Consumo e produzione di riso nel Crotonese
Il Fiore alla fine del Seicento, trattando delle biade, afferma: “Ella non è una, sono più spezie de’ Frumenti, apparecchiate all’Umane necessità dalla natura, grano, saligine, farro, secala … miglio, riso, avena, luppini, ed in bontà fruttano nella Calabria”.[i]
Nel Seicento non abbiamo alcuna notizia riguardante la coltivazione di questo cereale nel territorio crotonese e sappiamo che il riso aveva un ruolo marginale nell’alimentazione dei suoi abitanti. Rari sono i documenti che lo citano. Non essendo una produzione del luogo, esso era importato. Più che come un alimento di uso comune il riso era allora usato come spezia, per confezionare dolci, per medicamento,[ii] e dai pittori come collante e addensante.[iii]
Il riso, il pepe, lo zucchero, lo zafferano, la cannella, le mandole e l’incenso erano acquistati dagli “aromatari” di Crotone, dalle imbarcazioni che approdavano al porto. I principali fornitori provenivano da Malta e da Messina, dove vi erano gli empori di questi alimenti.
Un atto del notaio Pelio Tiriolo, rogato in Crotone il 16 maggio 1670, documenta il commercio del riso nell’Ionio. Da esso apprendiamo che la tartana “Muzza” del patrone maltese Antonio Icarti, “Sant’Anna e L’anime del Purgatorio”, con Baldassarro Andro di Malta nocchiere, Stefano Salvatore di Malta timoniere ed alcuni marinai, salpò da Malta in un giorno di marzo dell’anno 1670 con il suo carico di “cojra in pelo, lino, riso, manne di lino e altre minutaglie come sonno berdate, calsetti fostani, salvietti et altre coselle minute”.
Attraccò dapprima ad Augusta, dove vendette un po’ di riso, del telame ed altre piccole merci, poi andò alla volta di Messina dove vendette una parte di riso, tela, un po’ di lino e dei calzetti. Ripreso il mare, il giorno di Pasqua una “borrasca di venti” la spinse fino a Siracusa, da dove il giorno dopo un’altra “borrasca con venti di mezzi giorni e libici” la portò a Crotone.
Fermatisi alcuni giorni per smaltire un po’ di merce, al tramonto del 16 maggio col bel tempo riprese il viaggio per Taranto e Gallipoli. Giunta a notte fonda sopra il capo dell’Alice, i marinai udirono delle “botte” di remi e affacciatisi alla “murata” scorsero due bastimenti che non riuscirono ad identificare “se furno galeotte o lancie”. Come videro che si erano fatti così vicini che quasi “saliano gente sopra”, abbandonarono la tartana con lo schifo e per la fretta “non hebbero tempo manco salvarsi i loro vestiti”. Dei due bastimenti, uno restò con la tartana e l’altro li inseguì. “Ma per esser stato scuro scapparno et dallà un poco hanno inteso che sopra detta loro tartana disparavano colpi d’archibuggiate et questa mattina sono venuti in questo porto de Cotrone”.[iv]
Di solito i mercanti si accordavano con un patrone di barca e stipulavano tra loro un “instrumento di Società di andare a negotiare et vendere le mercantie”, che essi acquistavano da un fornitore con sede a Messina o Malta con un contratto a “guadagno”.[v]
Il 21 giugno 1657 in Crotone, il patrone di barca Domenico Putorti, Francesco Borrello e Domenico Soloma della città di Messina e Francesco Montealbà, Josepho Galluzzi e Joanne Bruno Civi della città di Reggio, dichiarano di essere costituiti in società e nel mese di maggio 1657 di avere acquistato alcune “merci vendibili” nella città di Messina da mastro Domenico d’Oliva di Messina, per andarle a rivendere in altre città, pagando all’Oliva parte del prezzo e “per il prezzo non pagato, pattuito, che tiri la parte del guadagno”.
