il caso di una gabella detta “Altofilica” situata in territorio di Policastro, assegnata dai Guarani con l’onere della celebrazione di due messe settimanali nella loro cappella della sacristia.[xiii]
Splendore e decadenza
Dalla “Nota” delle scritture eseguita sui protocolli del notaio Giulio di Bona, che coprono il periodo dal 1588 al 1637, si possono ricavare alcune informazioni sul ruolo economico del convento nei primi decenni del Seicento. Alle poche scritture della fine del Cinquecento, 10 atti in 12 anni, fa riscontro l’intensa attività dei primi anni del Seicento. Tra il 1600 ed il 1630, il convento è parte in 50 atti, dei quali la metà è rogata nel solo primo decennio.
Trattasi nella maggior parte di atti di compra/vendita di piccoli terreni, di vignali, di case, di concessione di prestiti, di affitti, di lasciti per messe in suffragio, e di donazioni al convento per devozione verso il santo. In seguito, man mano che ci s’inoltra nel secolo, decrescono gli atti, segno evidente della crisi economica, che investe sia la società rocchese che il convento. Dai 27 atti notarili, stipulati nel primo decennio, si passa ai 14 del secondo ed ai 10 del terzo.[xiv]
Il “Libro della Esigenza” del 1662, nell’elencare la rendita dei numerosi censi ed affitti dei quali beneficiano i frati, ci fornisce l’immagine del convento nel momento cruciale della crisi. Vengono elencate 44 partite, 10 di affitto e 34 di censo, che danno piccole rendite che gravano vigne e case di gente del luogo, per un totale di quasi 150 ducati annui. Tre quarti delle partite hanno rendite annue inferiori ai tre ducati e solo tre di esse superano i 10 ducati, quest’ultime si riferiscono a capitali a suo tempo concessi al notaio Giacinto Amoruso, a Don Francesco Sollazzo ed all’università di Rocca Bernarda. L’università, con i suoi 42 ducati annui che deve al convento, rimane di gran lunga la maggior debitrice.[xv]
I gravi danni causati all’abitato di Roccabernarda, edificato “sopra monti di mobili arene”, dal terremoto dell’otto giugno 1638, nel quale morirono nove persone, che causò distruzioni tali da “consigliare l’edificazione dell’abitato in altro luogo,[xvi] e l’acutizzarsi della crisi economica e demografica,[xvii] fanno diminuire le rendite; rallenta l’accumulazione ed il convento è costretto a mutare il tipo della proprietà, trasferendo gran parte del suo capitale dalla rendita immobiliare e censuaria alla rendita fondiaria.
Da una lista di tutte le terre e rendite, compilata nel giugno 1639 dal frate Domenico della Rocca, risulta che il convento possedeva nell’abitato di Roccabernarda, un consistente patrimonio immobiliare nelle località: “Malopino”, “Scarponari”, “La Piazza”, “Lo Piano del Castello”, “Lo Piano di S.ta Maria”, “La Valle”, “lo Borgo”, “Sidani”, ecc., composto da due botteghe, due case, una casa palaziata, quattro “casaleni” e cinque “catoi”, che affittava “anno per anno”. A causa del terremoto “che rovinò tutta la terra” gli edifici furono “diruti” e abbandonati e da essi per lungo tempo, non percepì alcun utile. In seguito, quando la “terra si rihabitò”, i frati se ne sbarazzarono e quasi tutti furono venduti, o dati a censo.
Dalle scritture del notaio Giacinto Amoroso risulta che nel trentennio dal 1640 al 1670, il convento è parte solo in 22 atti notarili. In genere sono documentate piccole partite di compra/vendita e ricollocazione del capitale dato a censo. L’unica operazione economica di una certa rilevanza, la quale però dimostra che, ormai, l’impiego creditizio del capitale non è più quello preferito dai frati, è l’acquisto fatto nel 1645 del territorio, quasi completamente boschivo di “Favata”. Per raggiungere tale scopo i frati dovettero acquisire le diverse parti detenute da più proprietari: Gio. Domenico Acquis, Francesco Dattolo, Giacomo Ceraldi, Gio Tommaso Tigano, e compiere un atto di permuta con Ferrante Accetta, dando a costui, in cambio della sua parte, l’annuo censo che doveva al convento Lupo Lauro.
