Il lino e l’inquinamento del fiume Tacina
Il lino fu coltivato nel Crotonese fin dai tempi antichi. La sua coltivazione fu praticata diffusamente su tutto il territorio, come attestano numerose testimonianze scritte e materiali. In una descrizione del territorio di Melissa della metà del Cinquecento si legge: “lo territorio de Melissa è bono fertile, et fertiliss.o, atto ad ogni sorte de massaria de grani, horgi, lini, fave, bambace, et ogni altra sorte de ligumi”.[i]
Da una visita pastorale, che l’arcivescovo di Santa Severina Alfonso Pisano compì in Roccabernarda all’inizio di giugno 1610, si apprende che l’arcivescovo entrato nella chiesa di Santa Sofia vi trovò ammassato del lino vecchio, che alcuni abitanti vi avevano riposto. Il Pisani dette l’ordine di condurlo fuori dal luogo sacro e per punire la temerarietà dei proprietari, che avevano scambiato la chiesa per un magazzino, in sua presenza lo fece bruciare.[ii]
In un apprezzo della città di Santa Severina della seconda metà del Seicento così è descritto il territorio: “consiste in terre seminatorie, erbaggi, oliveti, boschi di cerse e lecine, però poche vigne … Gli abitanti poi fanno lino, grano orzo, legumi d’ogni sorte, quali vettovaglie servono per loro e l’avanzo lo smaltiscono a forestieri”.[iii]
All’inizio del Settecento in territorio di Isola esisteva un luogo detto la “linata di Santa Barbara”, dove veniva portato il lino, dopo che era stato “scippato”.[iv] Anche in territorio di Crotone la coltivazione del lino era largamente praticata, anche se quasi sempre per uso domestico familiare ed in misura di molto inferiore rispetto al grano. Soprattutto nella pianura tra l’Esaro ed il Neto compare la “linusa” assieme al grano, alle fave, all’“orgio” ed ai “ciceri”.
Riferimenti alla coltivazione del lino sono presenti in molti atti ed inventari stilati da notai crotonesi. Nelle spese riguardanti la massaria del nobile Lelio Lucifero si legge: “A di 25 di maggio 1586 a Gio. Montileone ducati tre tari uno e grana cinque per pagare l’homini che scipparo lo lino”.[v] Tra i mobili lasciati agli eredi dal crotonese Scipione Calegiurio all’inizio del Seicento, troviamo che in “uno cascione di tavola vecchio”, vi erano “diece pise di lino, et sette altre pise di lino “era “acconciato infilato”,[vi] e tra i beni lasciati dal chierico Domenico de Lambrutis alla fine del Seicento, vi è “un giardino loco detto Lo Ponte d’Isari con sua torre e vignali uno de’ quali si ritrova sementato di tt.a cinque d’orzo e l’altro dentro detto giardino sementato di lino e fave in comune col giardiniere”.[vii]
Di solito il colono che prendeva in affitto un terreno seminava oltre al grano, all’orzo e alle fave anche alcune tumulate di linusa, ed accadeva che l’andamento del raccolto del lino seguiva quello delle altre coltivazioni. In un rendiconto dell’introito dell’anno 1715 dell’aristocratica crotonese Anna Suriano è annotato che: “Il lino sementato in d.a massaria (di Poerio) si perdè, come si persero tutti gl’altri”.[viii] Nel 1760 Giuseppe Micilotto affittò il territorio “Li Miccisi”, situato in territorio di Crotone, dal monastero di Santa Chiara di Cutro e dal cantore cutrese Domenico Bona e vi seminò 250 tumula di grano, 8 di linusa, 1 ed ¼ di fave e 3 di orzo. A causa della cattiva annata ricavò solamente 493 tumula di grano, 6 di orzo, 1 e ½ di fave e 3 di linusa e pise numero 29 di lino.[ix]
La lavorazione
Mentre la coltivazione del lino era opera degli uomini: “gli uomini si occupano quasi tutti alla coltivazione de’ grani, e dei lini”; la lavorazione nelle sue varie fasi era praticata dalle donne. Descrivendo il casale di Savelli e la terra di Verzino, il tavolario Giuseppe Pollio nel 1760 così si esprimeva: “Le donne parimenti son massare e da bene, che applicano a filare e tessere tele di lino, e panni di lana e a far calzette, pezzillo e cusciniere …”.[x]