Giunti a Crotone, avevano trovato che due casse contenevano due cantara di zucchero di pessima qualità e “di tale estraordinaria nigrezza, bruttezza, e mollezza”, che nessuno voleva acquistare. Essi volevano vendere lo zucchero a ducati sessanta il cantaro, ma nessuno a quel prezzo voleva acquistarlo. Alcuni compratori rifiutarono di acquistarlo, altri lo volevano pagare ad un prezzo inferiore. Fattolo vedere agli uomini probi ed esperti Ar. M. D. Joanne Domenico Zurlo e Leonardo Vetero, per non riportarlo indietro con pericolo di perderlo per mare, essi sono costretti a venderlo a ducati quattro meno un quarto il rotolo. Tra i soliti acquirenti aromatari di Crotone, Joanne Domenico Cropalate voleva comprarne rotola dieci, ma vistolo non ne comprò ed Alonzo Pizzuto ne comprò rotola dodici ma invece che al prezzo di carlini sei, come è solito pagarsi, lo pagò alla ragione di carlini cinque il rotolo.[vi]
Il riso come alimento
Nel Settecento il riso, oltre che per confezionare dolci,[vii] entra come alimento importante nella dieta di monaci ed ecclesiastici, i quali si cibano di questo cereale durante i giorni penitenziali di digiuno e astinenza e nella Quaresima, in quanto in tali giorni è proibito mangiare carne, uova e latticini sotto pena di peccato mortale. Allora il riso era parte del cibo della “mattina”, mai della sera, ed era associato di solito al pesce (baccalà, sarde, ecc.), ai legumi (fave, fagioli, ceci), ecc. I seminaristi di Santa Severina ed il loro rettore durante la Quaresima ne facevano un uso quasi quotidiano.[viii]
Anche le clarisse del monastero di Santa Chiara di Crotone lo usarono. Nel 1768/69 le monache erano tredici. Il loro vitto risulta vario, ricco di spezie e raffinato, dove sono presenti alcuni prodotti provenienti anche da fuori regione. Tra le spese fatte dal luglio 1768 al maggio 1769 dal procuratore del monastero, il canonico D. Francesco Torrone, troviamo che il 29 ottobre 1768 egli acquistò 40 rotoli di riso da Tomaso Paturzo spendendo 3 ducati e grana 60.[ix]
Lo stesso discorso vale per le riserve del castello di Crotone. Con l’avvicinarsi della guerra nell’aprile 1733 il castello di Crotone è rifornito di viveri. Oltre a lardo, grano, sale, olio, vino, legna, aceto, formaggio pecorino e biscotto, vi sono anche 9 cantara e 21 rotoli di riso, che sono acquistati a ducati 8 il cantaro. Era castellano il colonnello Francesco de Mayans.[x]
Riso e malaria
Con l’aumento del consumo del riso si estesero gli acquitrini. La presenza di risaie nei pressi degli abitati allarmava la popolazione, in quanto si credeva che i vapori e miasmi, che emanavano i ristagni delle acque, favorissero l’espandersi della malaria.
Mentre si allargavano le proteste contro le risaie, per salvaguardare questa produzione, un decreto del Regno di Napoli, emanato il 16 luglio 1763, cercò di regolare la costruzione di una risaia, ponendo alcuni vincoli a salvaguardia della salute pubblica: La “Semina de’ Risi sia proibita nella Distanza di due miglia da’ Luoghi abitati, le quali debban misurarsi per gradi, ed a linee dirette, non già obblique. Se tra i Luoghi abitati, ed i Luoghi di semina si framezzano Monti sollevati, ed eminenti, possa tolerarsi distanza minore di due miglia”. D. 16 luglio 1763.[xi]
La Prammatica pur ponendo dei limiti, lasciava ampi spazzi di tolleranza alle autorità incaricate al controllo. Era ad essi lasciata la facoltà di stimare l’incidenza dei monti o delle colline interposte tra la risaia e i luoghi abitati, l’ampiezza della vallata e la natura del fiume. In tal modo spesso i coltivatori complici i periti riuscivano ad evitare l’estirpazione.
Nella media vallata del Tacina la coltivazione del grano fu senza alcun dubbio quella più importante e principale, però estese furono anche le coltivazioni di orzo, delle fave e del lino; quest’ultima fu fonte di ricorrenti liti, in quanto era inquinante e apportatrice di malaria, come evidenzia una lite sorta tra l’università di Cotronei e quella di Roccabernarda.
La controversia, che aveva radici lontane, cominciò ad infiammarsi quando il 24 agosto 1738 il sindaco di Roccabernarda Gio. Pietro Giuliani, gli eletti e la maggior parte dei cittadini si erano riuniti in pubblico parlamento e, non più sopportando la triste situazione, nella quale erano costretti a vivere, avevano protestato, in quanto nel vallone di Torvole vi erano molte “vurghe di lino”. Poiché l’acqua dalle “vurghe” si immetteva sul Tacina e ne infettava le acque, causava infermità agli abitanti di Roccabernarda.