Sempre in questi anni il convento, composto da quasi una decina di frati,[xviii] prosegue l’ampliamento dei suoi fondi ed acquisisce altre terre, per lo più boschi di querce con pochi alberi da frutto (fichi e peri). Anche in questo caso i frati sono animati, più che dalla volontà di acquistare terreni redditizi, dalla necessità di recuperare parte delle rendite, che altrimenti, a causa dell’insolvenza, andrebbero perdute, in quanto da più anni non sono più versate al convento. Ottiene così nel 1652, per annate di censi non pagate, “Li Comunelli” dall’università di Rocca Bernarda e nel 1665, le “Terre di Suero” dai Sollazzo. Alcuni atti come la donazione fatta nel 1649 dalla suora Maria Galasso, e nel 1657 l’oblazione al convento della sua persona e dei suoi beni di Angelo Miniscano, mostrano il permanere della devozione verso il santo da parte dei Rocchesi.[xix]
La crisi
La situazione di stagnazione e di regressione economica si prolunga. Da più di duemila anime, che Roccabernarda ancora aveva nel 1648, trent’anni dopo nel 1675, è sceso a 845 abitanti.[xx] La contrazione è resa evidente dalla numerazione dei fuochi, cioè delle famiglie tassate, che in un ventennio passano dalle 318 del 1648, alle 129 del 1669. Nonostante questa drastica decurtazione, è del 1682 una supplica del sindaco di Roccabernarda al viceré, con la quale fa presente che l’università è oppressa dai commissari, in quanto non può pagare il fisco regio secondo il numero dei fuochi; molti cittadini, infatti, non ci sono più perché “morti, assentati e falliti”. La stessa situazione si ripeterà dopo l’annata penuriosa del 1696.[xxi]
Le scritture del notaio Matteo Bernardi di Roccabernarda evidenziano lo stato di crisi del convento in questi anni: dal 1671 al 1700, lo troviamo partecipe in solo 13 atti. Di questi, 11 si riferiscono a piccole partite di compra/vendita legate all’attività creditizia/censuale. I due rimanenti, una donazione ed un acquisto, riguardano l’acquisizione di due piccoli vignali in gran parte boscosi limitrofi alla gabella di Favata: uno in località “La Valle di Suora Laura” e l’altro in località “Spanò”. L’allargamento della proprietà presso la gabella Favata procederà anche all’inizio del Settecento, con l’acquisto di un altro vignale dell’estensione di circa tre tomolate, “alborato di quercie, pochi pedi d’olive, d’oleastri e fichi”, utilizzando a tale scopo il denaro dato in elemosina dall’oblato Giovanni Massa di Roccabernarda; segno che l’attività creditizia non è più remunerativa, sia per la crescente difficoltà di riscuotere dai molti debitori le piccole rendite dovute, sia dai numerosi “affranchi”, che impegnano di continuo i frati a ricollocare il capitale.[xxii]
Dalla rendita censuaria alla rendita fondiaria
Dall’analisi dei rendiconti dei vari correttorati, ognuno dei quali durava un anno, dal primo ottobre fino al settembre successivo che, di solito, vede avvicendarsi i quattro frati che costituivano il convento, cioè Domenico della Rocca, Matteo della Rocca, Berardino della Rocca e Michelangelo della Rocca, possiamo farci un’idea della sua vita economica.
In questi anni tra la fine del Seicento ed i primi anni del Settecento, il convento continuò ad allargare il suo patrimonio terriero. Nel 1697 giunse a conclusione una lunga operazione finanziaria, che portò alla completa proprietà della “gabella delli Juliani”, detta anche di “Mastro Simone”, situata nel corso di Molerà Vecchio. L’acquisto era iniziato nel 1686, quando Marcantonio Ammenò aveva ceduto i suoi beni al fratello Michel’Angelo Ammenò, uno dei frati del convento. La proprietà era però gravata da alcune ipoteche: 50 ducati dovevano essere pagati ad Antonia Facente, 15 ducati alla cappella dell’Immacolata e 15 ducati al clero di Roccabernarda.
