La vigna e la vite nella Valle del Tacina. Alcune caratteristiche e particolarità
In occasione dei patti stabiliti tra i signori di un territorio ed i coloni che lo avrebbero abitato, la casa e la vigna erano ritenuti dalle parti, i beni indispensabili all’insediamento: entrambi, infatti, avrebbero reso possibile la sussistenza degli uomini e delle loro famiglie nelle nuove condizioni.
In quanto tali, questi stabili figurano ricorrentemente nei capitoli matrimoniali che accompagnano le spose descrivondone la dote, attraverso un passaggio di madre in figlia che, assicurando agli uomini le sostanze sufficienti alla propria esistenza, dava loro la forza per avanzare, sottraendo nuovo spazio all’incolto, mettendo a frutto e valorizzando le terre del signore.
La correlazione diretta tra popolamento e realizzazione del vigneto, ci consente quindi d’indagare spazi originari, risalendo all’apparire della cultura che ha plasmato il territorio.
Ora et labora
La coltivazione della vite – sicuramente remota – comincia ad essere documentata durante il Medioevo nella Valle del Tacina, in seguito all’erezione dei monasteri che realizzarono vigne bastevoli alle loro ristrette comunità. La celebre locuzione latina, evidenzia bene l’impatto limitato che queste piccole realtà ebbero sul territorio.
Diverso appare invece, quello conseguente all’avvento degli ordini monastici che, importando una nuova e rigida organizzazione e nuovi precetti, avviarono una vera e propria bonifica/colonizzazione dell’ambiente naturale, attraverso la creazione di abbazie e grangie capaci di realizzare lo sfruttamento produttivo di un ben determinato ambito territoriale.
Ne costituisce un esempio S.to Dimitri di Policastro che, originariamente di rito greco, fu latinizzata nel corso della secondà metà del secolo XII passando all’ordine Cistercense, a seguito della penetrazione dell’abbazia di Santa Maria Requisita, poi della Sambucina, nella Valle del Tacina.
La cappella, l’abitato e le sue vigne, compaiono già in un atto del 1188, attraverso il quale, ricalcando i suoi predecessori Eugenio III (1145-1153) e Alessandro III (1159-1181), papa Clemente III confermò alla Sambucina i suoi possedimenti, tra cui la “cappellam Sancti Demetrii cum casali et hominibus, terris et vineis, casalinis, hortalibus et omnibus pertinentiis suis”[i].
Successivamente la grangia di S. Démétrius (“άγί(ωυ) μεγ(α)λ(ο)μ(ά)ρ(τυρος) Διμιτρ(ίου)”) passò all’obbedienza vescovile. Ciò avvenne in occasione di una permuta riguardante il monastero di S. Stefano d’Abergarès (“άγιων Στέφανον τοϋ Αβηργάρη”) posto in territorio di Mesoraca, avvenuta tra Bartolomeo arcivescovo metropolita di Santa Severina e la Sambucina, come evidenziano una pergamena greca del giugno 1202[ii] e quelle latine edite dal Pratesi[iii].
L’operazione portata a termine in questa occasione, evidenzia bene tutti i soggetti attori nella fase che stiamo descrivendo.
Attraverso quest’atto, con il consenso del capitolo, l’arcivescovo concesse all’abbazia della “immaculate Dei genitricis de Sabucina”, il monastero pertinente alla propria arcidiocesi detto “Sanctum Stephanum de Abrigari quod est in territorio Mesurace”, con il consenso del suo abate “domine Cosme”.
Tale concessione tesa ad assecondare la volontà dell’abate sambucinese Luca di costituire nel territorio di Mesoraca il futuro “capitale monasterium nostre regule de Cistella”, alienando i possedimenti più lontani e riorganizzando quelli rimanenti aggregandoli ai nuovi, avvenne attraverso la permuta di tre grangie appartenenti alla Sambucina tutte poste in territorio di Policastro: “Sanctum Iohannem de Monticello”, “Sanctam Dei genitricis de Cardoiano” e “Sanctum Dimitrium cum casale et vinea quam ibidem tenebat Sanctus Nicolaus de Pinito”.
L’importanza che in questo periodo, aveva il reperimento della manodopera – anche di condizione servile – necessaria per portare a termine le realizzazioni previste, è sottolineata dalla sua esplicita menzione.
In tale occasione, si stabiliva infatti che, a compensazione dell’annuo censo di tre libre di cera, percepito dalla chiesa metropolitana di Santa Severina fino a quel momento, per le tre grangie della Sambucina denominate: “Sancte Marie de Archelao”, “Sancti Angeli de Frigillo” e “Sancti Nicolai de Pinito”, l’abbazia s’impegnava ad indennizzare l’arcivescovo attraverso la cessione di “villanos quatuor in terra Policastri”, alla condizione che, in futuro, l’abate del costituendo monastero sarebbe stato obbligato ad intervenire al sinodo diocesano[iv].
Usi e consuetudini
I nuovi rapporti che furono instaurati tra i signori che si trovavano al vertice della piramide feudale ed i coloni ai quali fu affidato il compito di mettere a frutto un tale patrimonio con il proprio lavoro, sono evidenziati dalle antiche consuetudini che rimarranno in uso nella valle per tutto il medioevo.
Lo evidenzia un documento degli inizi del secolo XII (1115-1116, a.m. 6624), riguardante la messa a coltura di un appezzamento posto in tenimento di Roccabernada nelle vicinanze del fiume Soleo.
Attraverso questo atto, Argyros figlio di Maniakes de Bonaleas, assieme a suo fratello il presbitero Georges, concedeva in enfiteusi (“ad pastinandum”) al monastero della “Θεοτόκον τού κϋρ Νίλου” sito presso il “καστελλίου Βερνάλδου”, dipendente da S.ta Maria della Matina, le terre (“χοράφιον”) di quattro moggi (“μοδίων”), poste nel “loco” o casale (“χωρίον”) di “Αμβρανιτων” presso il fiume Soleo (“ριάκι τό Θολόν”) vicino alla vigna del loro zio Kaloumenos.
L’enfiteuta avrebbe dovuto piantare il terreno con viti ed alberi, godendo del frutto per tre anni, impegnandosi a costruirci un palmento. Successivamente, passato questo tempo, la vigna sarebbe stata divisa a metà tra l’enfiteuta ed il possessore del terreno che avrebbe preso per sé la porzione ritenuta migliore. In tale occasione, nel caso fosse stata ravvisata la negligenza dell’enfiteuta, il possessore del terreno sarebbe stato indennizzato da questi con un piede di vite o con un albero ogni mille.
Sul verso della pergamena, tra l’altro, compare la seguente dicitura riferibile al secolo XIII: “Argirus fili(us) Maniachi Vonolee dedit q(uam)da(m) t(er)ra(m) ad pastina(n)du(m) Tipaldo monacho S(an)c(t)e Marie de Matina in tenim(en)tis Roce B(er)nardi i(n) loco q(ui) d(icitu)r Ambrianitis q(uae) vocat(ur) i(n) vallone t(ur)bido p(ro)pe vinea(m) Calumeni”[v].
S.to Angelo de Frigillo
Durante tutto il corso del Trecento, gli atti supersiti dell’abbazia di S.to Angelo de Frigillo evidenziano modalità di realizzazione del vigneto in alcune aree del territorio di Mesoraca che ricalcano il caso menzionato precedentemente in territorio di Roccabernarda.
La consuetudine di Mesoraca prevedeva che l’enfiteuta s’impegnasse a piantare le viti e gli alberi nella vigna a proprie spese, beneficiandone liberamente per i primi cinque anni. Trascorso questo tempo si sarebbe proceduto a dividere la vigna a metà. Il signore aveva il diritto di scegliere quella ritenuta migliore mentre, la restante metà, in forza del diritto acquisito (“iure plantae”), rimaneva all’enfiteuta ed ai suoi eredi e successori.
L’uso “ad medietatem” di Mesoraca è descritto in un atto dell’abbazia del 9 aprile 1334, dove si specifica che l’enfitetuta avrebbe piantato “vineam et arbores ad mediatatem secundum usum et consuetudinem dicte terre Mesurace, videlicet quod dictus Iohannes teneatur dictam terram plantare, colere et beneficiare in vinea et arboribus usque ad quinque annos completos a mense marcii predicte prime indicionis in antea continue numerandos liberam et assolutam; completis vero annis quinque predictis, dictus Iohannes teneatur partem terram plantatam et beneficiatam per medium dividere et facere exinde duas partes, quarum partium abbas, qui tunc temporis erit, teneatur eligere et accipere partem meliorem de divisione predicta pro predicto monasterio, reli[cta] vero pars remaneat dicto plantatori”[vi].