Per far cessare questa calamità, essi avevano fatto istanza all’agente del feudatario ma, non ottenendo giustizia, decisero che era ormai giunto il momento di investire della questione la Regia Udienza di Catanzaro.[xii] Con la costruzione di alcune risaie ed il relativo ristagno delle acque lungo le rive del fiume peggiorerà ulteriormente lo stato della salute degli abitanti dei paesi della vallata. Le proteste delle popolazioni e le inondazioni del fiume determineranno la chiusura delle risaie.
Il “riso acquaiolo” del Tacina
Una indagine condotta nel 1832 avente per oggetto la costruzione di una risaia sulla riva destra del fiume Tacina in territorio di Policastro, ci informa sulla coltivazione del riso nella vallata.
Da essa apprendiamo che nella riva sinistra del fiume, tra le località di Monumenta (Niffi) e “Petraro”, vi erano le risiere di Pasquale Larosa, del Sig.r Mauro, di Sapece e dell’arciprete Ricci; mentre sulla riva destra del fiume, in località Jannello, vi era quella di Venturi e a Tofilica quella di Domenico Mingaggio di Policastro.
Quest’ultima era stata costruita e coltivata illegalmente in una parte di terreno che apparteneva al possidente Pantaleone Tronca di Policastro. Nel 1832 Domenico Mingaccio fu denunciato per contravvenzione contro la salute pubblica, per aver coltivato “riso acquaiolo” in località Tofilica “senza uniformarsi alle prescrizioni del Signor Intendente della Provincia de’ dodeci Luglio, e tredici Agosto mille ottocento trenta”, ma fu condannato il 31 agosto 1832, solo per non aver chiesto l’autorizzazione, in quanto la coltivazione non fu ritenuta “nociva alla salute pubblica degli abitanti, e passeggieri de’ paesi e strade limitrofe”.
I “periti probi ed intelligenti” incaricati a verificare se la risaia fatta nel terreno del Tronca in contravvenzione fosse nociva alla salute degli abitanti dei paesi vicini ed ai passeggeri della vicina strada, “tanto sotto i rapporti di prossimità quanto per la località ed influenza de’ venti”, dichiararono “che la risaia in parola riguardata sotto tutti i rapporti non pregiudicava mica la salute pubblica, mentre questa veniva garantita da tutte le circostanze prevedute nell’articolo sotto titolo primo del regolamento generale di Servizio Sanitario”.
Il giudice pur accertando la negligenza del sindaco di Policastro, che non ne aveva segnalato la costruzione, e preso atto delle dichiarazioni dei periti, non ordinò la distruzione della risaia, in quanto “farebbe lo stesso che avvilire l’industria agricola, senza ottenere lo scopo salutare”.
L’anno dopo il Mingaccio forte della sentenza e della perizia, richiese il permesso, che gli fu accordato, nonostante le proteste delle popolazioni per la malaria che arrecava. L’undici aprile 1833 il consigliere provinciale M. Berlingieri a nome del Sotto Intendente di Cotrone cercava di rassicurare il Sindaco di Policastro avvisando che, pur autorizzando la coltivazione del riso in detto luogo, questa “deve usarsi con larghi solchi, in modo da poter ricevere le acque, ed avere il necessario scolo, per evitarsi così ogni nocevole esalazione… voglia diligentemente e con rigore vegliare onde la coltura del riso si esegua, non secondo il solito con aiuole arginate ma a grandi solchi perche le acque non possono ristagnare, ma ricevono il necessario scolo”.
Il luogo
Nel 1834 il Mingaccio rinnovò la richiesta, allegando gli stessi documenti dell’anno precedente, ma dopo “aver speso immense somme negli travagli”, fu impedito. Il Sotto Intendente.di Cotrone il 9 giugno 1834 aveva avvisato l’intendente della Calabria Ultra 2.a di Catanzaro, che il Decurionato di Policastro aveva dato parere negativo al rinnovo della risiera. Da una nuova indagine infatti, era risultato che la parte del fondo Tofilica, dove il Mingaccio aveva coltivato il riso nell’anno precedente ed aveva intenzione di coltivarlo nuovamente, era distante da Mesoraca e Policastro miglia tre meno un ottavo d’aria, da Roccabernarda un miglio e tre quarti e da San Mauro un miglio meno pochi passi.