All’inizio dell’Ottocento il viaggiatore Craufurd Tait Ramage notava, guadando presso la foce del fiume Tacina, che nel fiume “scorreva una considerevole quantità di acqua”. Aggiungeva: “fui sorpreso di trovare un gruppo abbastanza numeroso di donne, e, non vedendo nessun paese nelle vicinanze, chiesi da dove venivano. Mi indicarono un paese su nelle colline distante circa otto chilometri. Stavano candeggiando del lino e sembravano allegrissime quando io giunsi in mezzo a loro”.[xi]
Giovan Francesco Pugliese nel suo “Cenno sul comune di Crucoli” ricorda che gli abitanti sono “tutti quasi laboriosi, ed industri, versandosi principalmente alla semina de’ cereali, e non trascurando la coltivazione del lino”, ed aggiunge che le donne “mietono, e legano i manipoli, coltivano e preparano il lino; spiritose, e attive si distinguono fra le Italiane della contrada, e gareggiano se non superano le Albanesi”.[xii]
L’esportazione
La maggior parte della materia, che veniva prodotta nel “Marchesato”, era di solito sufficiente per l’uso ed il consumo locale, anche se non mancano documenti che provano sia il commercio[xiii] che l’esportazione, specie della “manna” di lino, cioè della parte migliore, specie dal territorio di Strongoli per opera e conto soprattutto del feudatario del luogo.[xiv]
Ancora alla metà dell’Ottocento le terre seminate a lino e cotone in territorio di Cirò erano stimate dell’estensione di circa 50 moggi, e sono segnalate estrazioni via mare di discrete quantità di semi di lino e di lino grezzo dagli imbarchi di Torretta di Crucoli, Baracca del Caricatoio di Cirò, Torre di Melissa e Purgatorio di Strongoli, dirette soprattutto verso Reggio, Castellamare e Napoli.[xv]15 In seguito la coltivazione decadde tanto che all’inizio del Novecento era quasi scomparsa, come si ricava da uno studio sulla valle del Neto: La “coltura del lino e della canapa in tempi non lontani veniva specie il lino, largamente e con molta competenza coltivata dalle popolazioni locali ed era in grande onore il telaio nelle nostre case”.[xvi]
Il lino e l’ambiente
Tra le varie fasi che si susseguivano dalla semina al consumo (seminare, nettare, sciuppare o scippare, trasportare il lino alla vurga, carrare il lino alla linata, riportarlo, scacciare, purgare, filare, tessere, ecc.), ciò che qui interessa particolarmente approfondire, per l’impatto che esercitò sull’ambiente, è la parte legata alla lavorazione della fibra. In particolare il processo che seguiva la raccolta, quando, sul far dell’estate, dopo alcuni giorni che le piante erano state estirpate, gli steli venivano sottoposti a macerazione per immersione in acqua stagnante, da una a tre settimane, allo scopo di sciogliere per fermentazione le lamelle pectiche, che legano la fibra.
I luoghi, dove avveniva di solito questa fase della lavorazione del lino, conosciuti volgarmente col toponimo “Vurghe”, erano soprattutto acquitrini alle foci dei fiumi e dei torrenti e ristagni naturali, o fatti dall’uomo, nei valloni e nelle anse. Di tale fatto ne abbiamo traccia fin dal Cinquecento. In una descrizione dei confini di Castellorum Maris, al tempo del conte di Santa Severina Andrea Carrafa, così il territorio è limitato: “Incipiendo à littore maris ubi ponit vallonus dittus de cucuriaci al(ia)s La burga de lo lino et per dittum vallonum ascendendo ferit ad molendinum Pauli Marrelli …”.[xvii] Ancora oggi il torrente Pilacca che separa il territorio di Isola da quello di Le Castella è conosciuto con il toponimo “La Vurga”. Numerosi altri toponomi sparsi per il territorio crotonese, come “Vurgarotunda”, “Vurgadanno”, ecc., ancora oggi ricordano quanto numerosi erano i luoghi dove veniva fermentato il lino e come erano numerosi e vasti i pantani ed i luoghi paludosi presenti presso i fiumi ed i torrenti del Crotonese.
