Il feudo “de Monticellis” e la grangia di S. Giovanni in territorio di Policastro
Anche se la chiesa di S. Giovanni “de Monticellis” posta in territorio di Policastro è documentata già da alcuni privilegi medievali, la sua storia durante questi secoli più antichi rimane controversa. Determina forse ciò la sua origine che appare riconducibile ad un possesso dei Templari, come evidenziano il suo titolo di derivazione onomastica[i] e, soprattutto, la sua localizzazione che, similmente ad altri casi analoghi,[ii] si rintraccia in corrispondenza di un importante attraversamento fluviale, lungo la via che collegava Policastro a Tacina. Nel quadro delle note vicende che condussero alla soppressione di quest’ordine agli inizi del secolo XIV, le terre e le pertinenze appartenenti alla chiesa di S. Giovanni de Monticelli, furono contese tra l’arcivescovo di Santa Severina e i Cistercensi dell’abbazia di Sant’Angelo de Frigillo.
Un antico possesso
Nel corso del sec. XII, il monastero di Santa Maria Requisita, poi detto della Sambucina dal nome del luogo in cui sorgeva in diocesi di Bisignano, divenne un’abbazia dell’ordine Cistercense che ebbe diversi possedimenti nella valle del Tacina. Tra questi risulta la chiesa di S. Giovanni de Monticelli che per la prima volta, compare in un atto databile tra il 1170 ed il 1180, attraverso cui papa Alessandro III, dietro istanza dell’abbate Simone e dei monaci “Sabucinen(sibus)”, comfermò loro il possesso della “eclesiam Sancti Iohannis de Montigill(o)”. Il Pratesi che trascrisse questo atto dall’originale, evidenzia in nota alla sua pubblicazione che giudicava le parole “ecl(esi)am” e “de Mo(n)tig(i)ll(o)”, riscritte “su rasura da altra mano”.[iii] L’esistenza di falsi tra le carte dell’abbazia, fabbricati ad arte a posteriori per dare leggittimità a questo come anche ad altri possessi, anche se altera la ricostruzione storica, ci consente, comunque, di evidenziare i protagonisti principali delle vicende più antiche riguardanti questa chiesa.
Il 29 dicembre 1188 papa Clemente III, dietro istanza di Guglielmo abbate e dei “fratribus” del monastero di “Sancte Marie Requisite”, confermava i loro possessi, tra cui risulta la “ecclesiam Sancti Iohannis de Monticellis cum terris, vineis et ceteris pertinentiis suis”.[iv] Questa situazione risulta confermata dai altri documenti successivi quando, alla fine del secolo XII, prima Celestino III e poi Innocenzo III, su istanza dell’abbate Luca e del convento di Santa Maria della Sambucina, come avevano fatto i loro predecessori Eugenio III, Alessandro III e Clemente III, presero il monastero sotto la loro protezione, confermandone i possessi e concedendo immunità e diritti.[v]
Una nuova abbazia
La situazione dei possedimenti della Sambucina nella vallata del Tacina fu riorganizzata nei primi anni del Duecento, quando fu costituita una nuova abbazia cistercense in territorio di Mesoraca, elevando a questo grado la grangia di Sant’Angelo de Frigillo, cui furono sottoposte la dipendenza di Santo Stefano de Vergari, ottenuta per permuta con l’arcivescovo di Santa Severina, assieme a quelle di Santa Maria de Archelao e di S. Nicola de Pinito ricordate come già appartenenti ai cistercensi.
Nel giugno del 1202, Bartolomeo arcivescovo di Santa Severina, con il consenso del capitolo, concedeva all’abbazia della “immaculate Dei genitricis de Sabucina”, il monastero pertinente alla sua arcidiocesi detto “Sanctum Stephanum de Abrigari quod est in territorio Mesurace”, mentre i Cistercensi cedevano all’arcivescovo le loro tre grangie esistenti in territorio di Policastro: “Sanctum Iohannem de Monticello” (ἅγιων ʼIωάννην του Μουντικέλλου), Santa Maria di Cardopiano e S.to Dimitri. L’accordo prevedeva inoltre che, per compensare l’annuo censo di tre libre di cera che la chiesa metropolitana di Santa Severina aveva percepito fino a quel momento dalla Sambucina per le sue grangie di “Sancti Angeli de Frigillo”, “Sancte Marie de Archelao” e “Sancti Nicolai de Pinito”, l’abbazia indennizzasse l’arcivescovo attraverso la cessione di “villanos quatuor in terra Policastri”, con l’obbligo per il nuovo abbate d’intervenire al sinodo diocesano.[vi]
Questa nuova situazione relativa ai possedimenti cistercensi nei territori di Mesoraca e Policastro, non concorda con quanto riporta un atto del 6 marzo 1210, attraverso il quale Innocenzo III confermò i possessi della nuova abbazia di Sant’Angelo de Frigillo, tra cui troviamo tanto la “grangia Sancti Stefani de Abirgaria”, quanto le chiese di “Sante Marie de Cardoplano” e di “Santi Iohannis de Monticello cum terris, vineis, furestis et aliis pertinenciis suis”, oltre alla cappella di S.to Dimitri.[vii]
Secondo quanto riferisce un atto successivo del giugno del 1219, la “ecclesiam Sancti Iohannis de Monticello in tenimento Policastri” fu ceduta ai Cistercensi dall’arcivescovo di Santa Severina Dionisio che, “cum consensu et voluntate capituli nostri” e per la salute della propria anima, la concesse all’abbate “Haymoni” e al convento dell’abbazia di “Sanctus Angeli de Frigilo”, “cum omni iure et iustis pertinentiis suis”, fatta eccezione per i “villanos” ed i loro possedimenti che la chiesa metropolitana aveva precedentemente ottenuto dalla Sambucina in cambio delle “emunitates et libertates” di “Sancti Angeli de Frigillo”, “Sancti Stephani de Arbergaria”, “Sancte Marie di Archelao” e “Sancti Nicolai de Pineto”.[viii]
Il possesso di S. Giovanni de Monticello da parte dell’abbazia di Sant’Angelo de Frigillo è ribadito da due privilegi immediatamente successivi. Nel primo dato da Maida nel maggio del 1223, Federico II imperatore e re di Sicilia, prendeva sotto la sua protezione l’abbazia di “Sancti Angeli de Frigillo”, “cum hominibus, rationibus et pertinenciis suis ac aliis eiusdem obedienciis”, tra cui risulta la “domum Sancti Iohannis de Monticello”.[ix] Nel secondo privilegio (maggio 1225), molto frammentario, lo stesso Federico II confermava i possessi dell’abbazia, tra cui troviamo elencata la “grangiam Sancti Iohannis de Monticello”.[x]
La struttura fondiaria
Poste nella vallata del Tacina in prossimità del fiume, le terre che costituivano la grangia di S. Giovanni, particolarmente ricercate per il pascolo del bestiame che, durante la stagione invernale discendeva dai monti della Sila, erano organizzate analogamente ad altre grange esistenti nel Crotonese durante questo periodo. Tale organizzazione prevedeva l’esistenza di una gabella principale, all’interno della quale sorgeva la chiesa con i suoi edifici rurali (magazzini, stalle, officine, ecc.), di una seconda gabella più piccola limitrofa alla prima, dove i monaci detenevano solo lo jus arandi, e di alcuni appezzamenti concessi a censo a particolari, che si erano impegnati a dissodare lo spazio incolto circostante.