Essa era limitata dal fiume Tacina e tra la detta parte di terreno e San Mauro e Roccabernarda vi s’interponeva il solo monte Fuscaldo, mentre tra la stessa e gli abitati di Mesoraca e di Policastro, vi s’interponevano delle piccole colline. Per quanto riguardava i venti; quelli di est e di nord potevano portare le esalazioni pestifere tanto a Mesoraca che a Policastro; quelli da sud a San Mauro e a Roccabernarda, non trovando ostacolo nella catena del monte Fuscaldo e nella corrente del fiume Tacina.
Il 12 luglio 1834 il Sotto Intendente di Cotrone informava l’Intendente di Calabria Ultra 2.a, che il sindaco di Policastro aveva già intimato l’ordine di divieto a Domenico Mingaccio.
Le due perizie
La prima perizia della quale si faceva forte il Mingaccio fatta dai “periti probi e intelligenti” aveva certificato che la risiera di Tufilica si trovava a miglia nove da Policastro e a miglia undici da Mesoraca, mentre quella dell’arciprete Ricci era miglia sette da Rocca e la risiera di Sajace a miglia quattro da San Mauro. Questa misurazione tuttavia era relativa al percorso viario.
Nella seconda perizia del 1834 la risiera di Tofilica risultò distante in linea retta da Mesoraca e Policastro miglia tre meno un ottavo d’aria. Da Roccabernarda un miglio e tre quarti. Da San Mauro un miglio meno pochi passi. Perciò non rispettava il vecchio decreto del 16 luglio 1763.[xiii]
Note
[i] Fiore G., Della Calabria Illustrata, I, 268.
[ii] Tra le spese annuali del convento domenicano di Santa Caterina di Simeri del 1650 vi è “Per pipe zafarana cannella amendoli, zuccaro et riso copeta si sono spese in tutti sei anni docati 22- 1 – 5 vengono a raggione di carlini vinti, l’anno”. ASV, S.C. Stat. Regul. Relationes, 25, f. 748v.
[iii] Il pittore Leonardo Vetere aveva la sua bottega in piazza, bottega che Lupo Leto aveva comprato da Alfonso Giuliano. Nell’”apoteca” vi erano: “Una scatola con due r.la di confett.ne, un’altra con cinq.e r.la inc.a di pepe, un’altra piena di talco, sei altre piene di terra di colori, quattro mazzi di candele bianche d’incesare, venti r.la di piombo in virghe, otto garaffe di vitro piene dacqua coi fiori, diciotto panetti di Bianchetto, dentro uno stipo seù riposto, diece albaretti di conserve, dentro un altro riposto dui orinali pieni di terra di colori, cinq. altri albari grandi di conserve, un mazzo di carta di scrivere, quattro r.la di virziò rosso, sette librelle di bambace, dudici altre scatole di legno vacue, una scatola tonda con venti r.la di grano riso una bilancia grande di rame, un’altra piccola con li pesi dottone et onze quattro di zafarano dentro una scatola di stagno”, ASCz. Not. Protentino F.G., B.
[iv] ASCz, Not. Tiriolo Pelio, B. 253, fasc. 1670, ff. 46v-47r.
[v] ASCz, Not. Antonio Varano B. 338, 11.X. 1702, fl.78v. Il patrone francese Giusto Camarel si associa con Raimondo Isalena e Giacomo la Carvana e stipolano a Messina un “Istrumento di Società di andare per tutta la Calabria a negotiare et vendere alcune mercantie”. La merce è imbarcata sopra la tartana “La Madonna del buon viaggio” patronizzata dal Cameret.
[vi] ASCz, Notaio Hieronimo Felice Protentino, B. 229, ff. 92r – 93.
[vii] I Minimi del convento di Roccabernarda solitamente in ottobre / novembre di ogni anno acquistavano a Crotone due o tre rotoli di riso assieme al pepe, allo zucchero, alla cannella, incenso e alle mandole (ottobre 1734: tre rotoli di riso 0- 1 – 3; mezzo rotolo di pepe 0 – 2 – 10; un rotolo di zucchero 0 – 1 – 10; cannella 0 – 1 – 10; un rotolo e mezzo di mandorle 0 – 1 – 1; Novembre 1735: due rotoli di riso; due di mandorle; un quarto di pepe; un oncia di cannella e un rotolo di zuccaro, …”. ASCz, Cassa Sacra, Libri Antichi e Platee, 80/12.