Considerando che il ristagno dell’acqua d’estate nei pressi degli abitati fu una delle cause principali del diffondersi della malaria, si può immaginare, con l’aumento della coltura del lino nella prima metà del Settecento e l’estendersi dei luoghi dove avveniva la sua macerazione, come aumentò questo stato di malessere. Tale fenomeno è rilevato acutamente dal vescovo di Strongoli Ferdinando Mandarani (1741-1748), il quale descriveva la città di Strongoli come particolarmente esposta alle infermità. Egli individuava tra le cause il lento e paludoso torrente Brausio, che scorreva presso l’abitato. D’estate esso emetteva pestilenziali e micidiali esalazioni e tale situazione malsana si aggravata dall’agire degli stessi abitanti, in quando essi avevano cominciato a macerarvi il lino.[xviii]
La vallata del Tacina nel Settecento
Le descrizioni settecentesche di Cotronei mettono in risalto la salubrità dell’abitato ed i suoi prodotti principali che erano il grano, l’orzo, le fave, il lino, l’olio ed i latticini. Per Giuseppe Maria Alfano Cotronei è “terra, bagnata dai fiumi Tacina e Neti, che serve anche di termine alla Calabria Ultra; Dioc. di Santa Severina, feudo della casa Filomarino d’aria buona fa di popolazione 1378”.[xix]
Giovanni Vivenzio pochi anni prima, al tempo del terremoto del 1783, così lo descrive: “Intatti sono gli edifici di Cotronei; ed il suo territorio produce lo stesso che quello di Altilia”, cioè “I prodotti de’ campi sono vettovaglie, poco olio, e latticini”.[xx]
Sempre in quello stesso anno Andrea de Leone, dopo aver descritto la città di Policastro, così seguiva “Rimontando più suso, e curvando più verso l’istessa parte di grecolevante, sorge sul monte Cutronei, e più sotto Altilia, e più circa sei miglia lungi dal primo Roccabernarda non molto distante dal monte Clibano. Gli edifici del primo sono intatti: ed in Altilia, e in Roccabernarda picciolo fu il danno cagionato da’ tremnoti. Il primo ha 1024 cittadini. Altilia ne ha 140. E Roccabernarda 684. Tutta questa popolazione basta per aver cura de’ campi, i cui prodotti sono biade, poco olio, e latticini.”[xxi]
Una lite per l’inquinamento delle acque
Se nella media vallata del Tacina la coltivazione del grano fu senza alcun dubbio quella più importante e principale, estesa fu anche la coltivazione del lino, come evidenzia una lite sorta tra l’università di Cotronei e quella di Roccabernarda. La controversia, che aveva radici lontane, cominciò ad infiammarsi quando il 24 agosto 1738 il sindaco di Roccabernarda Gio. Pietro Giuliani, gli eletti e la maggior parte dei cittadini si erano riuniti in pubblico parlamento e, non più sopportando la triste situazione, nella quale erano costretti a vivere, avevano protestato, in quanto nel vallone di Torvole vi erano molte “vurghe di lino”.
Poiché l’acqua dalle “vurghe” si immetteva sul Tacina e ne infettava le acque, causava infermità agli abitanti di Roccabernarda. Per far cessare questa calamità, essi avevano fatto istanza all’agente del feudatario ma, non ottenendo giustizia, decisero che era ormai giunto il momento di investire della questione la Regia Udienza di Catanzaro.
All’inizio dell’estate successiva la stessa situazione si ripropose. Il primo luglio 1739 il sindaco di Roccabernarda Ferdinando Bernardi si presentava nella corte principale di quella terra ed in presenza del governatore e giudice di Roccabernarda e di Cotronei, Felice Cortese, dichiarava che gli era giunta notizia, che alcuni abitanti di Cotronei avevano intenzione di mettere a macerare il loro lino nel vallone di Turbule. Poiché l’acqua del vallone sfociava nel Tacina ed i cittadini di Roccabernarda erano soliti dissetarsi con l’acqua di quel fiume, non avendo altre fonti migliori, questo fatto avrebbe procurato un grave danno alla salute pubblica.
Il sindaco, a prova delle sue affermazioni, faceva presente che si sarebbe ripetuta la stessa situazione del passato, quando a causa di una “immissione furtiva” fatta dagli abitanti di Cotronei, molti abitanti di Roccabernarda avevano patito una infezione causata da un “morbo endemico di flussi di sangue e dissenteria”. Il sindaco concludeva, chiedendo alle autorità locali di proibire agli abitanti di Cotronei, di mettere a macerare il loro lino sul vallone di Turbule e nel fiume Tacina. In caso contrario avrebbe sporto querela criminale contro i delinquenti e sarebbe ricorso ad un tribunale maggiore ed anche al re.