Parte di tale strutturazione del “loco” detto “Monticello” che costituiva un subfeudo di Policastro, si evidenzia già attraverso un atto del settembre 1228 (?), riguardante il prestito di cento tareni da pagare in cinque anni, concesso dall’abbazia di Sant’Angelo de Frigillo a Costancio ed a sua moglie Sarracena che, allo scopo, avevano ceduto in pegno all’abbazia, la propria “possessionem” posta “in loco qui dicitur Monticellus cum terris cultis quam incultis, cum arboribus domesticis et silvestribus, tum ex empcione tum ex feudo”.[xi]
L’esistenza di appezzamenti di questo genere si evidenzia anche in un atto dell’aprile 1254 dove, tra i beni della dote di Dilassa figlia di Johannes Lambardo, troviamo un terreno nella località di “Monticelli” (Μουντικέλλη), nel quale si potevano seminare 10 moggi (μωδίων) di grano, confinante con le terre di Proubilla, le terre del giudice Alexandro, le terre di Riccardo Gato e quelle del παπα Costantino.[xii]
Una grangia cistercense
Le vicende di S. Giovanni de Monticello subirono una svolta importante agli inizi del Trecento, come evidenzia anche il Pratesi quando riferisce che “verso la fine del sec. XIII l’arcivescovo Ruggero ne rivendicasse ancora il possesso, finché nel 1316 l’arcivescovo Lucifero non la restituì al monastero cistercense”.[xiii] Deve risalire a questo periodo, infatti, il momento in cui la chiesa fu abbandonata dalla sua comunità ecclesistica originaria, passando così ai Cistercensi di Sant’Angelo de Frigillo attraverso un accordo evidentemente intevenuto con l’arcivescovo Lucifero.[xiv]
Sembra avvalorare la scomparsa della chiesa già durante il periodo medievale una “Platea” compilata al tempo del conte di Catanzaro Giovanni Ruffo, che non ne fa menzione pur dettagliando la località (“monticellum”): “… deinde descendunt per ipsas serras ad viam publicam S. Venetiae, descendendo abinde per estas serrarum ad locum qui dicitur monticellum in Vallone et per ipsum vallonem vadunt ad serras Vultii et per ipsas serras ad Cortem Camarotae, quod est in Capite Vallonis Bissorti et concludunt in flumine Tachinae unde primo incepimus.”[xv]
Tracce di quella che doveva essere stata la sua originaria appartenenza si evidenziano ancora durante la prima metà del Quattrocento nella documentazione vaticana, attraverso cui apprendiamo che la chiesa di S. Giovanni de Monticelli era fondata su un semplice beneficio di collazione papale, la cui rendita, venuta meno la comunità ecclesistica, si conferiva ad un rettore nominato dal papa e non dalla comunità abbaziale. Tra i benefici con cui fu provvisto dalla curia vaticana il canonico della chiesa di Cosenza “Angelo de Pasquali” il 23 marzo 1422, risulta quello di “S. Joannis de Monticellis s.c.” vacante per la morte di “Antonii Serra rectoris”.[xvi]
In questa fase abbiamo certezza anche che la chiesa di S. Giovanni de Monticello costituiva una grangia dell’abbazia cistercense di Sant’Angelo de Frigillo. Il 22 gennaio 1445, nell’accampamento regio presso Crotone, re Alfonso de Aragona confermava all’abbate Nicolao e al monastero di “Santi Angeli de frigilio” tutti i loro possedimenti, tra cui il “tenimentum sancti johannis de monticello, ubi grangia ipsius monasterii est fundata, cum herbagiis glandagiis terragiis et juribus aliis suis.”[xvii] Pochi anni dopo però, “ad preces Alfonsi, Regis Siciliae”, l’abbate Nicolao, fu rimosso dal papa Nicola V sotto l’accusa di aver dilapidato i beni dell’abbazia (1451),[xviii] aprendo così alla lunga stagione della commenda, che condurrà rapidamente Sant’Angelo de Frigillo al suo completo declino.[xix]
Il subfeudo
La rendita dell’antica abbazia abbandonata da tutti i suoi monaci e ormai in rovina,[xx] fu così assegnata ad un abbate commendatario nominato dal papa,[xxi] mentre il feudo di Monticello in cui era esistita la grangia cistercense, seguì una strada differente pervenendo in potere di Enrico de Cumis di Catanzaro investito dal re.