[viii] AASS. 067 A. Seminario Arcivescovile – Amministrazione 1722 – 1745, Libro di Esito in tempo della Procura principiata da D. Simone d’Alessandro per il V.le Seminario di Santa Severina.
Esito per le spese cibarie cotidiane.
Gennaio 1723
A 1 Venerdi la matt.a menestra verde, faggioli, per il Rettore due ova, la sera insalata, semola e olivi.
A 2 Sabbato matt.a menestra verde, ceci per il Rettore due ova, la sera insalata, pan cotto e noci.
A 3 Dom.ca matt.a menestra verde, carne di porco, la sera insalata, tagliolini e cacio.
A 4 Lunedi matt.a menestra verde, carne di porco, la sera insalata, semola e cacio.
A 5 Martedi matt.a menestra verde, carne di porco, la sera insalata, pan cotto e cacio.
A 6 Mercordi matt.a menestra verde faggioli e per il Rettore due ove, la sera insalata, tagliolini e olivi.
A 7 Giovadi matt.a menestra verde, carne di porco, la sera insalata pan cotto e olivi.
A 8 Venerdi matt.a menestra verde, ceci e per il Rettore due ova, la sera insalata, semola e castagne.
A 9 Sabbato matt.a menestra verde, fave e per il Rettore due ova, la sera insalata, pan cotto e noci.
A 10 Dome.ca matt.a menestra verde, carne di porco, la sera insalata, tagliolini e cacio-
A 11 Lunedi matt.a menestra verde, carne di porco, la sera insalata semola e castagne, si partì il coco.
A 12 Martedi matt.a menestra verde, carne di porco, la sera pan cotto, insalata e noci.
A 13 Mercordi matt.a menestra verde, ceci, la sera insalata e per il Rettore due ova, tagliolini e castagne.
A 14 Giovedi matt.a menestra verde,carne di porco, la sera insalata, semola e cacio. S’aggiunsero alle spese tre fabricatori.
A 15 Venerdi con li medemi fabricatori matt.a menestra verde, ceci e per il Rettore due ova e per li fabricatori olivi e cacio, la sera insalata, pan cotto e castagne e vino per due giarri per li fabricatori.
A 16 Sabbato matt.a menestra verde, cacio per tutti, olivi e castagne, la sera tagliolini, noci e per il Rettore due ova.
A 17 Dom.ca matt.a menestra verde, carne di porco, la sera semola castagne
A 18 Lunedì matt.a menestra verde, carne di porco, la sera pan cotto e cacio.
A 19 Martedi matt.a menestra verde, carne di porco, la sera tagliolini, noci e castagne.
A 20 Mercordi matt.a menestra verde, tagliolini, la sera pan cotto e castagne e per il Rettore due ova.
A 21 giovedi matt.a menestra verde, carne di porco, la sera semola e cacio.
A 22 venerdi matt.a menestra verde, pesci, la sera tagliolini e pesci, entrò il coco novo.
A 23 Sabbato matt.a menestra verde, pesci, la sera pan cotto pesci.
A 24 Dom.ca matt.a menestra verde, carne di porco, la sera tagliolini, noci.
A 25 Lunedì matt.a menestra verde, carne di porco, la sera semola e cacio.
A 26 Martedi matt.a menestra verde, carne di porco del seminario, la sera pan cotto e castagne.
A 27 Mercordi matt.a menestra verde, carne di porco del seminario, la sera tagliolini e noci.
A 28 Giovedi matt.a menestra verde, carne di porco del seminario, la sera pan coptto e castagne.
A 29 Venerdi matt.a menestra verde, faggioli e olivio, la sera tagliolini e noci.
A 30 Sabbato matt.a menestra verde ceci e castagne, la sera semola e castagne e per il Rettore due ova.
A 31 Dom.ca matt.a menestra verde, carne di porco del Seminario, la sera tagliolini e cacio.
Febraio 1723
A 1° Lunedì menestra verde, carne di porco del seminario, sera pan cotto e castagne.
A 2 Martedì menestra verde carne di porco del seminario, sera tagliolini e noci.
A 3 Mercoledì menestra verde, carne di porco del seminario, sera semola e noci.
