La vallata del Tacina nel Settecento

Panorama della valle del Tacina.

In una relazione datata Belcastro 12 dicembre 1699, il vescovo Giovanni Emblaviti, descrivendo i confini della sua diocesi, affermava che essa era compresa tra due fiumi: da una parte il fiume Tacina “plano et piscoso”, dall’altra il fiume Crocchio “rapido”.[i]

Pochi anni dopo il Mannarino, illustrando Policastro, si soffermava sui fiumi Cropa e Soleo, le acque dei quali confluivano nel Tacina. Egli ci dà un’immagine del paesaggio della media vallata del Tacina nei primi anni del Settecento: “[Policastro] è bagnato dà man sinistra dal fiume Cropa, e dalla destra dal fiume Soleo, che sta oggi diviso, perche parte delle sue acque scendono per servizio, ed’uso delli molini descritti; ed’il resto dell’acque corrono per l’antico letto e alla parte destra di mezzogiorno ritrovano à man sinistra una casa con tre molini della nobil famiglia Aquila, che oggi si possiedono dal Sig.r Domenico di Cola per raggion delle doti di sua moglie, ultimo rampoglio della casa Aquila; ancor da lui promesse alla unica sua figliola Elisabetta maritata nelle Piante di Cosenza con Lelio Le Piane Baron di Savutello. A man destra poi vi è fabricata un’altra casa con due molina, che sono della Santissim’Annunziata nuova, con lor giardinetti, ò sia meglio detto, orti ad ambedue case; la prima però lo tiene il suo a fianco destro, e l’altra sotto à piedi. Più à basso lontano mezzo miglia correndo à circolo sotto la radice della città si condottano parte di quest’acque al molino della nobil famiglia Zurlo, posseduto dalla famiglia Ferraro, per l’istesso motivo di robba dotale di Felice Zurlo, colla quale si chiude la casa, che ricordai essere originaria dà Negroponte coetanea, e consanguinea della Sculca … quel luogo è con faccia ad’oriente, e le acque immediatamente dopo’ il corso fugace di passi cinquanta in circa ritornano ad unirsi, al lor letto; e vanno ben tosto ad’abbracciarsi ad oriente istesso col fiume Cropa, famoso questo per le grosse anguille; ma più quello per le trotte stillate tutte d’oro, quali in grossezza, delicatezza, e sapore sono assai stimate come troppo lussuriose al palato onde gli ministri della Capo Provincia, e tutta quella nobiltà, siccome quella di Cotrone con suoi ufficiali, e castellano, le vogliono continuamente, e le celebrano per le più singolari di tutta Italia e variamente Barrio lò ricordò, d’essere delicati al gusto esterno, Inter Soleum, et Cropam amnes, herecinis, et anguillis fecundos e la lor gulosità e tanto provocativa al male, che può dirsi di queste anguille, e trotte, quel che un poeta di una specie di pesci molli cantò che il troppo mangiarsi ti taglie il cuore; ma pur tornando alli fiumi, spandonsi già questo, e quello verso il mare per tutto il territorio Policastre, fin che vanno in poche miglia à sboccar in piano camino nel fiume Tacina che come capo, con le sue membra, (dopò la sua scesa delle montagne, e dopò aver diviso quelle sue marine con confinanti Rocchesani) va à pagare al mar Ionio il solito tributo. Il fiume Soleo però del compagno è più salutifero, e più d’acque abbondante, venendo dal più alto monte della Sila; e tiene come ò detto per la ripa edificati tanti molini, de’ quali si ne servono i populi del contorno, specialmente quel di Mesuraca, che viene dà noi à provedersi di frumento, e si lo macina nell’istessi nostri molini e così ambedue fiumi tanto dalle parti di sotto, quanto di sopra, e ne’ lati à destro, ed à sinistro anno orti, e ville diletiosissime; se’ non in quanto essi stessi le danneggiano qualche volta, che vanno assai crescendo, e passando i lor limiti, e sponde; siccome anno fatto all’istessi molini con loro inondamento, non solo à tempi antichi, mà pur anche à tempi nostri, nel luogo appunto detto Marturanese, mezzo miglio sopra il molino della chiesa à parte di mezzogiorno, ed al suo lato destro, il fiume Soleo precipitò una casa con tre molini che eran posseduti dalla mia casa, e da mio padre Girolamo Mannarini, mentre cresciute oltre modo le sue acque per le continue Pioggie di molti giorni, furno danneggiate più Possessioni e ville, e più case si posero à lutto; ma più di tutte prese amarissimo il duolo un tal Paisano Gio: Filippo Natale per la perdita di Gioseppe suo figlio, che in detto passo dove erano le mollina di mia casa, fidato alla robustezza, e fior dell’anni, tentò à dispetto del fiume il passo; ma quell’onde voraci, senz’aver rigor nelle viscere, impennando cavalloni, con la lor lubrica gola miseramente l’ingoiorno, non sò, se’ perche troppo temerario, ed audace non volle di quelle rapide onde insuperbite l’orgoglio temere ò se per sua perdizione dal infausto destino violentata, si gittò voluntario al naufraggio, da dove, come dà crudo assassino spogliato, ucciso, e dimenato arenossi nel stritto dell’ultimi molini.”[ii]

Il corso del fiume Tacina in un particolare della carta austriaca del Regno di Napoli Sez. 12 – Col. IX (1822-1825).