In questo quadro composito, un atto del 16 marzo 1468 riferisce che la “eccl(es)iam sine cura sancti johannis de monticellis”, la cui rendita annua stimata non eccedeva i cinque fiorini d’oro, era stata assegnata all’arciprete di Cutro Dominico de Albo, ma l’assegnazione era stata poi sospesa,[xxii] mentre troviamo in seguito, che la chiesa fu ottenuta “in commendam” dall’arcivescovo di Santa Severina Errico delo Moyo (1483-1488), dopo la cui morte passò a “Iohanni de Ranaldis, clerico Firman. dioc”. [xxiii]
A quel tempo, il feudo “de monticello” era detenuto da “Tomasino” o “Tomasinello” de Cumis,[xxiv] figlio di Enrico, i cui eredi lo possedevano ancora agli inizi del Cinquecento ed a questo titolo, pagavano l’adoha al conte Andrea Carrafa feudatario di Policastro. Il 28 ottobre 1518, in un esposto presentato alla Regia Camera della Sommaria, gli eredi di “Tomasius de Cumis” di Catanzaro, asserivano di essere molestati dal regio tesoriere di Calabria Ultra, relativamente al pagamento dell’adoha per i “pheudi tenino in questa provintia”, specificando di non aver altri feudi “che uno in policastro no(m)i(n)ato de monticello del q.ale sempre è stato solito adohare al s. Conte de policastro”, come appariva dalle “polise”.[xxv] Troviamo successivamente menzione di questo possesso da parte del detto Tomasio e di suo padre Enrico, tra le “Intrate de la Terra de Policastro” riportate nel relevio di Galeotto Carrafa presentato alla morte dello zio Andrea (ottobre 1526), dove sono annotati tanto “li censuali furon de Henrico de Cumis duc. 6.4.1”, quanto “lo herbaggio del Feudo, che fu del predicto Henrico duc. 20.0.0”.[xxvi]
Al tempo dei Carrafa
Al tempo in cui Policastro appartenne al dominio feudale dei Carrafa, l’arcivescovo di Santa Severina possedeva il “curso de santo jo a monticello”.
Il possesso di terre in territorio di Policastro da parte del detto arcivescovo è testimoniato già da una richiesta prodotta dal procuratore della Mensa Arcivescovile Paolo Magnavacca, fatta a seguito della compilazione della “Reintegratio seu platea bonorum demanialium, et feudi terrae Policastri fatta per Franciscum de Jasio sub anno 1520”,[xxvii] attraverso cui il detto procuratore chiese l’intervento del conte, a riguardo di una controversia con l’università relativa ai possedimenti arcivescovili in Policastro.
Il detto procuratore evidenziava che l’università di Policastro avrebbe voluto esigere indebitamente dalla Mensa Arcivescovile “per certe Terre che possiede detta Chiesa nel Territ.o di Policastro” ducati 5, pretendendone sino a 40 “per la contributione della compositione”, che la detta università doveva pagare “per la gratia appuntata della Reintegratione fatta per M.s Francesco Jasio Reg.o Commiss.o in la Terra e tenimento p.to”. Reintegrazione che secondo detto procuratore, la chiesa di Santa Severina non era tenuta a pagare, sia di diritto, sia perché “d’essa non fu reintegrata cosa alcuna né meno per la transattione consequerà aumento alcuno”.
In relazione alla questione, il 23 giugno 1522 il conte disponeva che la richiesta dell’arcivescovo fosse soddisfatta, reiterando l’ordine il 18 maggio 1524, quando, anche in relazione alla “Essattione della decima dell’agni Et frutti lattocinii di tutte le mandre de pecore” che ogni anno “stacciano” nei “Tenimenti della Diocese di S.ta Severina”, essendo stati reintegrati alla Corte Comitale “li Cursi del tenimento della Terra nostra di Policastro”, si ordinava che la detta chiesa potesse pacificamente riscuotere dette decime cosi come avveniva in tutta la diocesi.[xxviii]
Le annotazioni contenute nel libro delle entrate di Santa Anastasia, documentano il percepimento delle somme da parte della Mensa Arcivescovile di Santa Severina, per gli affitti relativi all’erbaggio del “curso de santo jo a monticello” durante il triennio 1545-1547 e per l’anno 1566.[xxix]
Creditori e debitori
Le antiche pretese che gli arcivescovi di Santa Severina vantavano sulle terre di Monticelli, riuscirono ad essere definitavamente affermate al tempo in cui il potente cardinale Francesco Antonio Santoro fu arcivescovo della città (1573-1583), quando trovò compimento una complessa operazione speculativa che, da un lato, fece leva sui debiti accumulati dal feudatario e dall’altra potè sfruttare la compiacenza degli amministratori dell’università che, con il pretesto di voler liberare Policastro dal feudo, riuscirono ad indebitarla senza rimedio in favore degli speculatori.
Dopo la morte di Galeotto Carrafa “olim conte di Santa Severina, utile signore di Policastro”,[xxx] nel 1557 suo figlio Andrea presentò il relevio, denunciando tra gli altri feudi, Policastro con le sue dipendenze.[xxxi] Dietro l’istanza dei creditori di suo padre però, il feudo andò all’asta e fu acquistato dal barone di Sellia Giovan Battista Sersale per 22.000 ducati (1564). A questo punto l’università di Policastro avanzò la richiesta di essere immessa in demanio regio e avendo ottenuto tale condizione nel 1568, attraverso i buoni uffici dell’arcivescovo Francesco Antonio Santoro, restò debitrice nei confronti del barone di Sellia per la somma che costui aveva pagato all’asta. Il denaro necessario per onorare tale debito fu concesso in prestito dalla duchessa di Castrovillari Isabella Caracciolo, alla quale l’università cedette in cambio le proprie entrate, sprofondando così in una spirale debitoria senza rimedio.
Tra le entrate di Policastro possedute dalla detta duchessa nel 1574, troviamo ancora “la gabella delli surdati et vignali de monte letto”[xxxii] (sic), ma i documenti successivi evidenziano che, in questo quadro generale indebolito ad arte, l’università alienò il suo subfeudo di Monticelli in favore dell’arcivescovo di Santa Severina, per saldargli il mancato pagamento delle decime avvenuto negli anni precedenti.
La circostanza emerge attraverso la testimonianza dell’arcivescovo Francesco Falabella che, scrivendo il 4 marzo 1663 al vicario foraneo di Policastro D. Dom.co Cepale, ricordava che “Dovendosi dar’inaffitto conf.e al solito la Difesa chiamata della Serra di q(ue)sta Mensa Arciv(escov)ale, assignatali da cotesta Uni(versi)tà p(er) transat.ne delle X.me insieme con la Cabella di S. Jannello”, questo passaggio era stato realizzato al tempo in cui era intervenuto l’accordo con l’università di Policastro in merito al pagamento delle decime.[xxxiii]
Anche se questa transazione riparatoria reggerà fino alla promulgazione delle leggi di eversione della feudalità, sappiamo comunque che non fu mai perfezionata, essendo rimasta priva del regio assenso. Più tardi, infatti, la relazione dell’avvocato Giuseppe Domenico Andreoni (1686), visitatore di Policastro per parte della famiglia Medici, ripercorrendo le occupazioni e le usurpazioni a carico dei beni feudali verificatesi nel passato, affermava: “V’è parimenti un’altra tenuta demaniale di fatto, senza R. Assenso e perciò indebitamente tenuta dall’Arcivescovo in ricompensa di certe decime per gli animali minuti; comunque tale effetto feudale si potrebbe bonariamente recuperare”.[xxxiv]
Gli inventari conservati presso l’Archivio Arcivescovile di Santa Severina, menzionano tra le “Scripturae Diversae pro Mensa Archiepiscopali”, alcuni documenti che ci consentono di datare tale nuovo accordo nel periodo 1571-1572.[xxxv] Relativamente a questo periodo, si conserva anche un contratto d’affitto dove, rispetto alla concessione a pascolo con pagamento dell’erbaggio in maggio, si evidenzia l’affitto a semina con pagamento in settembre.