Particolarmente numerosi sono gli atti che testimoniano tale uso in occasione della realizzazione di nuove vigne piantate ai margini di aeree forestali del territorio di Mesoraca, in terreni liberi e boscosi dell’abbazia che erano stati lottizzati per ricavarne appezzamenti coltivabili.
Il 15 marzo 1350, “Petrus prior et procurator” di S.to Angelo de Frigillo, prendeva possesso della “partem meliorem” di una vigna realizzata nelle “terras liberas de monasterio” concesse cinque anni prima al magister Rogerio de Cali, mentre l’altra metà restava “iure plante in perpetuum et inrevocabiliter usque in fine” alla moglie di questi dopna Sabella[vii].
Il 10 novembre 1353, presso Mesoraca, si stipulava l’atto attraverso cui l’abbate Nicolao de Badulato, concedeva a due particolari di Mesoraca per cinque anni “ad medietatem”, secondo l’uso e consuetudine della terra di Mesoraca, una pezza di terra “liberam” del monastero posta nel tenimento di Mesoraca, “in loco ubi d(icitu)r la cultura monachorum”, confinante con le vigne di altri particolari[viii].
Al 10 febbraio del 1361, risale un “Instr(ument)o facto ad mast.o ang(e)lo de uno tenim.to sito dove se dice Santa margarita”, mediante il quale lo stesso abbate affittava per cinque anni al magister Angelo de Alamano di Mesoraca, una pezza di terra boscosa del monastero, confinante con la vigna dello stesso magister Angelo ed altre, affinchè la piantasse con vigna ed alberi “ad medietatem” secondo le consuetudini della terra di Mesoraca[ix].
L’affitto
Le vigne che l’abbazia di S.to Angelo de Frigillo riceveva attraverso il dissodamento e la messa a coltura di alcune porzioni dei suoi possedimenti boschivi, erano concesse in affitto (“ad reditum”) ad un affittuario (“locatarius”) detto “Conductoris” in atti della metà dei Seicento[x], generalmente per cinque anni, altre volte per dieci o ventinove anni, oppure “in perpetuum”, attraverso un atto sempre rinnovabile ogni quinquennio “iuxta sanciones papales”, dietro pagamento annuale di un censo in occasione della festa della Vergine Maria nel mese di agosto.
Alcuni documenti seicenteschi evidenziano che l’affittuario era sanzionabile in caso di provata negligenza nella conduzione. Come nel caso della vigna posseduta dal clero di Policastro che a causa del suo deterioramento determinato dall’affittuario, era stata “renunciata” in favore del detto clero per “Decreto” della curia arcivescovile di Santa Severina[xi].
Tale sistema che espandendo la coltivazione, consentiva all’ente ecclesiastico di disporre di sicure rendite nel tempo a venire, era adottato dal potere signorile in maniera generalizzata per realizzare un’accumulazione che lo garantisse nel lungo e lunghissimo periodo.
In relazione al suo diritto che s’evidenzia già in periodo normanno-svevo[xii], ad esempio, ancora alla fine del Seicento e nella prima metà del Settecento, il vescovo di Crotone riscuoteva complessivamente “p(er) raggione di affitto”, quaranta “barili di musto” relativi agli “Annui Canones Musti” sopra le vigne di “Buciafaro” appartenenti alla sua Mensa[xiii].
In altri casi, invece, come in quello di molte antiche abbazie che soprattutto nel corso del Quattrocento, furono commendate ed abbandonate dai monaci, le usurpazioni e le spoliazioni determinaro la perdita delle rendite.
Come avvenne riguardo i censi che l’abbazia di S.ta Dominica di Policastro esigeva anticamente sopra le vigne “delle Pianette” e che agli inzi del Settecento, erano state occultate e non si esigevano più: (…) “Le sue rendite, benche in buona parte occultate, specialmente quelle d’annuo cenzo sopra le vigne delle Pianette, delle quali io ò letto le scritture ragioni in autentica Platea; ed’altre disperse, ò consunte dal tempo,” (…)[xiv].
Quantunque gli antichi documenti che testimoniavano gli affitti che quest’abbazia stipulò nel corso del medioevo fossero stati fatti scomparire già da molto tempo, le testimonianze della sua opera colonizzatrice, possono ancora essere evidenziate attraverso lo spoglio degli atti superstiti dei notari di Policastro relativi alla prima metà del Seicento. Questi atti confermano che a quel tempo, l’abbazia esigeva ancora diversi censi annotati “in platea”[xv] tra cui quelli “perpetui” che gravavano numerose vigne poste in località “la chianetta”[xvi], “le chianetta”[xvii] o “Chianetta”[xviii].
La rendita
Nel caso dell’abbazia di S.to Angelo del Frigillo, la conservazione di un discreto numero di atti riguardanti gli affitti stipulati nel corso del Trecento, ci consente di evidenziare e di conoscere più nel dettaglio la sua azione colonizzatrice nell’ambito del territorio di Mesoraca.
Nel maggio del 1333, presso il monastero di S.to Angelo de Frigillo, l’abbate Philippo affittava a Nicolao Cavallo di Mesoraca per cinque anni “ad annuum reditum sive censsum”, una pezza di vigna del monastero posta nel tenimento di Mesoraca, in loco detto “Tamibruchium”, per l’annuo censo di quindici grana[xix].
Il sette giugno 1361, presso Mesoraca, l’abbate Nicolaus de Badulato concedeva a Luca de Aijello un pezzo di vigna del monastero posto nel “tenimento” della terra di Mesoraca “in loco ubi dicitur Bernardus”. La locazione “ad Annuum Redditum sive censum” si stabiliva “de qu(i)nqu(en)nio ad qui(n)qu(en)nium” per dieci anni, dietro pagamento dell’annuo censo di un tari in occasione della festa della Gloriosa Vergine Maria[xx].
Il 10 marzo 1362 presso Mesoraca, era stipulato l’atto attraverso cui l’abbate Nicolao de Badulato, concedeva a “nicolo camso de mesuraca unius petii t(er)r(a)e in ter.o mesur.c(a)e ubi dicitur scala ad Censum grani unius auri”. Il pezzo di terra boscosa del monastero era concesso “ad Reditum sive censum” al locatario di cinque in cinque anni in perpetuo[xxi].
Dal numero di atti che evidenziano questo caso, constatiamo che spesso l’abbazia trovava vantaggioso concedere in affitto allo stesso enfiteuta, la propria parte di vigna scelta al tempo della divisione. Tendenza che evidentemente, aveva lo scopo di motivare l’enfiteuta/locatario e di garantire maggiormente l’abbazia.
Il 6 agosto 1320 in Roccabernarda, l’abbate Iacobo affittava ad Alamanno Iemmo di Roccabernarda per cinque anni “ad redditum sive censum annuale”, una vigna del monastero posta in tenimento della Roccabernarda “in flomaria Tachina, iuxta eundem flumen Tachina, vineam ipsius Alamanni Iemmi, quam venit sibi in porcione iure plante quam plantavit eiusdem monasterii”, al censo di quattro tareni[xxii].
Il 12 marzo 1352, presso Mesoraca, l’abbate Guillelmo de Sancto Marco affittava per cinque anni al magister Thomasio Pullicius di Mesoraca, una pezza di vigna del monastero posta in tenimento di Mesoraca, in loco detto “cultura monachorum, iuxta vineam magistri Thomasius Pullicius, qua pervenit iure plante”, al censo di cinque grana[xxiii].
Il 25 gennaio 1356, presso Mesoraca, l’abbate Iohannes Falconus affittava “ad quinquennium ad quinquennium hinc ad annos viginti nove” al magister Thomasio Policio di Mesoraca, una pezza di vigna del monastero in loco detto “Coltura monachorum, iuxta vineam Nicolai Cortise, quam tenet a predicto monasterio, vinea predicti magistri Thomasii locatarii, quam devenit iure plante, terram predicti monasterii et alios fines”, al censo di dieci grana[xxiv].
Il 12 ottobre 1360, “frat(er) nic(o)l(a)us de Badulato humilis Abbas mo(naste)r(i)i s(anc)ti Angeli de frigillo”, con il consenso dei monaci dell’abbazia, affittava “ad A(nnuu)m Redditum sive censum” per cinque anni a “magistro I(oh)a(n)nino de […]”, “peciis v[ine]is duobus B(e)n(e)ficiatis et plantatis p(er) eu(n)dem magistrum Ioh(ann)inum s(e)cu(n)du usum et consuetudinem d(ict)ae te(r)rae misuracae sitis et positis i(n) tenime(n)to misuracae i(n) loco ubi dicit(ur) mons pilosus seu scala”.