Dopo varie vicissitudini e liti, finalmente nel 1697 il frate Michel’Angelo, utilizzando i soldi del convento, riuscì a saldare i vari debitori, così il convento potette entrare in pieno possesso della gabella. Alcuni anni dopo, nel 1711, i frati, approfittando che i fratelli Sagace di Roccabernarda si trovavano in difficoltà finanziarie, comprarono per ducati 111 la metà della gabelluccia detta “della Taverna di Basso”. La gabelluccia aveva l’estensione di circa 24 tomolate ed era “alberata di quantità di querce, olive e altri alberi fruttiferi”. Anche in questo caso per completare l’acquisto, i frati dovettero liberare la gabella da alcune ipoteche, utilizzando a tale scopo un capitale ritornato al convento da un censo affrancato, e pagare un capitale di ducati 40 all’8% con le terze decorse dovuto all’ospedale di Santa Severina.[xxiii]
Questa politica di acquisto di nuovi fondi, che all’inizio era stata dettata dalla necessità di non veder svanire il capitale, con il riprendere dell’economia e del commercio granario, fornirà un sensibile incremento alle entrate. Da una media di circa 160 ducati annui del quinquennio 1690/1694, si passa ai 200 ducati annui del quinquennio successivo e, quindi, ai 230 ducati annui dei primi anni del Settecento. Le rendite provenienti dal fitto dei terreni che, sul finire del Seicento, rappresentavano circa un terzo delle entrate, nei primi decenni del Settecento saliranno ai due terzi.[xxiv]
Per avere un’idea dell’espansione della proprietà fondiaria basti pensare che nel 1639, il convento possedeva 13 proprietà fondiarie, quasi tutte di piccola estensione, vigne, vignali, giardini, molti dei quali vicino alle muraglie del convento, con un unico territorio di circa 140 tomolate, in località Caravà, mentre nei primi anni del Settecento ne enumera 17. Il cambiamento risulta sostanziale, non tanto perché i fondi aumentano di numero ed alcuni sono ampliati, quanto perché i nuovi sono più estesi e redditizi. Di fatto il fitto, in denaro e/o in grano, proveniente dalle gabelle “delli Juliani”, della “Taverna di Basso”, della “Lenza”, “delli Comunelli”, e di “Favata”, tutte gabelle acquisite dal convento dopo il terremoto del 1638, da solo ammonterà a molto di più di quello che daranno tutti gli altri fondi rustici messi assieme.
Facilita l’acquisto dei terreni anche la diminuzione del tasso di interesse sui capitali dati in prestito, che incomincia a farsi avvertire sul finire del Seicento. Di solito il convento esigeva il tasso del 10% sui capitali dati a censo. Ciò era osservato in genere; faceva eccezione l’università di Roccabernarda che, per prammatica emanata dal viceré nel 1612, aveva visto diminuire il suo dare dal 10% al 7%. Il ritorno al convento dei capitali affrancati perché troppo onerosi rispetto al mercato, pone il problema del loro reimpiego che, col passare degli anni, diventa sempre più difficile e rischioso, anche praticando tassi inferiori. Per non far rimanere il capitale in cassa inoperoso, parte di esso concorre all’acquisto di nuovi terreni.[xxv]
Vita economica
Oltre che sull’affitto dei terreni e sulle rendite dei censi, che costituivano la parte maggiore e più sicura delle entrate, il convento poteva contare anche sull’elemosine e sul bestiame. I benefici che traeva da queste due ultime voci erano per lo più incerti, in quanto esse variavano, anche di molto, da anno ad anno. Particolarmente importante e consistente era il patrimonio zootecnico. Dalla vendita di vacche, “vitellazzi”, “carnaggio”, “corio” e “latticinio” (“raschi”, “casicavalli”, “provole”, ecc.), alla fine del Seicento il convento ricavava oltre un quarto di tutte le sue entrate. Altro denaro proveniva il due aprile di ogni anno, giorno dedicato a San Francesco di Paola, quando si svolgeva presso il convento una fiera. Era questa un’occasione per raccogliere nel “bacile” l’elemosina, sia dei devoti che quella dei “mercieri”, dei “mastri consatori” e “calzolari”. A questa si aggiungeva quella per le numerose messe, che si celebravano in quel giorno, le offerte per l’olio e per la polvere da sparo.
Note
[i] S. Francesco di Paola e un nostro Diocesano, in Siberene Cronaca del Passato per le Diocesi di Santaseverina – Crotone – Cariati, a cura di Scalise G. B., p. 298.
[ii] Mazzoleni J., Fonti per la Storia della Calabria nel Viceregno (1503-1734) esistenti nell’Archivio di Stato di Napoli, Napoli 1968, p. 9.
[iii] ASV, Reg. Lat. 1799, ff. 54v-55.
[iv] Roccabernarda passò dai 403 fuochi del 1545 ai 183 del 1561. Una visita pastorale compiuta nel 1559 a Roccabernarda, dal vicario dell’arcivescovo di S. Severina, evidenzia lo spopolamento e l’abbandono, con una decina di chiese scoperchiate o in abbandono. Caridi G., Chiesa e società, Falzea 1997, pp. 57 sgg.
[v] ASCZ, Platea antichissima, in Libri antichi e Platee, Cart. 80/2, f. 3.