Il 23 gennaio 1574, nel palazzo arcivescovile di Santa Severina, innanzi al notaro Marcello Santoro, si costituivano D. Pietro Modio e D. Fabio Infosino, rispettivamente arcidiacono e decano della cattedrale, da una parte, e “Don(n)us petrus papaianni de policastro” dall’altra, per stipulare il contratto di affitto con il quale l’arcivescovo “affictasse et locasse quamdam Cabellam archiep(iscopa)le cur.e nominata s.to joanni monticello positam in terr.o terrae policastri” a Petro Papaianni e Antonino Nicotera per quattro anni continui, cominciando dal prossimo mese di agosto per il prezzo di 140 ducati annui. I due affittuari, come espressamente previsto “in Pacto inter nos” stipulato dal notaro apostolico Jacobo de Rasis, s’impegnavano a pagare subito 400 ducati ed il restante alla scadenza naturale.[xxxvi]
I confini della gabella
Dalla platea relativa a tutti i redditi, censi e beni appartenenti alla Mensa Arcivescovile di Santa Severina posti in territorio di Policastro, compilata nel 1576 dal giudice Hieronimo Faraco di Policastro e dal notaro Giovanni Berardino Campana, su richiesta di D. Giovanni Antonio Grignetta procuratore generale dell’arcivescovo di Santa Severina, rileviamo nel dettaglio i confini della “Gabella di Santo Giovanni in Monticello, quale è proprio dell’Arcivescovato”: “Item la detta Mensa Arcivescovale tiene una gabella nel territorio di Policastro detta Santo Giovanni à monticello, la quale confina con lo fiume di Tacina, e lo feudi di orrico, e le terre dell’heredi di Gio. Dom.co Scandale, e la gabellucia dell’Epifania della Rocca Bernarda, e le terre del m.co Antonino Campana, qual’è affittata à Diacono Gio. Pietro Papaianne, Giovanni Bruno, et Antonino di Nicotera per docati cento quaranta.”[xxxvii]
A quel tempo, la Mensa esigeva anche un censo perpetuo relativamente ad un possedimento più piccolo confinante con la gabella di S. Giovanni: “Li mag.ci Ferrari teneno uno pezzo di terre al magazeno, territorio di Policastro, iuxta la gabbella di Santo Giovanni, e la Pizzuta, e le terre del mag.co Gio Battista Campana, del quale pagano annuatim, ut supra, alla mensa Arcivescovale carlini quattro dico 0.2.0.”[xxxviii]
Il pagamento di questo censo perpetuo è documentato anche in seguito. Tra i “Forastieri Bonatenenti non abitanti Laici” annotati nel catasto onciario di Policastro (1742), troviamo D. Gregorio Morelli di Cutro, che possedeva “una Gabella di terre aratorie d.ta Le Magazena stabbilita la rend.ta d. 90”, con il peso nei confronti della Mensa Arcivescovile di Santa Severina “per annuo Canone d. 0=40.”[xxxix] Ancora alla fine del Settecento, tra i censi perpetui appartenenti alla Mensa Arcivescovile di Santa Severina “In Policastro”, troviamo quello che pagava “D. Nicola Spagnolo di Cutro sopra li Magazeni del S.r Morelli d. 0.40”,[xl] e che si esigeva da “D. Nicola Morelli di Cutro sopra la Gabella detta le Magazena d. 000:40.”[xli]
Santo Iannello
Alla fine del Cinquecento la Mensa arcivescovile di Santa Severina possedeva ormai stabilmente il territorio appartenuto in passato alla chiesa di S. Giovanni,[xlii] che non risulta più tra le entrate baronali di Policastro, come rileviamo negli ultimi anni del secolo e durante i primi del successivo, quando queste entrate furono sequestrate dalla Regia Corte perché la situazione finanziaria di Policastro era divenuta così degradata da non consentire all’università di poter più far fronte ai propri pagamenti fiscali.
A cominciare dagli anni 1598-99 e per i primi anni del Seicento, presso l’Archivio di Stato in Napoli, sono conservate le registrazioni delle entrate relative agli affitti dei feudi di Policastro da parte della Regia Corte,[xliii] tra cui troviamo gli atti di Camillo Romano “olim” Tesoriere di Calabria Ultra relativi agli anni 1601-1602, che registrano la lite sulle eredità e le frodi che coinvolsero Giulio Cesare e Scipione Pisciotta, eredi del quondam dottore Aniballe Pisciotta loro zio possessore delle entrate feudali di Policastro, il clerico Gasparro Venturi e la Duchessa di Castrovillari.[xliv] Altre tracce di questi affari ci pervengono attraverso la testimonianza del Sisca, il quale ci informa che: “Lucio Venturi sposò D. Maria Oliverio di Catanzaro che portò una pingue dote consistente in un palazzo a Catanzaro, un terreno di 16 tomolate oltre a denaro liquido. Egli, a sua volta, acquistò molti feudi: Santo Iannello, Ieni, Garrufi, Mangiacardone o Grandinetti, Zaccarella, Galioti”.[xlv]
Come rileviamo già da questa annotazione del Sisca, a cominciare dai primi anni del Seicento l’antico toponimo di S. Giovanni de Monticelli scomparve, mentre fece la sua comparsa quello di “S.to Jannello”, “S. Joannello” o “S. Gioannello” che, a seguito di un ridimensionamento, identificò il nuovo possesso arcivescovile, continuando a permanere fino all’attualità (“S. Iannello” e F.so S. Iannello”).