I mulini del Tacina

L’esistenza di tanti mulini lungo le sponde del Tacina e dei suoi affluenti, tuttavia, non era di vantaggio per la popolazione, in quanto i mugnai avevano formato un monopolio, praticando tariffe elevate. Questo fatto aveva suscitato la protesta dei cittadini di Policastro, i quali nei primi decenni del Settecento, avevano chiesto al feudatario di Casa Filomarino che i mulini fossero affittati “uno separato dall’altro”, e che, se per caso fosse stato scoperto che i mugnai si fossero accordati, essi dovevano essere condannati “alla pena di mesi due di carcere”.[iii]

È proprio l’esistenza di molti mulini che, fin dal Medioevo macinavano lungo il Tacina ed i suoi affluenti, a darci notizia delle piene che, più o meno periodicamente, investivano la vallata, causando gravi danni ai mulini e alle campagne. Nei capitoli di affitto riguardanti i grandi mulini di proprietà feudale detti della Canosa e delli Copati, i primi situati sulla riva sinistra del Tacina, in territorio di Roccabernarda, ed i secondi in territorio di Policastro, vicino alla confluenza tra il Soleo ed il Tacina, si fa espresso riferimento ai danni provocati dal fiume: “Item Idio guardante il fiume di tacina venesse pieno e levassi li molina d’abascio divissasse o cascassero per qualsivoglia cagione detta Ducal Corte l’habia di fabricare et mitterli in farina a sue dispese et lo tempo vacheranno l’habia di scomputar pro rata sopra l’affitto et similmente deli molina de suso cascassero la Corte a sua dispesa l’habia di fabricare et il tempo vacheranno l’habia di scomputar pro rata. Si conceda per lo tempo vacheranno e la Corte li rifaccia a sue dispesa. Item venendo lo fiume pieno e levasse la presa la Corte a sua dispesa habia di poner l’acqua in detti molina e lo tempo vacheranno detta Ducal Corte se habia di scomputar sopra l’affitto pro rata temporis. Concede elassi tre di et habbiano da notificar il derotto in tutto all’erario di Cutro e circa la dispesa che sera si concede conforme alli capitoli passati per la metà che possiede”.[iv]

Il cambiamento climatico ed il disboscamento accresceranno la frequenza e la violenza delle piene, creando continui danni. Sappiamo che i mulini della Canosa e delli Copati alla fine del Seicento, risultavano trascurati nella manutenzione, per le continue rotture dei vecchi acquedotti. Fu chiamato allora l’ingegnere Giuseppe Licò, il quale consigliò quanto prima la costruzione di un nuovo acquedotto, con una nuova presa più a monte. Il feudatario per risparmiare, continuò a rappezzare, finché una piena del Tacina, causata da continue piogge, all’inizio del dicembre 1692, non rese inservibili gli acquedotti di molti mulini della vallata, tra i quali quelli della “Conusa”.

Per la fretta di rimettere macinanti i mulini con poca spesa, l’erario di Cutro incaricò dell’opera Filippo Greco di Figline, che si trovava a Cutro per costruire un nuovo carcere. L’imperizia del mastro, che non tenne in conto i disegni e le istruzioni degli ingegneri precedenti, rese inutile il lavoro, al quale avevano partecipato per diversi giorni, una quarantina di “vanghieri” dei casali cosentini. L’acqua del Tacina non arrivava ai mulini, perché non erano stati calcolati bene i livelli di pendenza.

Un nuovo ingegnere e “mastro aquidottario”, Giuseppe Mazza, cercò di porre riparo. Rifacendosi al disegno del Licò, costruì una nuova presa ed un nuovo “capo d’acquaro” più a monte nella volta della gabella di Serrarossa che collegò, tramite un tratto nuovo di acquedotto, a quello vecchio. Le nuove piogge della metà di gennaio del 1693, tuttavia, fecero cadere un’ingente massa di terra nel vecchio tratto dell’acquedotto, rendendolo inservibile. Bisognava quindi rifare tutto da capo, altrimenti si sarebbero venuti a perdere i tre mulini di alto.[v]

Sempre di proprietà dei Filomarino, poco dopo la metà del Settecento subirono ulteriori danni dalle piene del Tacina. Il fiume sempre più spesso in tempo d’inverno straripava con gravi danni alle colture, agli animali e alle cose. Il mutamento di regime dei fiumi, che scendevano dalla Sila, causato dal massiccio disboscamento dell’altopiano, con piene rovinose invernali, come quelle del 1736/1737 e del 1743/1744, e lunghi periodi di secca estivi, rese inutili alcuni mulini, mentre altri dovettero essere ristrutturati. I mulini della Conusa furono perciò più volte rifatti e rinforzati, assumendo quell’aspetto mastodontico di cui rimane evidenza. Importanti interventi furono eseguiti nel 1776, come risulta dai numerosi graffiti, lasciati dai lavoranti.

Roccabernarda (KR), panorama della bassa valle del Tacina. In evidenza i ruderi dei mulini della Canusa.

Il biennio 1743 /1744

I primi decenni del Settecento, soprattutto sotto la spinta dell’esportazione granaria, videro una generale rinascita della vallata, che usciva dalla lunga crisi seicentesca. Il riattivarsi del commercio e la mancanza di gravi epidemie facilitarono l’espansione dei terreni a semina e l’aumento delle mandrie. Molti terreni furono disboscati e coltivati. Permaneva e si acuiva, tuttavia, la fragilità economica delle campagne, dove alcuni suoli, specie quelli posti lontano dagli abitati e vicino ai fiumi, che erano stati di recente messi a coltura, a causa del mutamento climatico e dell’esteso disboscamento, erano divenuti più esposti alla furia delle acque, che non più trattenute, irrompevano, allagando ampie zone della pianura. Il disboscamento silano, che dalla metà del Settecento prenderà nuovo vigore, con la costruzione del nuovo porto di Crotone, sarà una delle cause del degrado della vallata, ma altre forze, sia naturali che umane, interagirono.