A 4 Giovedì menestra verde, carne di porco, sera tagliolini, cacio castagne
A 5 venerdì menestra verde, ceci; per il Rettore due ova, sera semola e castagne, per il Rettore due ova.
A 6 Sabbato menestra verde faggioli; per il Rettore due ova, sera pan cotto e cacio.
A 7 Domenica matt.a menestra verde, carne di porco, sera tagliolini e cacio.
A 8 Lunedì menestra verde, carne di porco, sera gelatina, pan cotto e salsiccia.
A 9 Martedì menestra verde, carne di porco, sera salsiccia tagliolini e castagne.
A 10 Mercoledì (Ceneri) menestra verde, fave e cacio, sera castagne, olive.
A 11 Giovedì menestra verde, faggioli e tagliolini, sera noci e castagne.
A 12 Venerdì menestra verde pan cotto e ceci sera olive e noci.
A 13 Sabbato baccalà, ceci e semola, sera castagne e noci.
A 14 Dom.a baccalà, faggioli e riso. Sera tagliolini e castagne,
A 15 Lunedì fave pan cotto e ceci sera olivi e noci.
A 16 Martedì baccalà, riso, minestra verde gr. 3 sera olivi e castagne.
A 17 Mercordì cocozza ceci tagliolini sera olivi e noci.
A 18 Giovedì ceci, baccalà faggioli, sera castagne.
A 19 Venerdì fave tagliolini, cicercola sera olivi e noci e per il Rettore tre sarde salate.
A 20 Sabbato semola, ceci e pan cotto sera castagne e per il Rettore tre sarde salate.
A 21 Dom.a riso e baccalà sera tagliolini e olivi e castagne e per il Rettore tre sarde
A 22 Lunedì fave pan cotto e ceci e per il Rettore tre sarde salate sera olivi e fichi secchi.
A 23 Martedì Tagliolini, faggioli e baccalà e due sarde salate per il Rettore, sera noci e castagne.
A 24 Mercordì menestra verde, fave e ceci e per il Rettore tre sarde salate, sera olivi e castagne.
A 25 Giovedì riso, cocozza, e baccalà, sera noci e per il Rettore due sarde salate.
A 26 Venerdì fave, faggioli e pan cotto e per il Rettore tre sarde salate. Sera olivi e noci.
A 27 Sabbato cicercola, tagliolini e riso e per il Rettore tre sarde, sera castagne e fichi secchi.
A 28 Dom.ca riso e baccalà, sera tagliolini ed olivi e per il Rettore tre sarde.
Marzo 1723
A 1°Lunedì fave, tagliolini e pesce sera olivi e noci.
A 2 Martedi riso, ceci e pesce sera castagne
A 3 mercordì pan cotto, faggioli e pesce sera castagne e olivi.
A 4 Giovedì tagliolini, riso, pesce sera noci e fichi secchi
A 5 Venerdì semola, fave e faggioli e per il Rettore tre sarde salate, sera castagne e olivi.
A 6 Sabbato pan cotto, faggioli e pesce, sera castagne.
A 7 Domenica cocozza, pesce, sera tagliolini e fichi secchi.
A 8 Lunedì baccalà, fave e olivi sera castagne.
A 9 Martedì ceci, riso, faggioli et il Rettore tre sarde salate sera noci ed olivi.
A 10 Mercordì pan cotto, baccalà e cicercola sera castagne.
A 11 Giovedì fave, riso e pesce sera noci.
A 12 Venerdì cicercola, tagliolini e pesce sera olivi e castagne.
[ix] AVC, 1768 e 69 Esito per il Ven.le Monastero di S. Chiara Gov. Il Can.co D. Francesco Torrone, f. 11.
[x] Copia Auth.a delle Spese fatte per la guerra e bonificati l’atrassi del 1734 dell’Un.tà di Cotrone. ASCz, Not. Pelio Tirioli, B. 665, f.lo 1738, ff. 129 – 134.
[xi] Dizionario delle leggi del Regno di Napoli, Napoli 1788, t. IV, p. 17.
[xii] ASCz, Reg. Ud. CZ Fasc. XX (1739).
[xiii] ASCz, Intendenza di Calabria Ulteriore seconda, Sanità, b. 1, fasc. 26, anno 1834.
Creato il 13 Dicembre 2020. Ultima modifica: 13 Dicembre 2020.