Per i due appezzamenti, confinanti con altri della stessa abbazia detenuti da alcuni particolari, con le timpe del fiume Avergari, con le “vineis d(ic)ti magist.i Iohannii, quas habuit iure plantam et Alios fines”, il detto magister s’impegnava al pagamento di un censo annuo di “gr(an)orum Auri decem pecuniae usualis de Arg(en)to”, “in festo Gl(or)iosae Virginis mariae de me(n)se Agusti”[xxv].
L’otto gennaio 1398, presso Mesoraca, “d(omi)nus Alibertus divina p(ro)videncia Ep(iscop)us Strongulensis” amministratore dei beni del monastero di S.to Angelo di Frigillo e curatore della grangia di S.to Stefano, dietro la richiesta di dopna Iacoba vedova del quondam Rogerio Pullisani di Mesoraca, provvedeva alla stipula dell’atto mediante il quale, attraverso il pagamento dell’annuo censo di cinque grana, le affittava in perpetuo la quarta parte della vigna del monastero posta nel tenimento di Mesoraca loco detto “li manchi dela formicusa”, detenuta in passato dal suo quondam marito ed in merito alla quale, “ad sui cautelam nullam h(abe)re”[xxvi].
Circa otto anni prima, l’otto agosto 1390, era avvenuta la divisione a metà della vigna posta nel loco detto “li manche” in tenimento di Mesoraca, che il giudice Rogerio Pullisano de Mesoraca aveva realizzato con il suo lavoro ed a sue spese, nella terra boscosa ed incolta ricevuta dal monastero “ad ius medietatis” secondo l’uso e consuetudine di Mesoraca[xxvii].
L’appezzamento
Come si riscontra in altri casi già indagati nel Crotonese, le aree coltivate a vigneto in territorio di Policastro, si evidenziano prossime all’abitato, in corrispondenza delle vie pubbliche principali dove, per qualità del terreno, esposizione e possibilità d’irrigazione, si garantivano le migliori condizioni di coltivazione.
In queste aree gli appezzamenti dove era coltivata la vite (“vitis”), costituiti da vigne (“vineae”) e possessioni arborate, servite da stretti passaggi detti vinelle (“vinellae”), dalle via pubbliche e da quelle convicinali, coesistevano accanto ai vignali (“vinealis”) e ad altri pezzi e pezzotti di terra seminatoria (dove potevano trovarsi alcuni alberi), secondo l’antica lottizzazione per strisce allineate e giustapposte (“vineae”) compiuta in origine attraverso il dissodamento.
Tale sistemazione realizzata secondo l’andamento del terreno e la sua giacitura – più regolare nel piano, meno nei luoghi acclivi – discendeva dalla piantagione per file, lungo cui erano stati ricavati i singoli appezzamenti (“pecciae”)[xxviii]. Questi continuavano a rimanere sempre unità fondiarie a sé stanti, mentre quando erano accorpati a quelli vicini da un unico possessore, costituivano una “Continentiam seu Clausuram vineae”[xxix].
Attraverso le informazioni che ci derivano dai documenti ed i riscontri che ci provengono dalla fotografia aerea, è stato possibile appurare come questo schema di lottizzazione risultava teso ad ottenere unità tendenzialmente uniformi, compensando proporzionalmente, la variabile tra la larghezza delle strisce e la lunghezza della pezza, in funzione della giacitura e dell’orografia del terreno[xxx].
Tale situazione finalizzata ad ottenere appezzamenti di dimensioni sufficienti a soddisfare l’autoconsumo della famiglia del colono, si evidenzia anche indagando la correlazione esistente tra le dimensioni della pezza, computate attraverso il numero di viti presenti, in funzione del censo enfiteutico pagato dal colono. Ipotizzando, naturalmente, un sesto d’impianto standardizzato.
Un atto stipulato il 24 maggio 1377, riguardante la concessione in perpetuo di “pecciam unam t(er)rae buscosae” dell’abbazia di S.to Angelo de Frigillo, “ad plantandum in ea vineas et Arbor(e)s”, stabilisce il pagamento annuale di un censo perpetuo da parte dell’enfiteuta, commisurato al numero di viti che sarebbero state realizzate da questi in futuro, “ad Raccionem de t(ar)eno uno pec(un)i(a)m usualis lilia(ci)to de arge(n)to p(ro) quolibet miliar(e)m”[xxxi].
Quantunque sia questa l’unica fonte che ci fornisce esplicitamente tale correlazione, altre testimonianze in nostro possesso, ci consentono di accoglierla come misura indicativa dell’estensione degli appezzamenti concessi, secondo cui, i censi mensionati negli atti superstiti che risultano di 5, 10, 15, 20 e 25 grana, sarebbero corrispondenti a vigne di 250, 500, 1000 e 1250 viti.
Tale correlazione trova riscontro agli inizi del Cinquecento, nel caso del “subfeudo de fungardo” posto nel territorio di Le Castella dove, in un atto di reintegra del feudatario, ricognitivo in maniera completa del suo dominio, oltre l’80 % delle vigne menzionate in questo territorio, risulta composto da appezzamenti di 500 (48 %) e 1000 viti (33 %) su ognuna delle quali, rispettivamente, gravava un censo perpetuo di 10 grana e di un tareno. I pochi scostamenti rilevabili, comunque minimi, potrebbero essere imputabili alla volontà di compensare alcune differenze quantitative e qualitative dei singoli appezzamenti concessi[xxxii].
Lo spoglio completo degli atti notarili superstiti dei notari di Policastro relativi alla prima metà del Seicento, evidenzia che tra i censi perpetui che l’abbazia di S.ta Dominica esigeva a quel tempo sopra numerose vigne che si trovavano in località “la chianetta” di Policastro, quelli riferibili ad una vigna di 1000 viti ed a sue frazioni di ¼, ½, ¾ o multipli, ossia il gruppo comprendente i censi di 5, 10 e 15 grana, assieme a quelli di 1 e 2 tareni, costituiva il 70 % del totale mentre, in assoluto, i censi più ricorrenti risultano quelli di 10 grana (26 %) ed 1 tareno (16 %).
La tendenza a costituire appezzamenti caratterizzati da una certa uniformità, non significa comunque che non esistessero differenziazioni. Tali differenze ad esempio, sono evidenziate dall’uso di appellativi quali: “vineam magnam”[xxxiii] o “grande”[xxxiv], “vignula”[xxxv] o “la vignola”[xxxvi], oppure “lo vignalicchio”[xxxvii].
Mura e difese
Come nel caso di altri possedimenti caratterizzati dalla presenza di ortalizi e piante da frutto, le vigne costituivano possedimenti “amoragliati” mediante muragli a secco, muniti di siepi e di fossi.
Delimitate dal “moraglio”, da una “sepe”[xxxviii] o “sepala”[xxxix], ovvero da una “difensa”[xl], la vigna “circondata di moraglia”[xli], come il vignale “serrato di moraglio”[xlii], costituivano possessioni dove le produzioni rimanevano al sicuro dai danneggiamenti come nel caso di quelli provocati dal pascolo degli animali.
Danneggiamenti su cui vigilava il baiulo che tra le sue giurisdizioni, accanto a quella di esigere lo “jus catapaniae”, come si menziona espressamente in un atto del 06.08.1638, dove si afferma che l’officio della Catapania della “Civ.tis Policastri” consisteva, tra l’altro, “… in danda assisa vinii nec non in assignando iustum pondus et mensuram vendere vitibus, …”[xliii], aveva soprattutto quella di proteggere le coltivazioni dai danni arrecati da ogni sorta di bestiame.
In questo caso, infatti, il baiulo aveva il compito di sanzionare i proprietari degli animali che dietro il mancato pagamento, subivano il sequestro del bestiame sino al saldo del dovuto, come testimoniano i capitoli riguardanti l’affitto della bagliva da parte dell’università di Policastro alla duchessa Caracciolo nel 1570[xliv] o come possiamo rilevare ancora agli inizi del Settecento nei “Capitoli” concessi all’università di Policastro dal duca di Belcastro, attraverso il suo procuratore D. Francesco San Severino, al tempo in cui entrò in possesso della “Città, e Casale deli Cotronei”.