Si può dire che il biennio 1743/1744 segnò per le campagne della vallata del Tacina, il passaggio da una economia prevalente agraria, in cui i terreni erano gestiti secondo la vecchia rotazione della semina col pascolo, cioè tre anni a semina e tre ad erbaggio, ad una economia a prevalenza pastorale, in cui la pratica della rotazione fu ignorata o applicata saltuariamente. In molti fondi divenne costante il pascolo e con esso l’abbandono e la rovina dei suoli. Il manifestarsi di un insieme di fenomeni negativi, in un breve spazio temporale, colpì mortalmente un’economia già in difficoltà, dove stava venendo meno il precario equilibrio tra pascolo e semina, al rispetto del quale, invano, i grandi proprietari assenteisti, specie gli abbati commendatari, cercavano di obbligare coloro che affittavano le grandi estensioni di terreno abbaziale.

Il loro intento era quello di mantenere inalterata e se possibile accrescere la rendita, in quanto, rispettando la rotazione, un terreno nel triennio di semina veniva affittato per un valore tre volte superiore al triennio successivo di affitto a pascolo. L’abbandono di molte terre e la riduzione delle terre a semina furono tuttavia il risultato di uno scontro di interessi, che vide protagonisti i vari soggetti economici della vallata, che cercarono di salvaguardare i loro beni e rendite, in una congiuntura economica particolarmente sfavorevole.

L’allargamento della superficie dei terreni a pascolo ed il restringersi di quelli a semina, con la diminuzione dell’affitto dei primi e l’aumento dei secondi, vide concorrere avversari storici, cioè i feudatari, proprietari delle grandi mandrie, l’arcivescovo ed i vescovi, che vantavano il diritto di decima sugli animali dei forestieri pascolanti sui corsi, i proprietari locali di animali, che potevano avere maggiore possibilità di terreni, ed i mandriani forestieri, che avevano in custodia le mandrie dei nobili, e che dall’aumento delle terre a pascolo potevano trarre un beneficio economico, in quanto aumentava l’offerta.

Concorse alla diminuzione del seminativo anche l’allargamento delle terre riservate all’oliveto ed al vigneto, ad opera dei grandi possidenti. Dall’altra, la riduzione di quelle a semina portò svantaggio soprattutto ai coloni ed ai massari, che per seminare furono obbligati a prendere in affitto a prezzo maggiore i terreni del feudatario e dei nobili locali. In verità attraverso il controllo del mercato delle terre i proprietari locali, che controllavano le cose e gli uomini, mentre svilirono i terreni dei proprietari forestieri assenti, relegandoli al pascolo o all’abbandono, salvaguardarono e valorizzarono i propri, conservando in essi la rotazione. Inoltre, i mercanti locali indirizzarono la maggior produzione di carne, di formaggio e di pelli a rifornire i mercati delle città, dove questi generi potevano essere consumati dalle classi agiate. Intanto la minore produzione di grano teneva alto il prezzo, favorendo l’incetta, la speculazione ed il mercato nero, a scapito della popolazione, come dimostrerà ampiamente la grave carestia del 1764. I fenomeni naturali e sociali, che favorirono l’allargamento del pascolo, furono assecondati e favoriti anche dagli usi, infatti, la parte di terreno non seminata, cioè le “menzagne”, secondo l’uso del territorio di Roccabernarda, poteva essere pascolata dai buoi dei cittadini, il baglivo poteva fidarci gli animali forestieri, ed il feudatario poteva venderla, o pascolarla, con i propri animali, era quindi nell’interesse di questi soggetti, tutti residenti del luogo, che essa fosse la più estesa possibile.

Panorama della valle del Tacina.

La vallata a metà Settecento

Così il vescovo di Belcastro Gio. Battista Capuano, verso la fine di febbraio del 1745, descrive in una sua relazione la situazione: “dal sette dicembre 1743 la terra incessantemente cominciò a tremare, senza mai smettere, con spaventevoli scosse, così che in molti luoghi le chiese e gli edifici sono divenute macerie abbandonate, in quanto alle persone esse abitano in capanne ed in capannoni, costruiti in legno o con canne, con grave detrimento per la loro salute (…) A causa della peste la media provincia è chiusa da tre cordoni sanitari, per tale motivo le vettovaglie si vendono a caro prezzo ed è impedito ogni forma di commercio con le città e le terre vicine. Il frumento e gli altri generi alimentari sono stati portati via con la forza, per alimentare le terre e le persone chiuse e ristrette nei cordoni (…) Vi è un continuo andare e venire di soldati, che si preparano per l’imminente guerra. Rimangono impediti l’esecuzione dei contratti ed il decorso degli affari, creando una grandissima confusione nel mercato. Attualmente ha ripreso vigore una epidemia di febbri acute, che infuria e colpisce ovunque”.[vi]

Gli faceva eco l’arcivescovo Nicolò Carmine Falcone, il quale descrive Santa Severina come una città che una volta era popolosa e prospera, divenuta ora desolata e deserta; parte delle chiese a causa del terremoto erano distrutte e parte avevano bisogno di essere riparate, ma ciò non era possibile perché le rendite erano diminuite o mancavano.[vii] A causa delle continue scosse di terremoto, lo stesso arcivescovo aveva dovuto passare l’inverno dentro un tugurio fatto di fragile legno, perciò si era ammalato e chiedeva il permesso di trasferirsi a Napoli per curarsi.[viii]

Dopo il biennio 1743/1744 segnato dalle grandi e continue piogge, dalla carestia, dal terremoto e dal vaiolo, la situazione economica della vallata peggiorò in maniera sensibile. Il mutamento del clima, la paralisi del commercio, specie del grano, causata dal pericolo della peste, e dai cordoni sanitari attivati per fermarla, le cattive annate e lo spopolamento, determinarono l’aumento delle aree dedicate al pascolo ed il restringersi di quelle a semina. Molte terre, specie quelle lontane dagli abitati e poste in luoghi arenosi, sassosi e pantanosi, ritornarono selva.

Panorama della valle del Tacina.