[vi] ASCZ, Platea antichissima, in Libri antichi e Platee, Cart. 80/2, f. 4.
[vii] ASCZ, Platea antichissima, in Libri antichi e Platee, Cart. 80/2, ff. 5-6.
[viii] ASCZ, Platea antichissima, in Libri antichi e Platee, Cart. 80/2, f. 3v.
[ix] “La Rocca Bernarda è terra di dui milia anime vicina a S. Severina quattro miglia: ha due parochie con la cura distinta per famiglie: l’una ha solo il suo parocho; l’altra, che è la chiesa matrice, è servita dall’arciprete con quindici preti, quali vivono di loro patrimonii et elemosine. Vi sono cinque compagnie, del Rosario, della Concettione, del S.mo Sacramento, della SS.ma Annuntiata e di S. Catarina; e tutti si servono con elemosine. Vi è un piccolo hospedale, et un convento dell’ordine di S. Francesco di Paola, qual mantiene con le sue entrade, et elemosine dodici frati. Nel suo distretto è il Priorato di S. Pietro de Nimfis grancia di S. Filippo Argirò di Sicilia di valore di ducati trecento l’anno. Questa terra è del contado di S. Severina, ma essendo stata venduta, hoggi la possiede il S.r Duca di Nocera.” Relatione dello stato della chiesa metropolitana di Santa Severina, 1589.
[x] Nel 1612 il viceré emanava una prammatica ordinando che i censi universali non potessero pagarsi più del 7%. Perciò la rendita del monastero da 60 ducati passò a 42. ASCZ, Platea antichissima, in Libri antichi e Platee, Cart. 80/2, f. 2v.
[xi] ASCZ, Platea antichissima, in Libri antichi e Platee, Cart. 80/2, f. 6.
[xii] ASCZ, Libri antichi e Platee, Cart. 80/9.
[xiii] ASCZ, Libri antichi e Platee, Cart. 80/9, f. 45v.
[xiv] ASCZ, Libri antichi e Platee, Cart. 80/9.
[xv] ASCZ, Libri antichi e platee, Cart. 80/4, Libro della Esigenza di questo con.to di Rocca Bern.da fatto questo anno 1662.
[xvi] Utius De Urso in Boca G., Luoghi sismici di Calabria, Grafica Reventino 1981, p. 221.
[xvii] Numero dei fuochi di Roccabernarda: anno 1521 (fuochi 264), 1532 (424), 1545 (403), 1561 (183), 1578 (183), 1595 (294), 1638 (300), 1648 (318), 1669 (129), 1732 (151). Pedio T., Un foculario del Regno di Napoli del 1521 e la tassazione focatica dal 1447 al 1595, in Studi Storici Meridionali, 3/1991. Barbagallo De Divitiis M. R., Una fonte per lo studio della popolazione del Regno di Napoli, 1977.
[xviii] Nel luglio 1645 nel convento vi erano i frati: Domenico de Geraci, correttore, Vittorio de Rocca Bern., Andrea de Rocca Bern., Domenico Siminaria, Berardino de Rocca Bern., Gregorio de Rocca Bern., Bernardo de S. Blasio e Francesco de Roccella. ASCZ, Libri antichi e platee, Cart. 80/9.
[xix] Il 22 luglio 1657, il rocchese Angelo Miniscano offre sé stesso ed i suoi beni al correttore del convento, il reverendo frate Domenico di Rocca Bernarda. ASCZ, Busta 180, anno 1657, f. 46.
[xx] ASV, Rel. Lim. S. Severina., 1675.
[xxi] ASN, Prov. Caut. Vol. 287, f. 77 (1697). La popolazione di Roccabernarda anche nel Settecento, rimarrà sotto i mille abitanti. Nel 1725 ne conterà 786 e 856 nel 1744. ASV, Rel. Lim. S. Severina., 1725, 1744.
[xxii] ASCZ, Libri antichi e platee Cart. 80/9.
[xxiii] ASCZ, Libri antichi e platee Cart. 80/2.
[xxiv] ASCZ, Libri antichi e platee Cart. 80/9.
[xxv] Nel 1709 nella cassa a 4 chiavi del convento erano depositati tre capitali: uno di ducati 30 era stato affrancato da Gio. Fran.co d’Acri nel 1707, uno di ducati 34 era pervenuto dalla vendita di 5 vacche, ed un altro di ducati 30 era stato affrancato da Orlando Facente alcuni mesi prima. ASCZ, Libri antichi e Platee, Cart. 80/6, ff. 63, 66v.
Creato il 23 Febbraio 2015. Ultima modifica: 12 Giugno 2024.