Esaminata l’istanza, il governatore in quello stesso giorno stabiliva, che tutto il contenuto della protesta fosse notificato al sindaco ed ai governanti di Cotronei, affinché quei cittadini ne prendessero atto. Al tempo stesso decretò che, finché i Cotronellari non avessero opposto le loro ragioni e la questione non avesse trovato un suo esito, fosse proibito, sotto pena di un mese di carcere e di una multa di 50 ducati, di immettere i lini nel vallone e nel fiume.
Passati venti giorni, il sindaco di Roccabernarda doveva però constatare che nulla era mutato e doveva nuovamente protestare presso il governatore. Gli era infatti pervenuta notizia, che i cittadini di Cotronei avevano posto i loro lini a macerare nel vallone. Faceva inoltre notare che, poiché le acque dal vallone si riversavano nel Tacina, infettando le sue acque, già si vedevano i loro tristi effetti sulla salute dei cittadini. Diverse persone già soffrivano febbri e dissenterie. Reclamava pertanto perché si intervenisse prontamente e, ponendo fine ad ogni disquisizione, (non mancavano infatti “filosofi” che ritenevano che le acque rese pestifere dal lino erano addirittura medicinali!), ci si recasse alle vorghe e si levasse il lino. Se non si toglieva subito la causa dell’infezione, le infermità avrebbero ben presto colpito tutti i cittadini, compreso il governatore.
L’avvelenamento delle acque del Tacina, causato dai Cotronellari, sia con la macerazione del lino, che immettendo calce ed altre sostanze tossiche per la pesca, aveva già causato in passato molti morti ed ora molti altri avrebbero seguito la stessa sorte. Allarmato dal precipitare degli eventi, il governatore decideva di recarsi il giorno successivo, “21 luglio all’ora decima nona” sui luoghi sospetti assieme a tutta la curia, ai governanti di Roccabernarda e ad alcuni esperti.
Notificava perciò al sindaco ed ai cittadini di Cotronei la sua venuta e li invitava ad intervenire nel giorno e all’ora indicata. Il deciso intervento del governatore allarmò e suscitò le proteste sia del sindaco della terra di Cotronei Saverio de Diano che dell’erario Nicolò Cervino, i quali in quello stesso giorno presentarono delle istanze, nel tentativo di bloccare ogni intervento. Il primo affermò che con tale iniziativa si attentava ad un diritto antichissimo, in quanto fin dalla fondazione gli abitanti di Cotronei avevano sempre introdotto i loro lini nel fiume e nel vallone, senza che mai ci fosse stata una protesta da parte degli abitanti di Roccabernarda. Riguardo poi all’affermazione che le dissenterie e le altre malattie, che si manifestavano in Roccabernarda, fossero dovute al lino, tutto ciò era falso in quanto gli stessi morbi colpivano a Cotronei ed in altre città vicine, come anche in Napoli, “dove specialmente detto morbo dissenterico e flussi di sangue ne portano molti all’altro mondo”. Inoltre il lino non si trovava nel Tacina ma solamente nel vallone e poiché esso era per molti tratti secco a causa della siccità e non scorreva, le sue acque non potevano infettare il fiume, in quanto non vi si immettevano. Qualora ciò avvenisse, esse non avrebbero avuto alcun effetto sugli abitanti di Roccabernarda per la grande distanza, che separava i luoghi. Il sindaco di Cotronei concludeva chiedendo di non essere disturbato nello “ius possessorio”, in virtù del quale i cittadini di Cotronei da sempre potevano porre i lini nel fiume e nel vallone, diritto che era stato confermato anche di recente da un decreto dall’Agente generale del feudatario. Protestava, inoltre, perché veniva lesa la giurisdizione territoriale di Cotronei con l’entrata di gente di Roccabernarda.
A sostegno del sindaco di Cotronei l’erario e coadiutore Nicolò Cervino affermava che, proibendo ai cittadini di Cotronei di mettere i loro lini nel vallone e nel fiume, si sarebbe causato un grande danno al feudatario. Il feudo di Rivioti, che comprendeva sia il vallone che parte del fiume, sarebbe rimasto incolto e sfitto, qualora fosse stato proibito mettere a macerare il lino, in quanto non si sarebbe trovato alcuno, che volesse coltivare quelle terre. Chiedeva perciò che non si intervenisse e si lasciasse tutto come per il passato.