Il caso di due gabelle

L’abbazia di Sant’Angelo in Frigillo, situata in territorio di Mesoraca, fin dal Medioevo possedeva vasti terreni situati lungo la vallata del Tacina, in territorio di Mesoraca, Cutro, Roccabernarda e nella baronia di Tacina. Tra essi vi erano i due vasti corsi di Terrata e Camerlingo,[ix] che erano situati in territorio di Roccabernarda, sulla riva sinistra e confinanti col fiume Tacina.[x]

Essendo situati in diocesi di Santa Severina, l’arcivescovo vantava su questi corsi dai tempi antichi, per privilegio concesso da papa Lucio III, confermato dai regnanti napoletani, il diritto di esigere la decima su tutti gli animali, sia dai diocesani che dai forestieri, che assumevano i pascoli. Tale diritto durante il Seicento fu invano più volte contrastato dai vari abbati commendatari, che si erano succeduti nell’amministrazione dei beni dell’abbazia. All’inizio del Settecento era fallito anche il tentativo del commendatario, il cardinale Nicola Acciaioli, che si rifiutava di versare le decime all’arcivescovo di Santa Severina Carlo Berlingieri. Aperta la lite e discussa la causa, nel 1710 essa fu conclusa favorevolmente per la mensa arcivescovile.

La lite sopita fu poi ripresa nel 1736 dal successivo commendatario, il cardinale Francesco Antonio Fini, al tempo dell’arcivescovo Aloisio de Alessandro (1732-1743).[xi] All’arrivo dell’arcivescovo Nicola Carmine Falcone (1743-1759) la contesa era più che mai viva, anzi si arricchiva col tempo di nuove argomentazioni. L’avversario era ora particolarmente potente; si trattava, infatti, dell’abbate commendatario Francesco Cotogni, conclavista, vicario in Bologna e prelato domestico di Benedetto XIV. Il commendatario, facendosi forte del fatto che i conclavisti erano stati esentati dal pagamento di ogni imposizione da Benedetto XIV, trovò un’occasione in più per non pagare le decime. La lite approdata in Sacra Rota vi rimase per molti anni. Alla fine del 1750, quantunque l’arcivescovo avesse ottenuto una triplice sentenza favorevole, e l’avversario vinto fosse stato condannato alle spese, quest’ultimo non cessava di molestare, ma aveva prodotto delle nuove eccezioni per cercare di guadagnare tempo, e stancare l’arcivescovo spingendolo a nuove spese.[xii] Quest’ultimo, tuttavia, proseguì e riuscì finalmente a vincere nei tribunali ecclesiastici romani.[xiii]

L’esito della causa riconosceva quindi il diritto dell’arcivescovo di esigere la decima parte, sia degli agnelli e dei capretti, che pascolavano nei corsi della diocesi, sia dei latticini. Era evidente che l’arcivescovo poteva riscuotere la decima solo se il terreno era a pascolo, mentre niente gli spettava, se lo stesso era a semina.

Nel frattempo, nel 1746, Benedetto XIV aveva dato il suo assenso all’atto di concordia stipulato tra Francesco Cotogni, commendatario dei due monasteri cistercensi perpetuamente uniti di S. Maria de Matina e di Sant’Angelo di Frigillo, e Giovanni Renato Maillard, vicario e procuratore generale dell’ordine cistercense. Con tale atto veniva attribuita all’abbate ed al convento dei due monasteri il diritto e la facoltà di amministrare tutti i beni appartenenti ai detti monasteri, riservando all’abbate commendatario una rendita annua, da versare ogni anno al detto Cotogni in Napoli.[xiv]

L’anno dopo l’abbate dell’ordine cistercense di Santa Maria della Matina Giovanni D’Ippolito, concedeva l’amministrazione della grancia di Sant’Angelo in Frigillis all’abbate ed ai monaci di S. Giovanni in Fiore.[xv] Essendo il commendatario assente e lontano in Napoli, e l’amministrazione delle terre della grancia di Sant’Angelo in Frigillis affidata all’abbate e ai monaci di San Giovanni in Fiore, i terreni abbaziali cominciarono ad essere affittati solo a pascolo e arendere sempre di meno, mettendo così in difficoltà il pagamento della rendita del commendatario e suscitando quindi in quest’ultimo il sospetto di essere oggetto di una frode. L’abbate e i monaci di San Giovanni in Fiore, per nascondere la collusione con l’arcivescovo di Santa Severina e con i proprietari locali, si munirono di testimonianze favorevoli.

Il 21 settembre 1757, presso il notaio Bruno Pagano di Cutro, si recarono alcuni canonici e nobili del luogo, assieme al sindaco e agli eletti di Cutro, i quali, in due distinti atti, dichiararono che nei quattro anni dal 1750 al 1753, nonostante che più volte l’abbate Remigio Lucente ed i monaci cistercensi di S. Giovanni in Fiore: Rosalbo Capocchiano, Luigi Amendola ed Ambrosio Pucciano, in qualità di procuratori, si fossero recati a Cutro per affittare a semina le due gabelle di Terrata e Camerlingo, non avevano trovato alcuno che le prendesse in fitto, in quanto “in detto Stato di Cutro, vi è quantità di terre aratorie, tanto di questa Principale Camera, quanto di altri particolari, ed all’incontro quasi poco numero di coloni, e massari, i quali non bastano a poter coltivare intieramente le terre di detta Principale Camera per le quali sono tenuti”.