Il 19 maggio 1602, il cl.o Joannes Dom.co de Franco di Scandale, procuratore della Mensa Arcivescovile di Santa Severina, riceveva ducati 70 per la decima da Joannes Maria Giacco e Fran.co de Romano del casale di Aprigliano che, durante il presente anno, avevano tenuto “in affitto, et in herbaggio”, le “gabelle” dette “il magazeno, S(a)nto Jannello, et Baodino” poste nel territorio di Policastro, dove avevano pascolato le loro pecore.[xlvi]
Relativamente alla prima metà del Seicento, sappiamo che l’arcivescovo di Santa Severina affittò dal primo di settembre 1625 fino a tutto agosto 1626 al mag.co Marco Antonio Scorza “Januense”, “Incola” nella terra di Cutro, le entrate della Mensa Arcivescovile tra cui: “la Gabella di S.to Jannello docati Cento Trenta.”[xlvii] I suoi confini che ripercorrono i limiti con altre terre che erano appartenute anticamente alla grangia, emergono da alcuni atti della prima metà del secolo: la località detta “rese”,[xlviii] “la gabella della monaca” che, a sua volta, confinava con la gabella detta “la Caracciola”[xlix] e con la gabella detta di “Santi Angeli” (toponimo riferito all’abbazia de Frigillo), a cui appartenevano anche i “Viridarii, molendinorum, censuum, ac petii terrae dittae La costa sop.a la Nunciata di q.sta Città”.[l]
L’erbaggio
Alla metà del Seicento, le condizioni generali di povertà e incertezza che interessarono tutto il Crotonese, ebbero ripercussioni anche sulle rendite della Mensa Arcivescovile di Santa Severina. Quella della “Gabella di S(a)nto Jannello” che dalle registrazioni relative alle “Entrate in Policastro Città di d.a Diocesi” compilate il 13 aprile 1636, risultava ancora di 150 ducati,[li] in seguito si ridusse sensibilmente.
La corposa documentazione prodotta dai procuratori della Mensa che dettaglia le entrate al tempo dell’arcivescovo Giovanni Antonio Paravicino (1654-1659), ci consente di evidenziare che, analogamente al passato, la gabella di “S. Joannello” si affitava prevalentemente a “Erbaggio”.[lii] Altri atti evidenziano che relativamente al periodo 1654-1658, la Mensa Arcivescovile possedeva tra i “Cursi seu territorii con la reservat.e per ragione d’erbaggi” quello di “S. Jannello”[liii] o “di S. Gioannello”,[liv] dal quale “computato l’anno fertile e l’infertile” ricavava una rendita che poteva variare tra i sessanta e gli ottanta ducati[lv] mentre, altre volte, raggiungeva quella di cento, sia nelle annate a semina che in quelle a pascolo: “Possiede parim.te d.a mensa […] S. Gioannello, dal quale da fertile, et infertile ogn’anno cosi q.do si dà à massaria, come quando s’affitta in herbaggio se ne percipe sempre d.ti Cento l’anno”.[lvi] Altrove si specificava però che: “Da S. Jannello in g.no tt.a 120 in danari d.ti 70”, in quanto “talvolta le gabelle della Mensa vanno in herbag.o più di tre anni, come n’è avvenuto particol.te di S. Gioannello, che 18 anni n’andò sempre in herbag.o; onde all’hora sene percipe assai manco, che quando vanno à massaria”.[lvii] Anche attraverso lo “Scandaglio dell’entrate, e pesi d.a Mensa Arcv.e” e del bilancio che riguarda il triennio dal 1654 sino al 1658, apprendiamo che la rendita di “San Gioannello” aveva tali oscillazioni e se ne percepivano nel triennio ducati 300 “ed in grano l’istesso”.[lviii]
Nel 1657 si evidenziava che “li territorii di de Cotronei, e Policastro vanno vacanti di presente ogn’anno per li fuorusciti che non vi lasciano venere li pecorari”,[lix] mentre, a causa della peste che funestava la Calabria, ma che risparmiò Policastro e Mesoraca, nell’ottobre del 1656 si provvedeva a pagare i corrieri che da Mesoraca, erano stati “mandati a diverse Terre “per vedere come si regolavano per l’ordini ricorosi, che venivano della peste per potersi affitt.re li territ.ii”.[lx]
L’insicurezza generata dalla difficile congiuntura e dalla presenza dei banditi nelle campagne, rese ancora più difficile riscuotere gli affitti.
Il 6 gennaio 1652, da Policastro, il procuratore delle Mensa Arcivescovile Alfonso Campitelli scriveva un “Vigletto” all’arcivescovo di Santa Severina, rassicurandolo circa il fatto che Jacovo Gioanni delli Chiani e compagni, i quali avevano preso in affitto per quell’anno “il terr.o di S.to Jannello”, erano persone puntuali che senza alcun dubbio avrebbero pagato il prezzo dell’affitto dovuto. A maggior cautela dell’arcivescovo, il detto Alfonso affermava che, nel caso gli affittuari non avessero pagato al 25 di aprile i cento ducati pattuiti, o se fossero partiti prima “con li bovi da d.o terr.o”, avrebbe corrisposto lui quanto dovuto con il proprio denaro.[lxi]
Il valore di questo importo dell’affitto risulta anche da altri due contratti stipulati in questo periodo.
17 ottobre 1653, Policastro. Attraverso la cautela stipulata dall’attuario Gio: Ber.no Accetta, Pietro Curto e Salvatore Cavarretta di Policastro, si obbligavano a pagare alla fiera di Molerà dell’anno 1654, ducati 101 per il prezzo della vendita dell’erbaggio per questo presente anno, della gabella posta nel territorio di Policastro nominata “S.to Jannello”, iniziando dal presente e finendo ad agosto prossimo, potendola subaffittare ad altri e pascolare con animali di ogni pelo.[lxii]
4 novembre 1654, Policastro. Fabritio Saliture del Vico di Aprigliano, vaccaro del mag.co Antonio de Romano del casale del Vico, innanzi al notaro Alessandro Vecchio, attuario, si obbligava a pagare all’arcivescovo di Santa Severina assente, ovvero a D. Parise Ganguzza vicario foraneo presente, ducati cento alla fiera di S. Giovanni dell’Agli dell’anno entrante 1655, “per lo affitto del erbagio del ter.ro di San.to Jannello di quello pre.te anno”, in maniera che detto Fabritio e i suoi compagni, o i suoi subfittuari, avrebbero potuto pascolarlo dal presente per tutto il mese d’agosto prossimo venturo con animali d’ogni pelo. Il detto Fabritio s’impegnava a far ratificare detta cautela dal detto Antonio Romano.[lxiii]
I maneggi di Alfonso Campitelli
Con l’avvento dell’arcivescovo Francesco Falabella (1660-1670) la situazione cambiò. Il presule, infatti, evidentemente cosciente dell’infedeltà di chi gli amministrava i beni, s’impegnò subito ad accertare lo stato dei suoi possessi e delle sue rendite attraverso la visita delle terre della diocesi, tra cui Policastro (ottobre 1660).