(…) “Item per levare gli reclamori di questo publico per causa dell’abuso introdotto d’alcuni, che si mettono à custodire le Vigne dè Cittadini con consenzo di pochissime Persone riguardevoli in pregiudizio, e danno della maggior parte: che per la venire li Guardiani delle sudette Vigne s’abbiano da eligere in ogni anno in Publico Parlamento, e che in detto Parlamento abbiano la voce di nominare li Padroni delle Vigne non altri, e che si debbia fare per voti secreti per essere maggiormente libera la voluntà di ciascheduno, e detto Parlamento si debbia fare ogni anno la p.a di Giugno.” (…)[xlv].
Oltre al pericolo dei danneggiamenti degli animali esisteva anche quello derivante dal fuoco. Evento non improbabile, come testimonia il fatto che ci si raccomandasse affinchè la vigna rimanesse “serrata di moraglia et fossi” ed al sicuro dagli incendi, evitando tassativamente “di mittere foco ne di notte ne di giorno”[xlvi], oppure quando si menziona la vigna “abrusciata”[xlvii].
L’importanza di una presenza vigile che consentisse una sorveglianza dei luoghi è testimoniata, inoltre dal fatto che in alcuni rari casi, si riscontra la presenza di case dentro le vigne, come in quello di alcune vigne in loco detto “santa sufia seu Zaccaleo”[xlviii] e “le Chianetta”[xlix].
Le barriere poste a proteggere le produzioni ma anche a garantire i “limiti” o “simiti” del possedimento, subivano variazioni in occasione di vendite o delle divisioni conseguenti alle doti o alle succesioni ereditarie.
27.05.1645. In occasione della stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra Berardina Crocco di Policastro figlia di Leonardo Crocco e Petro Joanne delle Pira del “Casalis Petronis pertinentiarum olim Casalium Civitatis Consentiae” ma, al presente, “incola” in Policastro, il detto Leonardo dotava la figlia con la metà di una vigna posta nel “distretto” di Policastro loco detto “le chianetta”, con il patto che tra le due metà dovesse essere eretto un “limito, et Moraglio acciò da ciascheuno di essi si conosca la sua parte”[l].
In alcuni casi, però, l’esiguità delle dimensioni dell’appezzamento, determinavano che non fossero realizzati ostacoli consistenti lesivi del diritto dei vicini.
02.02.1625. Auleria Faraco di Policastro v.a del q.m Joanne Petro de Martino, prometteva in dote a sua figlia Caterina de Martino, “una partita di celsi loco ditto Santo dimitri”. Con detti celsi, erano inclusi anche “uno pede di Celso et uno pede di fico” di And.a Faraco zio della futura sposa, che si promettevano con tutto il terreno “quale è una sporia incirca” ma con il patto che “in detto loco di And.a”, il futuro sposo non avrebbe potuto fare “moraglio ma solam.te simito di terra”[li].
Gli accessi
Essendo la vigna “serrata di moraglia et fossi”[lii], il diritto d’accesso (“ius introitus”) risulta spesso espressamente menzionato in occasione delle cessioni che avvenivano: “cum introito et exito dittae vineae”[liii], “cum introito, et exito solito ordinario, et Consueto”[liv], “cum introito et exito solito, et consueto spettante, et pertinenente in ditto petium terrae”[lv], “cum solita intrata ditt(a)e partis vineae superioris quod possit per dittam intratam ingredere, et gredere”[lvi].
Tali atti menzionano a volte il “vado”[lvii], “l’intrada”[lviii], ovvero l’ “ingressus”[lix] munito di “cancello”[lx] che consentiva di poter accedere al possesso.
Accesso che poteva avvenire per la via pubblica[lxi], per le vigne, i vignali o altri possedimenti dei confinanti[lxii] o per “introitum” convicinale[lxiii], mediante un passaggio che si realizzava “la vinella vinella” “per lo stritto”[lxiv], “lo ter.ne ter.ne”[lxv] oppure “lo moraglio moraglio”[lxvi].
In alcuni casi il passaggio era concesso solo al tempo della “vendigna”[lxvii] mentre, altri atti, fanno espressa mensione della sua dimensione, “la quale entrata è di piedi cinque, o sei incirca larga”[lxviii]. Misure espresse anche in funzione delle necessità, come quando si specifica che la s’intendeva di larghezza “per quanto potra passare una bestia Carica di legna seu frasche”[lxix].
Nella vigna
Distinguiamo la vigna in piena produzione (“vinea”) detta “άμπέλιον” in atti dei sec. XII-XIII[lxx], da quella giovane in fase di allevamento (“pastinum”), come nel caso in cui si menziona il “pastinum plantatum in p(rese)nti anno”[lxxi].
Dopo aver esaurito il loro ciclo produttivo, le vigne troppo vecchie erano reimpiantate, oppure divenivano appezzamenti di terreno seminatorio privi di alberi o con una alberatura limitata, come nel caso in cui si menzionano il “Vinealis quod olim fuit vitatum”[lxxii] o la “vigna di Serrano seu vignale”[lxxiii], e come si specifica quando si afferma: “Si chiama Vignale per Causa, che prima vi era piantata vigna, e oggi si trova distrutta per lo tempo, e che poi non si è mai rifatta.”[lxxiv].
In alcuni casi tali appezzamenti sono definiti: “disertinam seu Vineam disfattam”[lxxv], “vineam seu disertinam distructam”[lxxvi] ovvero “vinealem seu disertinam Viniae”[lxxvii], oppure “vinealem dirutum”[lxxviii].
Quando si decideva di reimpiantare le viti o di estendere la loro coltivazione ad altri appezzamenti limitrofi adatti allo scopo, ciò generava situazioni disomogenee e presenze disetanee.
Come ad esempio, quando si menzionano: la “vineam arboratam” con più e diversi alberi domestici, metà “vinea” e metà “pastinum”[lxxix], il “vignale” con un “pastinello arborato di fico”[lxxx], oppure la “vigna, et pastino Contiguo”[lxxxi].
In altri casi, parti della vigna dove si era giunti all’espianto potevano essere utilizzati a seminativo.
18.11.1635. Alla dote di Elisabetta Campana figlia di Andria Campana, apparteneva la metà della vigna di “olivano”, compreso “lo seminato” che si trovava “in detta mita di vigna”[lxxxii].
Durante il loro ciclo produttivo la coltivazione prevedeva che le viti fossero potate in inverno come testimoniano le raffigurazioni medievali che a volte evidenziano forme d’allevamento riconducibili al tradizionale “Alberello” ancora in uso in tutto il Crotonese.
I documenti evidenziano che le viti si dovessero regolarmente “Zappare, et refundere” e “scalsarle” al piede almeno una volta ogni tre anni, come testimonia un atto del 30.04.1638[lxxxiii], mentre per la loro irrigazione si utilizzava l’acqua delle fonti e dei corsi vicini che poteva essere immagazzinata in vasche di raccolta dette cipie, dalle quali erano derivate le adduzioni dei singoli possedimenti. Come nel caso della “cipia” posta a “santo dimitri” da cui si servivano in comune Lutio Faraco e Jsabella Serravalle vedova del quondam Andrea Mazzuca, evidenziata in un atto del 25.02.1616[lxxxiv]. Uso che si registra anche nei caso dei monaci del monastero di S.ta Maria delle Manche, i quali avevano provveduto a realizzare lo sbarramento del corso di una fonte vicina al monastero[lxxxv].
Il “bono vino” Gaglioppo
Le qualità del vino prodotto nel territorio Crotonese durante il medioevo, sono evidenziate dallo Yver che menzionando “les vins grecs de Naples, de Turpia et de Cotrone, en Calabre, de Patti, et Pouille, étaient particuliérement recherchés”, ne sottolinea la diffusione anche molto lontano dalla Calabria: “… les vins grecs de Calabre figuraient parmi les produits mis en vente à Tana, aux confins des steppes tartares.”[lxxxvi], come testimoniano le transazioni registrate a Tana dal notaio veneziano Benedetto Bianco nel 1359-1362, riguardanti il vino di Tropea, di Larissa, di Cotrone, di Malvasia e di Grecia[lxxxvii] ed alcuni accordi commerciali stipulati in questo periodo dalla repubblica di Venezia.
Risale al marzo del 1362, l’atto attraverso cui Andronico Ineoti ambasciatore dell’imperatore di Costantinopoli, presentatosi al doge chiedeva, tra l’altro, che fosse proibita l’introduzione nell’impero dei vini di Cotrone e di Turpia ed altri[lxxxviii].