Essi aggiunsero che in seguito, il barone Bruno Piterà solo “per le replicate premure” dell’abbate e dei monaci, decise di compiacerli, prendendo in fitto le gabelle a semina per quattro anni, dal settembre 1753 alla fine di agosto 1757. Tuttavia, questo era stato un fatto del tutto eccezionale, in quanto “in questo territorio di Cutro, quanto della Rocca Bernarda, et altri luoghi di detto Stato, dalli possessori di cabelle simili, non si osserva una certa, e regolare vicenda, o sia alternativa, per l’uso di semina d’esse cabelle, si perché la terra non resiste a detta regolare osservanza, avendo di bisogno di tanto, in tanto d’un poco più di riposo, come ancora, perché, stante la suddetta abbondanza di terre aratorie, e scarsezza di coloni, e massari, volendole con detta regolare osservanza coltivare a semina, non si ritrova chi la coltivi, e pigli l’affitto, e che lo stesso è soluto occorrere, ed averà d’occorrere, per l’avvenire per le sudette due cabelle di Camerlingo e Terrata, per essere di grande estensione, e non così facilmente trovarsino a coltivare … e tanto maggiormente, che l’istesse cabelle sono situate molto distanti da detta città di Cutro e molto più dall’accennata Rocca Bernarda, et altri luoghi di abitazione, per la qual cosa si rende molto scomoda, e spesosa la coltura”.[xvi]

La località “C. Terrata”, in un particolare del Foglio N. 570 Petilia Policastro della Carta 1:50000 dell’IGM.

La carestia

La questione della rendita delle due gabelle di Camerlingo e Terrate fu ripresa successivamente. Nel frattempo, nel luglio 1758, per cessione del cardinale Francesco Cotogno l’abbazia di S. Maria della Matina, alla quale era annessa quella di S. Angelo de Frigillo, era concessa in commenda da Clemente XIII a Ferrante Loffredo.[xvii] La rendita delle due gabelle tuttavia diminuiva.

Se si riponeva speranza in un fatto congiunturale, ben presto ci si dovette ricredere, come dimostrò palesemente la grave carestia del 1764. Mentre il grano diveniva introvabile e le popolazioni spinte dalla fame, assaltavano i magazzini ed i mulini, per cautelarsi di fronte ad una inchiesta che avrebbe messo in evidenza la vasta trama di interessi e di speculazione, esistente tra nobili, ecclesiastici e mercanti locali che, per trarre profitto dai beni abbaziali, oltre ad imboscare il grano, avevano sottratto vaste aree della vallata alla coltivazione granaria, nella primavera del 1764 furono rogati in Cutro alcuni atti notarili.

Questi, nel mentre mettono in evidenza i fenomeni naturali e sociali, che avevano favorito l’abbandono della semina, dall’altra, dimostrano come in molti terreni, soprattutto abbaziali ed ecclesiastici, la rotazione era stata già da molto tempo abbandonata. Questo fatto aveva da tempo destato allarme nell’abbate commendatario, che vedeva la sua rendita divenire precaria, ma vani si erano dimostrati tutti tentativi, di rimuovere le cause ed i colpevoli. Questi ultimi non potevano che essere quelli che amministravano e che prendevano in fitto i beni dell’abbazia, e che invece di rispettare la rotazione, a seconda dell’opportunità, subaffittavano le singole gabelle, o ai coloni ed ai massari del luogo, o ai mandriani silani.

Questi conduttori di solito erano società composte da nobili ed ecclesiastici del luogo che, al momento del contratto, si impegnavano tra l’altro a “governare et far governare a (loro) proprie spese tutti li beni et corpi di d(ett)a grancia con li guberni soliti et necessari di modo che venghino più tosto in aumento, che in detrimento per colpa e difetto di esso conduttore”.[xviii] Era evidente che a livello locale esisteva una consorteria di ecclesiastici e nobili che, godendo di complicità, governava il mercato delle terre, per cui il fitto dei terreni abbaziali, e non solo quelli, era controllato in modo che, specie nei momenti di pestilenza e di carestia, alcuni terreni venivano sfruttati in modo tale, che col tempo decadevano e divenivano infruttuosi, mentre altri, cioè quelli appartenenti ai complici, venivano salvaguardati e coltivati, in modo da conservare e accrescere il valore.

Le testimonianze di alcuni coloni cutresi, pur nella loro parzialità, ricostruiscono in parte la storia di alcuni terreni della vallata. Essi infatti dichiararono che la gabella di Terrata dal 1745 fino al 1763, era stata sempre usata come pascolo per il bestiame vaccino e pecorino, eccettuati solo tre anni, in cui era stata rotta ad uso di semina dal feudatario Bruno Piterà, mentre la gabella di Camerlingo nello stesso lasso di tempo, era stata dapprima rotta ad uso di semina per tre anni, il primo a maggese ed i seguenti due a semina, quindi era rimasta per molti anni a pascolo, finché non fu presa in fitto a semina sempre dal Piterà per altri tre anni. Cioè, in 18 anni la prima era stata messa a semina solo tre anni e la seconda sei.

Il motivo dell’abbandono della semina nelle due gabelle è così descritto: nelle gabelle Terrata e Camerlingo situate in territorio di Roccabernarda e vicine al fiume Tacina, “non si può pratticare il triennio in semina, cioè a dire per tre anni continui a rompersi ad uso di semina, ed il triennio in erba per tre anni continui lasciarsi a pascolo del bestiame grosso, e minuto, con l’alternativa dell’uno triennio all’altro, a causa che sono terre leggiere e la maggior parte d’esse arenose, pieni di sterpi, e spine, quantità di pietre, che per potersi mettere in uso di semina ci vuole delle grosse spese, ed essendono, per anche, soggette all’innondatione e gonfiamento d’esso fiume, e continui geli, li seminati stan molto in pericolo alle med(esi)me, onde è necessario, e necessarissimo, che si lasciassero ad uso di erba, al pascolo di bestiame grosso, e minuto, almeno nello spatio di sei anni continui, per potersine fra detto tempo litamare, et ingrassare da esso bestiame, ed indi mettersi nell’uso di tal triennio in semina, cioè per tre anni soli, che per esser le medesime della qualità sudetta, non si possono seminare più di tre anni continui, siccome si è pratticato e si prattica con l’altre cabelle alle med(esim)e contigue, che sono Cervellino, Lenza, Carnevali, Termine Grosso e Madamma Giovanna, che da molti e molti anni non si sono rotte a massaria, tutto che fussero di meglior qualità”.