Le istanze del sindaco di Cotronei e dell’erario erano subito rigettate dal sindaco di Roccabernarda, il quale il giorno dopo, 21 luglio, sollecitava il governatore a porre fine ad ogni indugio, in quanto si trattava di vita e di morte di cittadini. Accusava poi i Cotronellari di fare “i sordi” e di portare in loro favore solo “racconti dell’orco e favole d’Isopo”, nel tentativo di guadagnare tempo. Il sindaco di Roccabernarda perciò incitava a portarsi alle vurghe incriminate e, trovandosi del lino immerso, toglierlo d’autorità. In quanto poi al fatto che i luoghi erano all’interno di un feudo, era certo che il Principe della Rocca Giovanbattista Filomarino, “come signore piissimo e Padre affezzionatissimo de’ suoi vassalli ed amante insieme del giusto”, non si sarebbe lamentato, in quanto si salvaguardava la salute dei suoi vassalli.
Come stabilito il 21 luglio 1739 il governatore con altri in comitiva si recò a visitare i luoghi sospetti del fiume Tacina e del vallone di Turvole. Trovò i lini nel vallone e, poiché il vallone era alquanto secco e l’acqua quasi non scorreva, ingiunse al sindaco di Cotronei Saverio de Diano ed ai cittadini di Cotronei, che dovessero togliere il lino dal vallone entro dieci giorni. Intimò quindi che in futuro essi dovessero fare le “gurghe” fuori dal vallone, in modo che i lini fossero posti in luoghi sicuri anche in tempo di pioggia; non potendo così le acque infestate riversarsi nel vallone e quindi nel fiume.
Il decreto, emesso dal governatore durante la sua visita sui luoghi, fu il giorno dopo impugnato dal sindaco di Cotronei e da coloro che avevano in fitto le terre feudali, i quali si rivolsero all’agente generale del feudatario Gregorio (?) Piterà. Essi accusarono il governatore di essersi accordato precedentemente col sindaco e con l’erario di Roccabernarda, in quanto aveva portato con sé un decreto già compilato e confezionato, prima ancora di visitare i luoghi. Essi lo dichiararono perciò nullo, perché attentava a diritti che da sempre godevano gli abitanti di Cotronei ed anche perché lo stesso agente generale, intervenendo due anni prima sulla stessa questione, dopo aver visto i luoghi e la distanza, aveva ordinato, nella “Visita Generale delli Stati”, che tutto rimanesse come per il passato.
Essi chiedevano perciò che il governatore di Roccabernarda e di Cotronei trasmettesse tutti gli atti ad un tribunale superiore e che nel frattempo non si innovasse niente, “così s’eviterà che le parti venissero all’armi”. La consonanza degli interessi degli abitanti di Cotronei, con coloro che avevano in fitto le terre feudali e con quelli tutelati dal rappresentante del feudatario convinse il 23 luglio 1739 l’agente generale del feudatario Piterà ad inviare da Castella un ordine a Nicola Guarasci, governatore in Cutro e giudice delle seconde cause delle terre di Roccabernarda e Cotronei, comandadogli di avocare la causa. Il giorno dopo fu emanato un decreto che stabiliva che tutte le carte, che riguardavano la controversia, fossero consegnate, in quanto la causa passava di diritto al tribunale superiore. Nello stesso tempo si sospendeva ogni ordine, che potesse perturbare la situazione esistente.
Da tribunale in tribunale
Il sindaco Ferdinando Bernardi e gli abitanti di Roccabernarda non si dettero per vinti. In virtù delle conclusioni del parlamento tenuto l’anno precedente, pochi giorni dopo si rivolsero alla Regia Udienza di Catanzaro, inviando un lungo memoriale, nel quale veniva esposta e riassunta tutta la vicenda.
Essi posero in evidenza come, per salvaguardare pochi e pessimi lini e per un utile privato di pochi carlini, non ci si curasse di mettere a repentaglio la salute e la vita di una intera popolazione. Si richiamava inoltre l’attenzione su quanto era stabilito dalla Costituzione del Regno a riguardo della salubrità. Nel capitolo sulla conservazione della salubrità dell’aria gli esperti della materia, prendendo coscienza di quanto fossero pestiferi i lini, avevano stabilito che questi dovessero essere tenuti a non meno di un miglio dall’abitato, in quanto il solo vapore che emanavano, rendeva l’aria infetta per tanto spazio. Se per il solo vapore si era stabilita questa precauzione, quali provvedimenti si dovevano prendere nei confronti degli abitanti di Cotronei che, coll’infusione e la putrefazione dei lini intossicavano l’acqua, che dovevano per forza bere i cittadini di Roccabernarda?