In relazione all’accertamento della situazione dei possedimenti arcivescovili in questo territorio, già nel febbraio dell’anno prima, si era provveduto ad assumere “Informat.ne di q(ue)lli s’hanno pascolato la Cabella [di] S.to Joannello”,[lxiv] ovvero Paulo Carvello, Gio: Gregorio Comberiati, Paulino Juliano, Gio: Matteo Maijda, Cl.o Gio: Dom.co Barbiero e Gorio Cavarretta, “Jaconi silvagi”, assieme a Marco Mannarino, Jacinto Scalise, Andrea Ligname, Berardino de Franco, Andrea Rizza e Gio: Dom.co Moijo, tutti di Policastro.[lxv]
Gli atti evidenziano infatti che l’amministrazione di questo possesso, come di altri, non era stata esente da ombre. La gabella di S.to Jannello, essendo vicina e confinante ai possessi di Alfonso Campitelli, rientrava da tempo di fatto nelle sue diponibilità, di modo che, sfruttando la sua carica di procuratore generale della Mensa, il detto Alfonso l’affittava agli stessi che prendevano in affitto le sue gabelle, ad un prezzo inferiore rispetto al suo effettivo valore, a danno della Mensa ed a suo evidente lucro. Lo stesso avveniva per la gabella detta La Monaca appartenente al clero di Policastro che rientrava in questo affare.
Come apprendiamo da un documento del 9 aprile 1661, il mag.co Alfonso Campitello di anni 71 affetto dalla “Podagrae”, figlio del quondam Andrea, era stato fatto procuratore generale della Mensa Arcivescovile di Santa Severina insieme a D. Gio: Tomaso Benincasa di S. Mauro, da mons. Caffarelli al tempo in cui questi si era recato a Torino. Il Campitelli aveva ricoperto tale incarico per circa 12 anni, a cominciare dal mese di settembre del 1635.[lxvi]
Le diffidenze dell’arcivescovo Falabella nei confronti del Campitelli, risaltano già in occasione della stipula del primo contratto d’affitto della gabella di S.to Jannello, fatta subito dopo il suo arrivo a Santa Severina.
Il 29 dicembre 1660, il Clerico Diego Tronga di Policastro, si obbligava a pagare a mons. Fran.co Falabella arcivescovo di Santa Severina, ducati 100 alla fiera di Mulerà prossima ventura, per l’affitto della “Gabella d.a di S.to Jannello” “del dominio” della detta Mensa, posta nel territorio di Policastro. L’affitto era “in herbaggio” per tutto il mese di agosto prossimo venturo, con il patto espresso tra le parti, che il detto Diego vi avrebbe potuto associare animali d’ogni pelo “praeter porci”, potendo prendere in affitto anche altre gabelle vicine, eccetto le terre e gabelle confinanti di Alfonso Campitelli.[lxvii] Il 20 settembre 1661, il Cler.co Diego Tronga di Policastro, consegnava a D. Gio: Gregorio Vita procuratore della mensa Arcivescovile di Santa Severina, ducati cento relativi al prezzo “dell’herbaggio della Gabella di S.to Jannello” della detta Mensa per l’anno 1661, maturato all’otto di settembre prossimo passato.[lxviii]
I motivi di tale presa di posizione da parte dell’arcivescovo si evidenziano in una lettera a titolo di obbligazione, inviatagli dal Campitelli qualche settimana dopo, in occasione della formalizzazione del nuovo contratto della gabella per l’annata a venire. In tale occasione, infatti, l’arcivescovo si era accordato direttamente con i “vaccari” per il prezzo di 130 ducati.
L’undici ottobre del 1661, in Policastro, Alfonso Campitelli scriveva all’arcivescovo, facendogli rilevare che “in tempo della mia procura”, l’affitto della “gabella di S.to Jannello” era aumentato a 150 ducati, come si evinceva dai suoi conti, in quanto egli aveva mirato “semp.e all’avanzo e non alla deteriorat.ne” e che, a quel tempo, egli non possedeva le gabelle confinanti. In considerazione del fatto, che i vaccari avevano ottenuto la riduzione del prezzo, anche se lui non li aveva né visti né ci aveva parlato, né lo avevano fatto altri della sua famiglia, e considerato che l’arcivescovo si era accordato per il prezzo di ducati 130, egli si contentava che la gabella restasse a lui sino ad agosto per questo stesso prezzo.
Il Campitelli affermava inoltre, che l’erbaggio della “gabella della monaca” lui lo aveva preso in affitto da più reverendi “ed in specie da Parochi Arcip.i e Preti Vecchi e giovani” che lo avevano forzato e costretto, perchè lui non aveva questo proposito, aggiungendo che l’aggiudicazione era stata fatta “publica” nella piazza, nota a tutto Policastro, e lui aveva pagato già da un anno il prezzo dovuto che, seppure basso, era comunque quanto anche altri avrebbero pagato, atteso che nel passato la gabella era stata presa in affitto per 40 ducati e anche meno.
Il Campitelli considerava quindi che “Si che l’imbroglio”, se era stato fatto “in pregiud.o d’alcuni preti”, lui non ne aveva colpe avendo comunque pagato il dovuto, mentre era stato costretto anche a tenere sul posto un uomo dal primo d’agosto per pericolo degl’incendi. Egli affermava infine, che si considerava servitore fedele dell’arcivescovo “Come lo testificano le mie antepass.te fatiche e dilig.e che me ne preggio e ne spero remunerat.ne da S.ta Anastasia all’altra Vita, cosi come ne sono stato da d.a Santa remunerato in q.a”.[lxix] I fatti successivi dimostrano che l’accordo fu trovato in maniera più equa per gl’interessi arcivescovili.