In relazione a tale importanza, alla metà del secolo XIII, si segnala per la prima volta, l’esistenza del “galloppo”, considerato uno dei più importanti vitigni autoctoni calabresi, attualmente diffuso nel Crotonese, nel Cosentino e nel Catanzarese. Con il sinonimo di “Arvino” translitterato dal dialettale “Erivino”, lo si rintraccia nel territorio di Petilia Policastro attraverso qualche esemplare che si coltiva ancora in località S. Demetrio.
L’esistenza di questo vitigno è documentata in periodo svevo da un mandato della curia imperiale dato in Arezzo il 21.01.1240, attraverso cui si ordinava al “secretum Messanae” di mandare a Napoli attraverso un nunzio, “centum barrilia de bono vino de galloppo”. Contestualmente, si ordinava al “compalatio Neapolis” di ricevere il detto vino e di mandarlo “cum sommeriis ad presentiam domini”[xc].
Il 16.03.1240 un nuovo mandato dato in Orte, c’informa che in relazione ai bisogni della curia, si ordinava al giustiziere di Capitanata di far preparare e munire tutte le “domos” che si trovavano nell’ambito della sua giurisdizione, ricevendo e facendo conservare i “centum barrilibus vini de galoppo” che attraverso il secreto di Messina, era stato comandato di portare a Napoli “per mare”.
Attraverso lo stesso mandato, si ordinava ai “compalatiis Neapolis” di destinare, per come previsto e quando l’avessero ricevuto, il detto vino in Capitanata “cum sommeriis”[xci].
Non sappiamo se questa fornitura fu effettivamete realizzata per come avevano disposto i funzionari imperiali. Sappiamo però che pochi giorni dopo, il 28.03.1240 in Foggia, si dava mandato al magister camerarius Riccardo de Pulcaro di provvedere la “curiam nostram de vino greco saumas III, de vino grecisco saumas III, de vino fiano saumas III”[xcii].
La mancata menzione del luogo d’origine del vino e del porto in cui sarebbe dovuto avvenire il suo carico (informazioni evidentemente non ritenute importanti dagli ufficiali che fecero redigere i documenti) non ci permettono di ricondurre il Gaglioppo ad una precisa area geografica. La menzione specifica del suo nome, ci testimonia comunque che la sua identità e la sua qualità, dovevano essere ben conosciute, senza poter dare adito ad alcun fraintendimento. Considerato poi che la giurisdizione del secreto di Messina comprendeva tutta la Calabria e che il vino avrebbe dovuto raggiungere Napoli via mare per poi essere trasportato in Capitanata via terra, appare verosimile ipotizzare l’accumulo della partita richiesta ed il suo caricamento in un porto della costa tirrenica catanzarese/cosentina.
Tutti frutti
A differenza del moderno vigneto specializzato, l’antica vigna era caratterizzata dalla presenza di diversi alberi da frutto, dovendo assicurare alla famiglia contadina tutto il necessario al suo sostentamento
Oltre alle “viti”, infatti, i documenti evidenziano sempre nelle vigne e nelle possessioni arborate, la presenza di: “fico”, “pira”, “puma” (melo, Malus domestica Borkh.), “brune” (susino, Prunus domestica L.), “cerasa”, “noci”, “agromola” (corbezzolo, Arbutus unedo L.), “granati” (melograno, Punica granatum L.), “sorva” (sorbo, Sorbus domestica L.), assieme ad “olive”, agrumi, ecc.
La loro moltiplicazione poteva avvenire mettendo a dimora piante innestate, oppure facendo l’innesto primaverile in pieno campo, come evidenzia un atto del 05.03.1624 che cita una possessione arborata dove si trovavano “tanti piantoni, inserti et allevi di arbusscelli, come di gliastri, peraine, agromola, noci et albori insertati et atti d’insertare questo presente anno”[xciii].
Le varietà presenti sono menzionate raramente, lasciando intendere una certa uniformità che probabilmente è solo apparente e spiegabile con il fatto che si trattava di produzioni principalmente destinate all’autoconsumo.
A questo panorama sostanzialmente uniforme, fanno eccezione il fico ed il pero, mentre disponiamo solo di qualche accenno per quanto riguarda il melo quando, in alcuni atti della prima metà del Seicento riguardanti il territorio di Santa Severina, si menzionana il “pomo fano, et altri sorti di poma”[xciv].
La rilevanza di queste due specie rispetto ad altre è evidenziata dall’iconografia medievale che ad esempio, nell’ambito delle diverse raffigurazioni del “Ciclo dei Mesi”, arriva ad assegnare loro un ruolo rappresentativo del periodo che coincide con la loro principale fruttificazione (agosto), come testimoniano le formelle della Fontana Maggiore di Perugia, le sculture del battistero di Parma e quelle della cattedrale di Ferrara.
Per quanto riguarda il fico (Ficus carica L.) allevato monocaule (“pede”) o a “troppa”, sappiamo che nella prima metà del Seicento, esistevano in Policastro sia varietà che producevano solo “fioroni” (frutti d’inizio estate) che varietà bifere con produzione anche di “forniti” in fine estate.
Ai primi doveva appartenere la “fico columbra”[xcv], varietà unifera già menzionata in Puglia in un atto del 1279[xcvi] e la “fico cassanise nigra”[xcvii], menzionata agli inizi del Seicento anche nel territorio di Santa Severina, quando s’accenna a “li fichi primarii, et cassanisi”[xcviii]. Al secondo gruppo, invece, posso essere ricondotte “la fico ottata”[xcix] e “la fico vernitica”[c].
L’utilizzo dei frutti freschi durante tutta l’estate e le diverse possibilità di conservazione per la restante parte dell’anno, rappresentano i punti di forza che permettono di classificare il fico tra i frutti più importanti nell’alimentazione antica, come evidenziano le scene di raccolta relative al “Ciclo dei Mesi” della Pieve di Santa Maria Assunta di Arezzo e quelle della cattedrale di Ferrara dove, l’utilizzo di tini e di mazze di legno, lascia intendere metodologie di conservazione analoghe a quelle in uso fino ad alcuni decenni fa, tese ad ottenere una sorta di melassa mentre, alcuni atti, accennano alla caratteristica produzione tradizionale calabrese di “serti”[ci] o “jette de fico”[cii].
Anche l’esistenza di diverse varietà di pero (Pyrus communis L.), può essere ricondotta ad una scalarità di maturazione e ad opportunità di conservazione proprie di questa specie che assicuravano all’uomo medievale un alimento per gran parte dell’anno. Alcune di queste varietà sono già ricordate dai documenti medievali, come nel caso delle “pera moscarelle”[ciii] già menzionate in Puglia negli atti della Cancelleria Angioina[civ].
Accanto a questa varietà, nella prima metà del Seicento, troviamo in territorio di Policastro: “lo piro acitolo”[cv], “lo piro russolillo”[cvi] e “lo piro vernitico”[cvii] che si raccoglieva in autunno[cviii] mentre, in territorio di Santa Severina, troviamo il “pero gentile”, le “pira inganna villano” e “ficatelli”[cix]. Alla specie Pyrus pyraster Burgsd., apparteneva invece, il pero “vulgo dicto Piraiina”[cx].
Nel parmento
Nella vigna si trovava il “parmento” ovvero il “tegolo seu parm.to”[cxi] per la pigiatura dell’uva, fatto “di ligname”[cxii] oppure “de fabrica”[cxiii].
Essendo la pigiatura un’operazione che si realizzava sempre nella vigna, gli atti di vendita o quelli che riguardano donazioni o l’assegnazione in dote di una porzione della vigna, menzionano spesso esplicitamente il diritto d’uso del parmento ovvero lo “ius vendemiandi”[cxiv] e la sua assegnazione o ripartizione nei confronti dell’acquirente, dell’erede, dei futuri sposi e degli altri parenti aventene diritto, in quanto “l’actione che teneno di vendemiare in detto parmento”[cxv], al pari dello “ius introitus”, costituiva un “peso, et Servitu”[cxvi] che gravava la vigna.
14.11.1604. In occasione del matrimonio tra Joanne Thoma Cavarretta e Caterina Popaianni figlia del q.m Franceschello Popaianni, alla futura sposa era promessa la metà della vigna di “santa sofia” dalla parte “de abascio”, posta nel territorio di Policastro. In relazione a ciò, Vespesiano Popaianni prometteva al detto Gio : Thomaso “che non lo possa Cacciare dello parmento ad tempo del vendignare”[cxvii].