Inoltre, i coloni aggiunsero che, per poter affittare le suddette gabelle per tre anni continui a semina, era necessario che l’affittuario fosse ben ricco e benestante, in modo da poter sopportare le grandi spese necessarie per disboscarle e renderle adatte alla semina, in quanto i semplici massari difficilmente avevano i mezzi per affrontare tali ingenti spese. L’affermazione veniva ribadita dal barone del feudo di Fota Bruno Piterà, il quale in società con Serafino Romei di Belvedere Mala Pezza, aveva preso in fitto per sei anni l’abbadia di Sant’Angelo in Frigillis dall’abbate commendatario Francesco Cotogno. Il barone affermò che, nel triennio in cui la gabella di Terrata fu rotta a massaria, occorse “gran impegno, tanto d’esso constituto, quanto del detto suo socio di Romei”, e quando procedette ad affittarla a tal uso ai coloni ed ai massari, essi dovettero fornire a credito “non solamente il grano, per semenza, ma pur anche buona somma di danaro, per soccorso delle spese necessarie, per la di loro massaria”.

Dichiarazioni riprese dai coloni, i quali affermarono che le gabelle in oggetto non facilmente potevano essere affittate, in quanto, oltre ad essere vicine al fiume Tacina e quindi soggette all’inondazione ed a continui geli, erano anche molto distanti dai paesi vicini. Tali affermazioni trovavano una rispondenza nel ripetersi di annate rovinose. Il recente inverno 1760/1761 aveva visto le campagne nude per la mancanza di piogge, coperte da copiose nevicate e spazzate da venti gelidi, che avevano causato una grave moria di buoi. In primavera la siccità aveva compromesso il raccolto, tanto che alcuni coloni avevano preferito abbandonare prima della mietitura; mentre altri, persa “la semenza, fatiche e bovi già morti in gran numero”, erano così ridotti in miseria, da non poter pagare i debiti contratti. Per poter sfamare la famiglia e per provvedersi dei semi per la successiva semina autunnale, essi dovettero impegnare, o svendere, i pochi averi agli usurai, sottoponendosi a contratti svantaggiosi.

Molte gabelle, perciò, rimasero sfitte e incolte. Il raccolto del 1762 non rispettò le attese, anzi fu peggiore del precedente ed indebitò ancor più i coloni. Seguirono violente piogge, che dall’autunno si prolungarono fino a primavera, con inondazioni e danneggiamenti al bestiame ed alle colture. A fine maggio, improvviso, arrivò il gelo che rovinò le biade. Dopo il pessimo raccolto giunse il tempo dei pagamenti, così i contadini dovettero fuggire, o finire in carcere. La certezza della imminente carestia ed il pericolo di una pestilenza gettarono nel panico la popolazione.

Il prolungarsi di una situazione economica così svantaggiosa mutò il rapporto della popolazione con la campagna, così che vi fu “mancanza de coloni, essendo in tutto questo Marchesato le padrie di poco popolo e quantità di terreno, tanto che quelli pochi coloni, sempre scelgono le migliori gabelle, che danno maggior frutto … [così] molte cabelle de rispettivi baroni e particulari del Marchesato, per la sudetta mancanza de’ coloni, sono romaste a più tempo inarate, a segno che si sono rese boscose, quantunque siano di meglior qualità delle sudette cabelle di Terrata e Camerlingo, ed in particulare la cabella di Cervellino, che attacca con l’istessa cabella di Terrata, del dominio di questo R.do Clero [di Cutro], ed altri particulari e soggetta alli stessi pesi di Terrata, non ostante dico non e stata rotta, ad uso semina da undici anni a questa parte … ed oltre questa, il corso spatioso della Lenza, che anche sta nel sito di Terrata, non è stata affittato ad uso semina da circa anni diece sette a questa parte”.

Il barone a sua volta, dichiarava che nel triennio 1761/1763, aveva messo a semina la gabella Camerlingo, e per far ciò aveva dovuto affrontare ingenti spese, in quanto la gabella si era fatta boscosa, perché da più anni non veniva seminata e, nonostante la spesa, “pure ne remasero d’essa cabella circa tumulate due cento nelli piani attaccantino al sudetto fiume, che non si poterono sboscare, per causa che si rendeva esorbitantissima, e poco frutto poteva ricavare dal seminato, per essere tutte le sudette tumulate duecento circa arenose ed inattissime all’uso di semina”.

Le località “C. Terrata” e “C. Carmellingo” in un particolare del F. 237-II “Petilia Policastro”, della Carta d’Italia 1:50:000 (U.S. Army 1943, copiata da una mappa italiana del 1896).

La malaria

Di fatto durante questo periodo venne meno l’apporto dei coloni silani ed aumentarono le inondazioni. Sulle campagne non più coltivate ed invase dalle acque, si estese la palude e con essa la malaria, quest’ultima, debilitante per i locali, era letale per i forestieri. Così i due cutresi Giacomo Curto e Tommaso Macrì, pubblici apprezzatori esperti e misuratori di campo, dichiaravano nel maggio 1764 al notaio Francesco Greco di Cutro: “[Nella] cabella di Camerlingo vi sono le Volte attaccantino al fiume Tacina, di terre arenose, pieni di spinaye ed inutilissime, che di niuna maniera si possono seminare, quale Volte sono di due cento tumulate, e più et sapere benissimo per certa scienza, che nell’anno mille sette cento sessanta due, per esser soggette all’inundatione del detto fiume Tacina questo sboccò ed inundò dette Volte, ove si ritrovavano le vacche delli SS.ri Bruno Piterà di questa med(esim)a città di Cutro, affittatore d’essa cabella ed in parte delli vitelli d’esse vacche nel numero di sedici totalmente perirono e furono affogate dall’inundatione ed acque d’esso fiume ed un altro toro del med(esi)mo restò infangato per lo spatio di cinque giorni e con gran stenti, doppò che si ritirò l’acqua d’esse Volte si cavò fuori semivivo”.