Il 7 settembre 1662, il mag.co Alfonso Campitelli, in relazione alla sua obbligazione dell’undici ottobre 1661, consegnava a Gio: Gregorio Vita procuratore dell’arcivescovo Fran.co Falabella, ducati 130 “pro affictu herbagii Cabellae S. Joannelli d.ae Mensae Archie(pisco)pali existen. in pertinentiis Policastri” per il corrente anno 1662, maturato all’attualità.[lxx]
A seguire, il 26 novembre 1662, il detto Alfonso si obbligava poi a pagare all’arcivescovo ducati 210 alla fiera di Molerà dell’annno 1663, così ripartiti: ducati 140 per l’affitto “dell’erba di S.to Jannello” della Mensa Arcivescovile e ducati 70 per l’affitto dell’erba della gabella “della Monaca” del R.do Clero di Policastro, con il patto di poterle pascolare dal presente sino ad Agosto prossimo con animali d’ogni pelo e subaffitare liberamente.[lxxi] Il 7 settembre 1663, in Santa Severina, il mag.co Alfonso Campitelli di Policastro, a seguito della sua lettera di obbligazione del 26 novembre 1662, pagava i ducati 140 dovuti “pro affictu herbagii Agri, sive Cabellae S. Joannelli” della Mensa Arcivescovile dell’anno 1663 maturato alla data odierna.[lxxii] Successivamente, invece, la gabella fu affitata per un triennio ad ogni uso.
Il 31 marzo 1663, Jo: Vincentio Miniscalco, Fran.co Panaija, Jo: Baptista Juliano, Salvator Drammis, Petrus Jo: Percoco, Leonardo Godino e Jo: Baptista Meo, tutti di S. Mauro, si obbligavano nei confronti di mons. Falabella, a pagare ducati 390 per l’affitto dell’“Agri, seu Cabellae vulgo nuncupat. S. Jannello” della Mensa Arcivescovile esistente nel territorio di Policastro, tanto ad uso di massaria che di erbaggio, cominciando dall’otto settembre 1663 fino all’otto settembre 1666. Il pagamento sarebbe avvenuto in questo modo: ducati 130 all’otto settembre 1664, ducati 130 all’otto settembre 1665 e ducati 130 all’otto settembre 1666. Gli affittuari avrebbero potuto associare e subaffitare.[lxxiii]
L’intransigenza dell’arcivescovo verso coloro che avevano approfittato, risalta anche dal rigore con il quale egli agì nei confronti di altri abusi minori perpetrati a suo danno nella gabella. Il 22 novembre 1660, in Cutro, Gio: Paulo Accetta di Policastro “Serv.te della Chiesa”, si obbligava a pagare a mons. Falabella, carlini 30 il 25 di dicembre prossimo futuro, per “la pena” relativa al “danno” procurato da due suoi bovi “nell’herbaggio della Gabbella di S.to Jannello” e similmente, a pagare il danno procurato dai detti bovi “in d.a herba” per come verrà accertato e per come sarà condannato a pagare.[lxxiv] Due giorni dopo, in Santa Severina, Gio: Paulo Accetta di Policastro “Serviente della Corte” assieme a Ferrante Coco di Policastro, si obbligavano a pagare a mons. Falabella la pena relativa al “danno” procurato da due bovi “nella Gabbella di S. Joannello della R.a mensa Arciv(esco)vale”.[lxxv] Il 6 maggio 1661, Gio: Gregorio Vita economo della Mensa Arcivescovile, dichiarava di aver ricevuto da Gio: Paulo Accetta di Policastro carlini 20 per il saldo e final pagamento di altrettanti, dovuti per il danno procurato alla “gabella di S. Gioannello” della detta mensa fatto dai bovi di Ferrante Coco.[lxxvi]
La rendita aumenta
Alla fine del secolo troviamo che la rendita della “Terreno” o gabella di S. Jannello era sensibilmente aumentata, come testimoniano i seguenti contratti.
Il 12 ottobre 1697, in Aprigliano, il m.co Gio: Vincenzo de Bono della città di Cosenza commorante nella bagliva di Aprigliano, si obbligava a pagare in occasione della fiera di Molerà dell’anno seguente 1698, al procuratore della Mensa Arcivescovile di Santa Severina, ducati 185 per l’affitto del “Terreno nominato Santo Jannello”, nonché di pagare al R.mo Sig.r cardinale Acciaijuoli “commendatario dell’Abbadia di Fringille”, ducati 30 quali erano per l’affitto del “Terreno desso Sant’Angelo e suoi vignali”, nonche di pagare al procuratore del Seminario di Santa Severina ducati 22 per l’affitto della gabella detta “la Caracciola”. Tutti i terreni si trovavano siti e posti nel territorio di Policastro. Si pattuiva inoltre, che il detto Gio: Vincenzo avrebbe potuto fare pascolare dette “Cabelle” con animali d’ogni pelo, eccetto porci escluso quelli “p(er) uso di baccarizzo”, cominciando l’affitto dal trascorso mese di settembre e finendo al primo di agosto dell’anno 1698.[lxxvii]
Il 5 aprile 1699, in Santa Severina, Giacinto Serra e Gio: Aiello del “Casale delli Marsii bagliva d’Aprigliano”, assieme a Dom.co Bianco di Aprigliano, si obbligavano a pagare al procuratore della Mensa Arcivescovile di Santa Severina, ducati 180 alla fiera di Molerà seconda ventura dell’anno 1700, per l’affitto “dell’erbaggio della Cabella detta San.to Jannello” della Mensa Arcivescovile, nonchè di pagare ducati 22 e ½ al procuratore del Seminario di Santa Severina per “la Cabella detta la Caracciolella”, entrambe poste in territorio di Policastro, per un totale di ducati 202 e ½. L’affitto si pattuiva per ogni sorta d’animale, dall’otto di settembre del presente anno all’otto di settembre del 1700.[lxxviii]
Un “Antichissimo possesso”
La “gabella detta S. Jannello Rend.ta d. 136.60” risulta tra i possedimenti della Mensa Arcivescovile di Santa Severina esistenti in territorio di Policastro alla metà del Settecento, come riporta il catasto onciario (1742)[lxxix] e come conferma una fede del 26 febbraio 1765 prodotta dall’archivista del “Regale Archivio de’ Catasti del Regno” di Napoli.[lxxx] La “Badia di S.to Angelo” invece, possedeva nel medesimo territorio “La gabella detta S. Angelo Rend.ta d. 30”[lxxxi] che confinava con la precedente.[lxxxii]