25.09.1605. In occasione del matrimonio tra Marco Imbriaco di Policastro e Lucretia de Maijda figlia di Hijeronimo de Maijda “alias lo mantuto” di Policastro, il padre della futura sposa le prometteva una vigna posta nel territorio di Policastro loco detto “santo Fran.co”, mentre “lo parmento” che si trovava in detta vigna sarebbe rimasto in comune tra la futura sposa e sua sorella Dianora[cxviii].
02.04.1607. Joanne Hijeronimo Blasco di Policastro permutava con Laurentio Scalisio di Policastro la propria vigna posta nel tenimento di Policastro “ubi dicitur paternise”, con la vigna del detto Laurentio posta nel tenimento di Policastro nel loco detto “la chianetta”, dove si trovava anche un “parmentum” su cui avevano diritto Philippo de Pace e sua moglie Andriana Scalise[cxix].
02.08.1610. Vincentio Coco e sua sorella Diana Coco di Policastro, vendevano a Joanne Dom.co Carcea di Policastro la metà della vigna posta nel territorio di Policastro loco detto “la chianetta”, compreso la quarta parte del parmento, affinchè il detto Joanne Dom.co ci possa “vendemiare”[cxx].
10.08.1615. Hijeronimo Jannici di Policastro vendeva a Joanne Paulo Caruso di Policastro la metà di una vigna arborata di fichi ed altri alberi, posta nel territorio di Policastro “in loco Ubi dicitur la carita seu santa sufia”, “cum actione parmenti”, affinchè il detto Joanne Paulo ci possa “vendemiare”[cxxi].
05.02.1626. Jsabella Curto di Policastro v.a del q.m Joanne Thoma Ceraldo, assieme a Dianora Ceraldo sua figlia maggiorenne, vendeva a Joanne And.a de Aquila di Policastro, il pastino “con lo parmento di ligname” loco “la chianetta” territorio di Policastro. La vendita era effettuata “con l’actione che teneno di vendemiare in detto parmento”[cxxii].
12.02.1626. Joanne Thoma Cepale di Policastro vendeva a Laurentio de Martino di Policastro, la metà di una vigna posta nel territorio di Policastro loco “santo dimitri”, specificando che detto Laurenzo avrebbe potuto “vendemiare al parm.to” di detto Joanne Thoma[cxxiii].
20.05.1629. Davanti al notaro comparivano Burtio Carvune di Policastro e Filippo Lupo di Figlina pertinenza di Cosenza, per la stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra detto Filippo e Caterina Carbune figlia di detto Burtio. Apparteneva alla dote una mezza vigna “di abascio” secondo “li simiti” determinati da ambo le parti, posta nel territorio di Policastro loco “la chianetta”, con il diritto da parte del futuro sposo di poter vendemmiare “allo parmento” posto nella parte di vigna di detto Burtio[cxxiv].
14.09.1634. Joanne Baptista Rizza di Policastro vendeva a Fran.co de Costantio di Policastro, la vigna arborata con “pomii, et piri” ed altri alberi “et cum uno pede sicomi” posta nel territorio di Policastro loco detto “Catrevarii”. Si pattuiva che nel “parmento” di detta vigna avrebbero potuto “vendemiarci” Maso Veneri ed i suoi figli dopo detto Fran.co. Si specificava che se detto Maso avesse venduto la vigna ad altra persona, questi non avrebbe più avuto lo “ius vendemiandi in ditto parmento”, ma la vigna sarebbe rimasta libera ed esente da tale “peso, et Servitu”[cxxv].
08.12.1647. Davanti al notaro comparivano Luca Grosso fratello di Laura Grosso e Vincentio Tuscano di Policastro, per la stipula dei capitoli relativi al matrimonio tra detti Laura e Vincentio. Appartenevano alla dote la vigna posta nel territorio di Policastro loco detto “S.to Dimitri”, con il patto che il “parmento” rimanesse in comune con gli altri fratelli, sorelle e nipoti[cxxvi].
Il tempo della vendemmia
Alcuni atti ci consentono di stabilire che in territorio di Policastro, la “vendimia” o “vindigna” si realizzava nel corso del mese di ottobre.
15.09.1615. Mariella Cortise di Policastro vendeva a Joannes Manfrida di Policastro, il “vinealem arboratum cum uno pede sicomi” posto nel “tenimento” di Policastro nel loco detto “catrevarii”, confine la Foresta Piana, i beni di Joanne Baptista Caracciolo, la vigna di Gasparro Dettero, la vigna di Fran.co Antonio de Cola ed altri fini, per il prezzo di ducati 4 e mezzo e “due panara di uva l’anno mentre sarà viva detto Gianni ci l’habbia di dare assettettembro di qual sivoglia anno”[cxxvii].
18.01.1617. Joanne Vittorio Caccurio di Policastro vendeva per venti ducati a Hijeronimo Carise di Policastro la “vineam” posta nel territorio di Policastro loco detto “la chianetta”. L’acquirente s’impegnava a pagare l’annuo censo di venti carlini “allo parmento nel tempo della vendimia” ovvero “de mense ottobris tempore vendimie”[cxxviii].
28.09.1623. In occasione della vendita della vigna posta nel territorio di Policastro loco “la chianetta” da parte di Fran.co Turtorella di Policastro a Paulo de Maijda di Policastro, parte del pagamento avveniva “in tanto musto della istessa vigna, et Carico di questo anno p(rese)nte”[cxxix].
14.02.1627. I coniugi Berardino Jerardo e Caterina Rizza di Policastro dichiaravano di aver ricevuto da Joanne Dom.co Rizza padre di detta Caterina, la dote promessa. Tra i beni ricevuti c’era anche una vigna loco “Santo dimitri”, con il patto che la detta vigna restasse in potere del detto Gio : Dom.co “per questo p(rese)nte anno p(er) tucto il mese di ottobre p.o venturo una con lo frutto di essa vigna”. Fino a questo tempo, il detto Gio : Dom.co s’impegnava a “Coltivare et pagare la ragione di pagam.ti fiscali et elasso detto tempo la detta vigna ex nunc et pro tunc sia, et se intenda data, et Cessa ad essi Coniugi et loro heredi”[cxxx].
Nelle Botti
Avvenuta la vendemmia, il mosto era trasportato in Policastro e riposto nelle botti e nei barili sistemati nei bassi e nei catoi delle abitazioni o nel “Cellaro” di palazzi[cxxxi] e monasteri.
10.07.1609. Nel suo testamento, Romano Autimari di Policastro avendo “posto nella vucte di Antonio Conmeriati otto barili di musto Cioè quattro esso testatore, et quattro detto Ant.o del quale dice haverne havuto cannate trenta”, disponeva che il rimanente di sua spettanza fosse dato a Thomaso suo fratello, al quale lasciava anche “uno paro di barili salmarizzi”[cxxxii].
Gli atti evidenziano l’esistenza di “butti di tener vino”: “piccole”, “mezane”, “grandotte” e “grandi” e di “barrili” riposti nella “barrilara”[cxxxiii].
E’ documentata l’esistenza di botti della capacità di una e mezza[cxxxiv], due[cxxxv], tre[cxxxvi], quattro[cxxxvii] e cinque[cxxxviii] “salme”, accanto a quelle di cinque[cxxxix], sei[cxl] e otto[cxli] “para” mentre, in un caso è citata una botte “grande di nove para”[cxlii]. Botti “grandotte”, invece, sono definite quelle di tre salme[cxliii]. Frazioni della salma erano “terzi” e “quarti”[cxliv].
In altri casi, la misura della capacità risulta espressa in “barili”. Si menzionano “butti di tener vino” “mezane”, “le più grandi di dudici barili”[cxlv] e “uno varrilaccio di tre barili”[cxlvi].
Così riposta, la preziosa bevanda era conservata in vista del suo consumo o della sua vendita, mettendo in atto ogni accorgimento necessario alla sua conservazione affinchè non divenisse “vino Jaciscu”[cxlvii], come si evidenzia in occasione della compilazione dell’inventario dei beni del quondam Joanne Dom.co Zagaria, quando i suoi familiari specificavano a riguardo delle botti di vino poste “nel catoio di abascio” della casa del defunto che a loro riguardo, erano state messe in atto le cure necessarie, “le quali per non guastarnosi l’have questo p(rese)nte anno allugate.[cxlviii]”.
Alla metà del Settecento, le rivele del catasto onciario di Policastro[cxlix] evidenziano che i mastri “barilari” costituivano una categoria numericamente molto rappresentata nel novero della “mastranza” di Policastro, nell’ambito della quale praticavano la loro arte diversi componenti della famiglia Mannarino ed alcuni membri della famiglia Comberiati o Commeriati.