Riferendosi sempre alle due sopraddette gabelle di Terrata e Camerlingo, aggiungevano che “ambedue le sudette cabelle per essere attaccate a detto fiume Tacina, son soggette alla mall’aria, ed altre persone non possono prendere le med(esim)e cabelle in affitto di semina, se non qualche della sudetta città di Cutro, ed altri coloni o siano affittatori della Sila, o siano mensagne, non si possono ritrovare per rombere dette cabelle in tal uso di semina per causa della mal’aria sudetta, e del grosso dispendio, che ci vorrebbe, per renderle atte a tal uso.” Affermazioni ribadite da altri massari, i quali dichiaravano “di non mai ricordarsi d’esser le sudette cabelle affittate ad uso di semina a coloni che sono da paesi siti nelle montagne, perche essendono le med(esi)me cabelle site e poste in luogo di mala aere ogn’anno, che vi scenderebbero, in tempo della raccolta, vi lasciarebbero la vita”.[xix]

Cutro (KR), panorama della vallata del Tacina vista dal Vattiato.

Inondazioni e degrado

Tutte queste testimonianze, anche se si basavano su fenomeni naturali e su fatti reali, tuttavia, non giustificavano del tutto la grande diminuzione della resa delle due gabelle agli occhi del commendatario. Le due gabelle appartenenti all’abbazia di Sant’Angelo de Frigillo ed amministrate dall’abbate e dai monaci del monastero cistercense di San Giovanni in Fiore, erano state concesse in questi anni in fitto al barone Bruno Piterà, abitante a Cutro, il quale, accusato di non rispettare la rotazione tra semina e pascolo, non trovò difficoltà nel munirsi di molte testimonianze favorevoli, per cercare di allontanare da sé ogni sospetto di frode.

Passata la grande carestia della primavera 1764 e ritornato il grano nei mercati, all’inizio di novembre del 1764 in Cutro il notaio Francesco Greco rogava un atto pubblico, riguardante le due gabelle appartenenti al monastero di Sant’Angelo de Frigillo. Una decina di coloni dichiaravano che le due gabelle non potevano essere seminate per lungo tempo, né usarvi la rotazione tra semina e pascolo. Questo per tre motivi principali. Il primo era la loro vastità, calcolata in circa ottocento tomolate. Per seminarle occorrevano massari ricchi e facoltosi, in quanto bisognava una gran spesa, stimabile in circa centocinquanta ducati, per disboscare le estese terre incolte, aprirle all’aratura e seminarle. Perciò non vi erano massari disposti, in quanto nessuno voleva accollarsi tali spese, anche se i padroni delle gabelle si fossero impegnati a prestare tutto l’aiuto possibile. I coloni avevano infatti a disposizione molte gabelle di migliore qualità, che richiedevano meno spesa. Inoltre, i massari ricchi e facoltosi, se ce n’erano, possedevano e coltivavano le proprie gabelle, senza dover sottostare all’affitto delle altrui.

Il secondo motivo era che circa duecento tomolate delle due gabelle erano situate accanto al fiume Tacina. Perciò erano arenose, piene di sterpi, spini, rovi ed arbusti, chiamati volgarmente “vruche”, e quindi inadatte alla semina. Ogni anno d’inverno a causa della piena del fiume, esse venivano inondate e danneggiate dall’acqua, aumentando di continuo l’arena. Circa trentacinque tomolate erano ormai perse in quanto piene di acqua e pantanose, mentre la parte rimanente era in gran parte sassosa, tanto che se vi si fosse seminato, la maggior parte della semenza non sarebbe germogliata, mentre quella germogliata, avrebbe dato poca resa. Inoltre, queste terre erano “leggere”, tanto che se fossero state seminate per due anni continui, poi esse sarebbero dovute stare a pascolo per sette e più anni, per non perdersi completamente.

Il terzo motivo era che coloro che dovevano coltivarle, dovevano essere dei luoghi vicini, come Cutro e Roccabernarda. I Cutresi, o avevano gabelle di loro proprietà, o seminavano le gabelle vicine all’abitato, che erano anche più fertili. I Rocchesi erano poco numerosi, contando Roccabernarda solo circa ottocento abitanti. I massari perciò erano pochissimi, non più di sei, ed il feudatario del luogo li obbligava a seminare le sue gabelle, anche perché erano migliori. Se poi i padroni delle due gabelle avessero voluto concederle a massari e coloni abitanti in Sila, i quali non possedevano terre in pianura per seminare il grano bianco, non avrebbero trovato da affittarle. Questo sia per la loro cattiva condizione e grande distanza, sia per la pessima aria, “tanto motivo a tutti, e molto più alli paesani e coloni delle montagne sudette, avezzi a respirare in buon aere, ed in quella contrarebbe, senza meno la morte”. Perciò per testimonianza anche di persone anziane, mai si era inteso che le due gabelle fossero state seminate da coloni della Sila.