Si chiedeva pertanto che la causa fosse tolta dal tribunale delle seconde cause e trasmessa al tribunale della Regia Udienza di Catanzaro e che rimanesse valido il decreto emanato dal governatore e giudice di Roccabernarda, che intimava agli abitanti di Cotronei nel tempo stabilito di togliere il ino e di non immetterne altro. Questo anche per scongiurare che trattandosi di salvaguardia di salute le popolazioni non venissero “a fatti d’armi”. Preso atto del contenuto del memoriale, la Regia Udienza di Catanzaro il 28 luglio 1739 ordinava ai tribunali delle prime e delle seconde cause di inviare entro quattro giorni tutti i singoli atti in originale in Regia Causa.
I giorni passavano e la situazione rimaneva inalterata. Il sindaco, gli eletti ed i cittadini di Roccabernarda decisero allora di ricorrere al re Carlo III di Borbone, inviando una supplica. Essi fecero presente la triste situazione in cui si trovavano ed il fatto che, nonostante gli ordini emanati dalla corte locale e le pene previste per i trasgressori, gli abitanti di Cotronei “senza timore di Dio e della giustizia”, continuavano imperterriti ad avvelenare le acque. Essi chiesero un deciso intervento in modo che in avvenire nessuno potesse più mettere i lini nel vallone e nel fiume. Finalmente il 22 agosto 1739 un ordine del re sollecitava il Preside della Regia Udienza di Catanzaro ad intimare agli abitanti di Cotronei “di non mettere il lino nel Tacina per i perniciosi effetti che producavano alla pubblica salute”. Una lettera successiva, in data 16 settembre 1739, riferendosi alla questione della lite sui lini, ci informa che dopo l’intervento del re il Regio tribunale stava per fare una “spedita giustizia”, che però per essere eseguita in luogo si aspettava che fosse inviata una persona, che aiutasse ad eseguirla, in quanto si trattava di salute pubblica, che in tutti i modi era stata messa a repentaglio “dalla capricciosa gente de Cotronei”.[xxii]
Il problema dell’acqua
Quanto all’inizio del Settecento il problema dell’acqua fosse di vitale importanza per i paesi della vallata del Tacina è messo bene in evidenza dal Mannarino, il quale nella sua “Cronica” afferma che il suo arrivo aveva reso sana la città e trasformato tutto il territorio circostante in giardini ed orti meravigliosi. Così poteva affermare che i cittadini potevano dissetarsi “perche anno l’acqua alla muraglia della città, e le fontane magnifiche dentro” e che “l’influenza benigna, e salutare dell’acqua, à reso Policastro un Paradiso terrestre”.
Ciò era avvenuto per opera di Carlo Caracciolo, il quale con grande spesa aveva portato l’acqua “per rupi, e coste di monti alpestri, e distupevoli”, utilizzando “artifizii di ponti di legname fatti à scifille … (così) che per questo singolar benefizio non solo si è affatto purgata l’aria, che per questa parte era un po’ grave a causa della miniera di quelle pietre, che già descrissi, quali infocavansi, e per essersino vicine da cento passi alle mura di d.o castello caggionavan dolori continui di mole, che ora son cessate affatto. Oltre che certi anni s’accendea pure una febre pestifera nel mese di agosto, che parea un’epidemia di morbo cronico e serrava case intere in detta città, che ora ne sta per divina misericordia assolutamente libera e tutti … dicono, e conchiudono che sia un miracolo dell’acqua che à temperato l’aria”.[xxiii]
Note
[i] ASN, Fondo Pignatelli Ferrara, Fasc. 51 bis, Prat. 100, f. 2v. Sempre nello stesso periodo tra le spese sostenute dall’università di Melissa troviamo l’acquisto di “due pise de lino per darle alla femina delo cuntatore” da Cola Russo per carlini 12. ASN, Conti Comunali, Fasc. 199/5 (a. 1561), f. 6.
[ii] AASS, Roccabernarda – Visitatio, anno 1610, 20A.