Scorrendo le rivele, troviamo Giovanni Mannarino mastro barilaro di anni 60 con il figlio Vincenzo di anni 27 anch’egli mastro barilaro, accanto agli altri mastri barilari Giuseppe Mannarino di anni 50, Andrea Mannarino di anni 45, Antonino Mannarino detto “Arianca” di anni 43 e Domenico Mannarino di anni 42. Figurano inoltre i mastri barilari Gaetano Comberiati di anni 30 e Bruno Comberiati di anni 25.
Note
[i] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, Biblioteca Apostolica Vaticana 1958, pp. 86-90.
[ii] Guillou A., Les Actes Grecs des Fonds Aldobrandini et Miraglia XI-XIII s., Biblioteca Apostolica Vaticana 2009, p. 101-106.
[iii] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, Biblioteca Apostolica Vaticana 1958, pp. 168-179.
[iv] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, Biblioteca Apostolica Vaticana 1958, pp. 168-175.
[v] Guillou A., Les Actes Grecs des Fonds Aldobrandini et Miraglia XI-XIII s., Biblioteca Apostolica Vaticana 2009, p. 154-157.
[vi] Caridi G., Ricerche sul Monastero di S. Angelo de Frigillo e il suo Territorio, in “Archivio Storico per la Sicilia Orientale”, LXXVII (1981), pp. 345-383; Caridi G., Agricoltura e Pastorizia in Calabria, Laruffa Ed. 1989, p. 67-68.
[vii] Caridi G., Ricerche sul Monastero di S. Angelo de Frigillo e il suo Territorio, in “Archivio Storico per la Sicilia Orientale”, LXXVII (1981), pp. 345-383; Caridi G., Agricoltura e Pastorizia in Calabria, Laruffa Ed. 1989, p. 71-72.
[viii] Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Vat. Lat. 13490 n. 37; Caridi G., Ricerche sul Monastero di S. Angelo de Frigillo e il suo Territorio, in “Archivio Storico per la Sicilia Orientale”, LXXVII (1981), pp. 345-383; Caridi G., Agricoltura e Pastorizia in Calabria, Laruffa Ed. 1989, p. 74-76.
[ix] Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Vat. Lat. 13490 n. 41; Brasacchio G., Storia Economica della Calabria II, pp. 344-346; Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini pp. 456-457 n. 267.
[x] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciaro, Busta 182 prot. 801, ff. 094v-096.
[xi] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciaro, Busta 182 prot. 804, ff. 031-035v.
[xii] Pesavento A., Uomini e boschi di Crotone e di Isola: il caso Buggiafaro, in La Provincia KR nr. 6-7/1998.
[xiii] Archivio Vescovile di Crotone, Atti della visita del vescovo Marco Rama, 1699 ff. 69v-70; Atti dela visita del vescovo Anselmo de la Pena, 1720, f. 57v.
[xiv] Mannarino F. A., Cronica della Celebre ed Antica Petilia detta oggi Policastro, 1721-1723.
[xv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 291 ff. 007v-008 e Notaio G. M. Guidacciro, Busta 182 prot. 801, ff. 038v-039v.
[xvi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 288 ff. 003-004, ff. 018v-019v, ff. 099v-100v, ff. 100v-101; prot. 289 ff. 028-029, ff. 035v-036v; prot. 290 ff. 065v-066, ff. 095v-097, ff. 134v-135v; prot. 291 ff. 007v-008, ff. 039-040; prot. 292 ff. 058-058v; Busta 79 prot. 293 ff. 014v-015, ff. 015-016; prot. 294 ff. 011v-012, ff. 108v-109; prot. 296 ff. 105-106; prot. 297 ff. 001-001v; prot. 298 ff. 007v-008v, ff. 079v-080v; prot. 299 ff. 082v-083v; prot. 300 ff. 011-012; ff. 012-013; Busta 80 prot. 303 ff. 005-005v; prot. 304 ff. 043v-044v; prot. 305 ff. 015-016.
[xvii] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciaro, Busta 182 prot. 801, ff. 094v-096 e prot. 804, ff. 075-077v.
[xviii] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciaro, Busta 182 prot. 804, ff. 031-035v.
[xix] Caridi G., Ricerche sul Monastero di S. Angelo de Frigillo e il suo Territorio, in “Archivio Storico per la Sicilia Orientale”, LXXVII (1981), pp. 345-383; Caridi G., Agricoltura e Pastorizia in Calabria, Laruffa Ed. 1989, p. 65-66.
[xx] Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Vat. Lat. 13490 n. 42; Brasacchio G., Storia Economica della Calabria II, pp. 346-347; Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini p. 457 n. 268.
[xxi] Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Vat. Lat. 13490 n. 43; Brasacchio G., Storia Economica della Calabria II, pp. 347-348; Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini p. 457 n. 269.
[xxii] Caridi G., Ricerche sul Monastero di S. Angelo de Frigillo e il suo Territorio, in “Archivio Storico per la Sicilia Orientale”, LXXVII (1981), pp. 345-383; Caridi G., Agricoltura e Pastorizia in Calabria, Laruffa Ed. 1989, p. 63-65.
[xxiii] Caridi G., Ricerche sul Monastero di S. Angelo de Frigillo e il suo Territorio, in “Archivio Storico per la Sicilia Orientale”, LXXVII (1981), pp. 345-383; Caridi G., Agricoltura e Pastorizia in Calabria, Laruffa Ed. 1989, p. 73-74.
[xxiv] Caridi G., Ricerche sul Monastero di S. Angelo de Frigillo e il suo Territorio, in “Archivio Storico per la Sicilia Orientale”, LXXVII (1981), pp. 345-383; Caridi G., Agricoltura e Pastorizia in Calabria, Laruffa Ed. 1989, p. 76-78.
[xxv] Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Vat. Lat. 13490 n. 40; Brasacchio G., Storia Economica della Calabria II, pp. 343-344; Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini p. 456 n. 266.
[xxvi] Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Vat. Lat. 13490 n. 47; Brasacchio G., Storia Economica della Calabria II, pp. 353-354; Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini p. 460.
[xxvii] Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Vat. Lat. 13490 n. 46; Caridi G., Ricerche sul Monastero di S. Angelo de Frigillo e il suo Territorio, in “Archivio Storico per la Sicilia Orientale”, LXXVII (1981), pp. 345-383; Caridi G., Agricoltura e Pastorizia in Calabria, Laruffa Ed. 1989, p. 32-35; Brasacchio G., Storia Economica della Calabria II, pp. 351-352.
[xxviii] Rende P., La città ed il Territorio di Le Castella, in La Provincia KR nr. 29-35/2005.
[xxix] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 295 ff. 029v-031.
[xxx] Un valido riscontro ci proviene anche dai disegni contenuti in una platea cinquecentesca della Mensa Vescovile di Martirano dove, al f. 9, si vedono rappresentate nei particolari, le vigne che si trovavano nelle vicinanze della città vescovile (Gallo M., Storia del paesaggio agrario e forestale della Calabria, 1991 p. 61).
[xxxi] Biblioteca Apostolica Vaticana, Cod. Vat. Lat. 13490 n. 45; Brasacchio G., Storia Economica della Calabria II, pp. 349-350.
[xxxii] Archivio Vescovile Crotone, Reintegra del feudo di Le Castella di Andrea Carrafa, s.c.; Rende P., Il Feudo di Le Castella nel 1518 in La Provincia KR nr. 47/2006 – 6/2007.
[xxxiii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 300 ff. 007-008; ff. 008v-009v.
[xxxiv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 300 ff. 013-014; Busta 80 prot. 304 ff. 004v-005v.
[xxxv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 294 ff. 067v-069.
[xxxvi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 294 ff. 099-099v.
[xxxvii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 304 ff. 086-087.
[xxxviii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 296 ff. 046v-047v.
[xxxix] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 298 ff. 023-024v.
[xl] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 302 ff. 114-115.
[xli] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 294 ff. 007v-008v.
[xlii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 294 ff. 114-115v.
[xliii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 305 ff. 065-066.
[xliv] Sisca D., Petilia Policastro, 1964 rist. 1996, pp. 131-138.
[xlv] Mannarino F.A., Cronica della Celebre ed Antica Petilia detta oggi Policastro, 1721-1723.
[xlvi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 290 ff. 107-109.
[xlvii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 302 ff. 123-124.
[xlviii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 290 ff. 050v-052 e ff. 052-053.