Per ribadire tale stato, che riguardava non solo le due gabelle in oggetto, ma anche le altre terre vicine al Tacina, i testimoni aggiunsero che “Per l’istesso impedimento dell’aere cattivo, altre cabelle anche site in detto territorio di Rocca Bernarda del dominio e possesso d’altri Padroni, anche fussero a gran lunga, di meglior qualità di quelle di Camerlingo e Terrata, pure a più anni sono romaste inseminate e rese inculte, e boscose e fra l’altre la cabella di Cervellino del dominio del R.mo Capitolo della Ven. chiesa matrice collegiata della SS.ma Annunciata di questa città di Cutro, attaccata alla detta cabella di Terrata, e d’anni undici e più non si è potuto ritrovare ad affittare ad uso di semina, come ancora la cabella chiamata Lenza e stata per lo spatio d’anni diece sette in circa ad uso di pascolo”.[xx]

Non passarono molti giorni e quanto testimoniato dai numerosi coloni cutresi trovò conferma. Nello stesso novembre 1764 il Tacina inondava le due gabelle, arrecando danni. Il 3 dicembre dello stesso anno gli apprezzatori ed esperti di territori Bruno Piterà, Giovanni Ranieri e Tommaso Macrì, dopo essere stati assieme all’abate Clemente Siciliano ed al capomandra del monastero di San Giovanni in Fiore Domenico Morano, a verificare i danni causati dall’alluvione, dichiararono che essa aveva interessato circa duecento tomolate della gabella di Camerlingo, “a segno che tutti quelli arbuscelli che in essa si trovavano, l’abbiamo osservati coperti di fango, ed arene, portate ivi dalla piena d’esso fiume Tacina, senza che, ne meno abbian possuto osservare vestiggio dell’erbe, che ivi si trovavano nate, e senza che vi fosse speranza in questo anno di poterne rinascere, ed anche l’hanno ritrovata piene di legname grosse, e d’ogni sorta trasportate dalla piena d’esso fiume”. Al danno della gabella Camerlingo erano poi da aggiungere altre quindici tomolate della gabella di Terrata che erano state ricoperte di arena.[xxi]

Tutte queste testimonianze a favore del barone Bruno Piterà, che aveva preso in fitto le due gabelle dai monaci di San Giovanni in Fiore, non erano tuttavia sufficienti a fugare i dubbi sulla conduzione delle due terre. Il primo marzo 1768, il papa Clemente XIII incaricava i vescovi di Santa Severina, Crotone e Isola, o i loro vicari generali, affinché si interessassero a far restituire le rendite ed i beni sottratti all’abbate e ai monaci del monastero di S. Maria della Mattina e di S. Giovanni in Fiore, che erano stati perpetuamente uniti tra loro canonicamente. Tali beni e rendite, sottratti da sconosciuti, riguardavano soprattutto i possessi, i crediti, i nomi dei debitori, i beni, le scritture private facenti fede e riguardanti soprattutto le ricevute e l’affitto dei territori di Camerlingo e Terrate, che spettavano al detto monastero.[xxii]

Note

[i] ASV, Rel. Lim. Bellicastren., 1699.

[ii] Mannarino F. A., Cronica della Celebre ed Antica Petilia detta oggi Policastro, 1721-1723, ff. 87-88.

[iii] “Item Perché s’è esperimentato e patito interesse notabile per l’unioni, che fanno gli molinari nelle molina, che per lo venire si debbano affittare dette molina uno separato dall’altro e che in nessuna maniera possa permettersi detta unione, e facendosi secretamente caso si scoprisse, che gli molinari soggiacciano alla pena di mesi due di carcere, restando ad arbitrio di detto eccellentissimo di moderarla, con connettere in sua assenza l’esecuzione al Regimento e non ad altro officiale.” Mannarino F. A., Cronica della Celebre ed Antica Petilia detta oggi Policastro, 1721-1723, f. 22.

[iv] Capitoli fatti tra la Ducal Corte et Gio. Ferrante Mendolara per li molina dela canosa e delle copati novamente comperati da detta Ducal Corte a cominciando dal mese di settembre l’anno 1592. ASCZ, Busta 60, anno 1595, ff. 218-219.

[v] ASCZ, Busta 433, anno 1693, ff. 9-12; Busta 402, anno 1693, ff. 10-14.

[vi] ASV, Rel. Lim. Bellicastren., 1745.

[vii] ASV, Rel. Lim. S. Severina., 1744.

[viii] ASV, Rel. Lim. S. Severina., 1747.

[ix] I fondi di Terrata e Camerligo alla metà dell’Ottocento erano stimati, il primo dell’estensione di 300 tomolate ed il secondo di 350. Beni appartenenti al monastero della Pace di Napoli, Carte Piterà, s.s.

[x] All’inizio del Seicento le due gabelle di Terrate e di Camerlingo erano situate nel tenimento della Rocca Bernarda; la prima “iuxta lo feudo grande di Sygismondo Rocca, iuxta la gabella del Cl.co Gio. Vincenzo Villirillo et iuxta lo fiume di Tacina”, la seconda “iuxta lo fiume di Tacina, iuxta le terre di Madamma Giovanna, iuxta lo feudo Grande, via publica mediante, iuxta la gabella di Termine Grosso, la gabella Carnelivare ed altri fini”. Copia autentica della Platea dei Beni della Abazia di S. Angelo in Frigillis, in Carte Piterà s.s.

[xi] ASV, Rel. Lim. S. Severina., 1747.

[xii] ASV, Rel. Lim. S. Severina., 1750.

[xiii] Documenti di archivi, in Siberene Cronaca del Passato per le Diocesi di Santaseverina – Crotone – Cariati, a cura di Scalise G. B., pp. 266-267.

[xiv] Russo F., Regesto, XI, 61392.

[xv] Documenti di archivi, in Siberene Cronaca del Passato per le Diocesi di Santaseverina – Crotone – Cariati, a cura di Scalise G. B., p. 498.

[xvi] ASCZ, Busta 1070, anno 1757, ff. 32-34.

[xvii] Russo F., Regesto, XII, 64286.

[xviii] ASCZ, Busta 181, anno 1665, f. 47.

[xix] ASCZ, Busta 696, anno 1764, ff. 16-22.

[xx] ASCZ, Busta 696, anno 1764, ff. 37-38.

[xxi] ASCZ, Busta 696, 1764, ff. 38v-39.

[xxii] Russo F., Regesto, XII, 66049.


Creato il 15 Marzo 2015. Ultima modifica: 4 Agosto 2024.

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