[iii] Un apprezzo della città di Santa Severina, in Siberene, Cronaca del Passato per la Diocesi di Santa Severina, p. 123.
[iv] ASCZ, Busta 663, anno 1730, ff. 122-123r.
[v] ASCZ, Busta 108, anno 1614, ff. 193-211.
[vi] Nel magazzino degli eredi Calegiuri vi erano: “grano tumula cinquanta et orgio tumula trenta, ciceri rumula doi, linusa tumula sei”, mentre “dieci salmate fra maijsi et scigature” erano nella gabella detta “la Volta d’Armeri”. ASCZ Busta 113, anno 1614, ff. 68-71.
[vii] ASCZ, Busta 497, anno 1701, f. 78; Busta 496, anno 1702, f. 58.
[viii] ASCZ, Busta 1342, anno 1761, ff. 33-36.
[ix] ASCZ, Busta 1342, anno 1761, ff. 33-36.
[x] ACS, Pollio G., Apprezzo del feudo di Verzino (1760), pp. 86, 124.
[xi] Ramage C.T., Viaggio nel regno delle due Sicilie, De Luca 1966, p. 62.
[xii] Pugliese G. F., Descrizione ed Historica narrazione di Cirò, Vol. II, pp. 255, 264.
[xiii] Nel maggio 1670 attracca al porto di Crotone la tartana del patrone Antonio Icarti. Era partita nel marzo precedente da Malta e aveva un carico composto da “Coyra in pelo, lino, riso, manna di lino et altre minutaglie come sonno berdate, calsecti fortani, selvetti et altre coselle”. ASCZ, Busta, 253, anno 1670, f. 47.
[xiv] Nel 1695 i patroni Gio. Bova di Messina e Paulo Cafioti noleggiano le loro feluche a Gioseppe Morisco e Domenico Rogano, i quali fanno imbarcare manna nella marina di Strongoli. La manna dovrebbe essere portata a Livorno e con il ricavato il Morisco ed il Rogano avrebbero dovuto comprare della merce, da riportare con le stesse feluche nella marina di Strongoli. Salpate dalla marina di Strongoli, una delle due barche va contro gli scogli del Capo delle Colonne “e si fece in mille pezzi”. Tuttavia, la nave superstite proseguì con il suo carico di manna verso Livorno “non ostante che il S.r D. Michele Pignatelli l’havea inviato imbasciata nel Capo Colonne che con il resto di detta manna fossero andati in Messina”. ASCZ, Busta 470, anno 1697, f. 85.
[xv] Pugliese G. F., Descrizione ed Historica narrazione di Cirò, Vol. I, p. 47; Vol. II, pp. 48-58.
[xvi] Siniscalchi R., La Valle del Neto, Opere Pubbliche, Vol. III, 1933.
[xvii] AVC, Reintegrazione dei feudi e dei beni di Andrea Carrafa fatta dal giudice Francesco Jasio, (Castellorum Maris), 1520, f. 5.
[xviii] “Prope fluvius excurrit, quem Brausium vocant, isque lentus, et lacunosus, qui aestate graves, crassosque emittit vapores, humanis corporibus infestos. Quod malum adaugent etiam ipsi cives, dum linum in eo macerare consueverunt”. ASV, Rel. Lim., Strongulen., 1747.
[xix] Alfano G. M., Istorica descrizione del Regno di Napoli diviso in dodici provincie,1795, p. 99.
[xx] Vivenzio G., Istoria e teoria de’ tremuoti, Napoli 1783, p. 329.
[xxi] De Leone A., Giornale, e notizie de’ tremuoti accaduti l’anno 1783 nella Provincia di Catanzaro, Napoli 1783, p. 135.
[xxii] ASCZ, Reg. Ud. CZ Fasc. XX (1739).
[xxiii] Mannarino F. A., Cronica della celebre ed antica Petelia detta oggi Policastro, manoscritto, ff. 84v -85, 103v.
Creato il 14 Marzo 2015. Ultima modifica: 9 Luglio 2024.
Meravigliosa ricostruzione storica. Ottima ed accurata ricerca d’archivio. Complimenti dalla Sicilia, da Milazzo, nel cui circondario alle soglie del Settecento si facevano macerare i lini nel fiume Mela. Anche qui problemi di inquinamento.
La ringrazio per la sua attenzione e per l’informazione che ci fornisce, e la saluto cordialmente. Pino Rende