[xlix] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 879, ff. 071v-073v.
[l] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciaro, Busta 182 prot. 804, ff. 081-083v.
[li] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 295 ff. 097-098.
[lii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 290 ff. 107-109.
[liii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 289 ff. 003-003v, ff. 004v-005, ff. 008-009; Busta 79 prot. 294 ff. 070-071; prot. 295 ff. 021-022, ff. 081v-082v.
[liv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 291 ff. 065-066; Busta 79 prot. 300 ff. 014-015; Busta 80 prot. 304 ff. 068-069.
[lv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 289 ff. 036v-037.
[lvi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 290 ff. 036v-038.
[lvii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 299 ff. 028-029.
[lviii] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 875, ff. 011-012v.
[lix] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciaro, Busta 182 prot. 804, ff. 111-112v.
[lx] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 290 ff. 107-109.
[lxi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78, prot. 286 ff. 77v-78v; prot. 290 ff. 012v-013v e ff. 082v-084; Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 874, ff. 003v-005.
[lxii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro Policastro, Busta 78, prot. 286 ff. 157v-158; Busta 79 prot. 296 ff. 062-063v.
[lxiii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 289 ff. 028-029; Busta 79 prot. 296 ff. 173v-174v.
[lxiv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 294 ff. 042v-044v.
[lxv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 296 ff. 059v-060v.
[lxvi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 299 ff. 033v-034v.
[lxvii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 287 ff. 141v-142 e ff. 181v-183.
[lxviii] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciaro, Busta 182 prot. 802, ff. 101-102.
[lxix] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 297 ff. 111-111v.
[lxx] Guillou A., Les Actes Grecs cit., p. 154-157, p. 51-53, p. 81-84, p. 89-91 e p. 154-157.
[lxxi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciro, Busta 78 prot. 290 ff. 034v-035.
[lxxii] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciaro, Busta 182 prot. 806, ff. 106v-108.
[lxxiii] ASCZ, Notaio G.B. Guidacciro, Busta 80 prot. 304 ff. 069-070.
[lxxiv] ASCZ, Notaio L. Larussa, Busta 1912, prot. 12.382 ff. 218-262.
[lxxv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 296 ff. 138-142v.
[lxxvi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 297 ff. 124v-125.
[lxxvii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 297 ff. 070-070v.
[lxxviii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 296 ff. 118-118v.
[lxxix] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 292 ff. 022-023.
[lxxx] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 291 ff. 006v-007.
[lxxxi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 306 ff. 023v-025.
[lxxxii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 302 ff. 118-119v.
[lxxxiii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 305 ff. 041-043v.
[lxxxiv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 290 ff. 082v-084.
[lxxxv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 291 ff. 065-066; Busta 79 prot. 298 ff. 026v-027v. Notaio G. M. Guidacciaro, Busta 182 prot. 802, ff. 109v-111. Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 876, ff. 080-081.
[lxxxvi] Yver G., Le commerce et les marchands dans l’Italie méridionale au XIIIe et XIVe siécle, 1903 p. 142.
[lxxxvii] Balard Michel, Storia di Venezia (1997) in Treccani.it, che cita il fondo Cancelleria inferiore dell’Archivio di Stato di Venezia, b. 19, notaio Benedetto Bianco, atti del 1° agosto, 18 ottobre, 23 novembre e 3 dicembre 1362.
[lxxxviii] Predelli R., I Libri Commemoriali della Republica di Venezia, Regesti, Volume 2, libro VI n. 308.
[lxxxix] Corrado V. C., Notiziario delle Particolari Produzioni delle Provincie del Regno di Napoli, seconda edizione, Napoli 1816, pp. 85-86.
[xc] Huillard-Bréholles J.L.A., Historia Diplomatica Friderici Secundi, Parigi 1859, Tomo V pars II p. 685.
[xci] Huillard-Bréholles J.L.A., Historia Diplomatica Friderici Secundi, Parigi 1859, Tomo V pars II pp. 846-847.
[xcii] Huillard-Bréholles J.L.A., Historia Diplomatica Friderici Secundi, Parigi 1859, Tomo V pars II pp. 861-862.
[xciii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro Policastro, Busta 78, prot. 286 ff. sciolti s.n.
[xciv] Archivio Arcivescovile Santa Severina, cartella 3D fascicolo 1.
[xcv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 288 ff. 110v-111.
[xcvi] Reg. Ang. XXII, p. 55.
[xcvii] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 875, ff. 011-012v.
[xcviii] Archivio Arcivescovile Santa Severina, cartella 3D fascicolo 1.
[xcix] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 289 ff. 032v-033v; Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 876, ff. 024-026.
[c] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciaro, Busta 182 prot. 803, ff. 021-023.
[ci] Archivio Arcivescovile Santa Severina, cartella 3D fascicolo 1.
[cii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 307 ff. 040v-041v.
[ciii] Archivio Arcivescovile Santa Severina, cartella 3D fascicolo 1.
[civ] Reg. Ang. XXII, p. 19 e p. 55.
[cv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 290 ff. 098v-099.
[cvi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 298 ff. 013-014.
[cvii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 288 ff. 019v-021v; Busta 79 prot. 300 ff. 007-008.
[cviii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 301 ff. 138v-139v.
[cix] Archivio Arcivescovile Santa Severina, cartella 3D fascicolo 1.
[cx] ASCZ, Notaio G. M. Guidacciaro, Busta 182 prot. 804, ff. 141-143v; prot. 805, ff. 031-032v; Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 288 ff. 111v-112.
[cxi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 297 ff. 082-082v.
[cxii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 295 ff. 068-069; prot. 296 ff. 018v-019v.
[cxiii] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 877, ff. 064v-065v.
[cxiv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 301 ff. 138v-139v.
[cxv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 296 ff. 018v-019v.
[cxvi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 301 ff. 138v-139v.
[cxvii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78, prot. 286 ff. 068-069v.
[cxviii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78, prot. 286 ff. 136-137v.
[cxix] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 287 ff. 011v-013.
[cxx] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 287 ff. 193-193v.
[cxxi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 290 ff. 036v-038.
[cxxii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 296 ff. 018v-019v.
[cxxiii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 296 ff. 020v-021v.
[cxxiv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 297 ff. 021-021v.
[cxxv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 301 ff. 138v-139v.
[cxxvi] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 874, ff. 107-108v.
[cxxvii] ASCZ, Notaio G.B. Guidacciro, Busta 78 prot. 290 ff. 043v-044v.
[cxxviii] ASCZ, Notaio G.B. Guidacciro, Busta 78 prot. 291 primo ff. 007v-008.
[cxxix] ASCZ, Notaio G.B. Guidacciro, Busta 79 prot. 294 ff. 108v-109.
[cxxx] ASCZ, Notaio G.B. Guidacciro, Busta 79 prot. 296 ff. 110v-111.
[cxxxi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 301 ff. 124v-128.
[cxxxii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 287 ff. 164-165v.
[cxxxiii] ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 875, ff. 004v-006v.
[cxxxiv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 297 ff. 151v-153; Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 879, ff. 011-013.
[cxxxv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 301 ff. 041-042v.
[cxxxvi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 299 ff. 025-026v; prot. 300 ff. 019-020.
[cxxxvii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 296 ff. 089v-090; Busta 80 prot. 307 ff. 028v-030.
[cxxxviii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 297 ff. 068v-070; Busta 80 prot. 306 ff. 041v-042.
[cxxxix] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 307 ff. 084v-087.
[cxl] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 297 ff. 047-047v e ff. 066v-067v; Busta 80 prot. 301 ff. 015v-016.
[cxli] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 299 ff. 040v-042; Busta 80 prot. 301 ff. 054-056.
[cxlii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 295 ff. 064v-065.
[cxliii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 290 ff. 005v-009.
[cxliv] Archivio Vescovile di Crotone, Atti della visita del vescovo Marco Rama, 1699 ff. 69v-70; Atti della visita del vescovo Anselmo del la Pena, 1720, f. 57v.
[cxlv] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 295 ff. 040v-054.
[cxlvi] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 79 prot. 297 ff. 066v-067v.
[cxlvii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 80 prot. 306 ff. 048-054.
[cxlviii] ASCZ, Notaio G. B. Guidacciaro, Busta 78 prot. 290 ff. 005v-009.
[cxlix] Archivio di Stato Napoli, Regia Camera della Sommaria, Patrimonio Catasti Onciari, busta n. 6991.
Creato il 25 Febbraio 2015. Ultima modifica: 19 Novembre 2018.