La stessa rendita della gabella di “S. Jannello” risulta in una fede del cancelliere dell’università di Policastro Simone Mayda del 3 novembre 1798, dove è scritto che dal “Libro catastale” del corrente anno 1798, risultava che la “partita della Mensa Arcivescovile di S. Severina” era composta da diverse entrate, tra cui quella relativa alla “Gabella detta S. Jannello d. 136.60”.[lxxxiii] Una rendita sottostimata. A quel tempo, infatti, la gabella “nobile” di “Santo Iannello” si trovava affittata a D. Nicola Scalise: “In Territorio di Policastro. Santo Iannello. Gabella nobile dell’estenz.ne di tt.e 280. D. Nicola Scalise deve in 7mbre 1796 ultimanno del 3nnio d’affitto di d.a Gab.a c.e per obligo stipulato dal N.r Rossi di di Policas.ro. d. 240”.[lxxxiv]
I suoi confini già menzionati agli inizi del Seicento, sono ribaditi da un altro documento: “In Policastro. Un fondo denom.to S. Jannello. Di estenzione tt.e 203 terra 102 aratoria 86 a pascolo, e 15 sterile. Da di rendita come dal Catasto 336 (sic). Confina colla Caracciola, la Monaca e Volta di Lumbro. Da di rendita come dal Catasto d. 213.38.1.”[lxxxv] Ancora nella prima metà dell’Ottocento, tra le annotazioni relative ai beni appartenenti alla Mensa Arcivescovile di Santa Severina, risultava l’affitto della gabella: “Polic.o. 59. S. Jannello Vincenzo Lombardo 220”.[lxxxvi]
Nello “Stato attivo di tutte le Rendite de’ Fondi appartenenti a questa R(everendissi)ma Mensa Arcivescovile di Santa Severina, redatto sopra i documenti Legati sistenti nell’Archivio di questa R(everendissi)ma Curia, ed in quello di questa Arcidiocesana” redatto il 28 aprile 1848, troviamo che in “Policastro”, questa possedeva il fondo rustico “Di Antichissimo possesso” denominato “Santo Jannello” che a quel tempo, era condotto da Gaetano Schipano di Policastro per l’affitto di annui ducati 210.[lxxxvii]
Note
[i] Il 18 luglio 1271 Carlo I d’Angiò nominava “Randisio de Monticellis, mil., e Gualtiero di Monte Ursello, custodi delle strade e dei passi da Machilone a Rieti, e da Montereale a Rocca di Corno e Valle di Narni, col distretto di Matrice ed il passo di Radico”. Reg. Ang. VI, 1270-1271, p. 259 n. 1400.
[ii] Rende P., Dall’ordine della “Militiae Templi” a quello Gerosolimitano, la chiesa di San Giovanni di Santa Severina (sec. XII-XIV), www.archiviostoricocrotone.it
[iii] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 78-79. Russo F., Regesto I, 358.
[iv] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 86-90.
[v] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 116-122 e pp. 146-151.
[vi] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 168-175. Guillou A., Les Actes Grecs des Fonds Aldobrandini et Miraglia XI-XIII s., Biblioteca Apostolica Vaticana, 2009, pp. 101-106.
[vii] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 241-247.
[viii] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 282-284.
[ix] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 312-314.
[x] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 335-339.
[xi] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 360-361.
[xii] Guillou A., Les Actes Grecs des Fonds Aldobrandini et Miraglia XI-XIII s., Biblioteca Apostolica Vaticana, 2009, pp. 89-91.
[xiii] Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, p. xxxv, nota n. 1.
[xiv] “Luciferi Archiepiscopi Sanctae Severinae Scriptum Elargitionis. 1316 ottobre 30, Santa Severina. Copia semplice del sec. XIV, Docc. stor. Abb. 4, 86 (parte superiore) [S. Angelo de Frigilo]. Rogerius archiepiscopus Sancte Severine (ricordato: cf. Gams, Series episcoporum, p. 922; Eubel, Hierarchia catholica, I, p. 448 e II, p. XXXVIII; Taccone-Gallucci, Regesti dei romani pontefici, p. 425). Bartholomeus abbas monasterii Sancti Ang(e)li de Frigilo. Intorno all’autore v. doc. n. 226.” Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, Documenti non Pubblicati, p. 451, n. 234.
[xv] ASCZ, notaio Biondi G. F., busta 158, 1634, f. 71.
[xvi] 23 marzo 1422. “Cantori ecclesiae Cusentin., mandat ut Angelo de Pasquali de Mangono, ecclesiae cusentin. canonico, provideat de parochiali ecclesia S. Johannis de Mangono, vac. per ob. Nicolai de Valle de Thessano, et S. Mariae etiam de Mangono, per ob. Angeli de Pasquali, ac S. Joannis de Monticellis s.c., S. Severinae et Cusentin. dioc. ecclesiis, per ob. Antonii Serra rectoris.” Russo F., Regesto II, 9559.
[xvii] ACA, Cancillería, Reg. 2906, ff. 141v-142r.
[xviii] 27 settembre 1451. “Abbati monasterii S. Mariae della Fossa, Cusentin. dioc., mandat, ad preces Alfonsi, Regis Siciliae, ut diligenter inquirat de Nicolao de Liocta, Abbate monasterii S. Angeli de Fringillo Ord. Cist., S. Severinae dioc., qui accusatum de dilapidatione bonorum dicti monasterii et alii facinoribus.” Russo F., Regesto II, 11232.
[xix] Pesavento A., Il monastero di Sant’Angelo de Frigillo presso Mesoraca dal ripristino alla soppressione, www.archiviostoricocrotone.it
[xx] ACA, Cancillería, Reg. 2904, ff. 189r-190r.
[xxi] Pesavento A., Il monastero di Sant’Angelo de Frigillo presso Mesoraca dal ripristino alla soppressione, www.archiviostoricocrotone.it
[xxii] ASV, Reg. Lat. 666, ff. 136-137v.
[xxiii] 23 maggio 1488. “Cortonen. et Tiburtin. Episcopis ac Vicario Archiepiscopi Sanctae Severinae in spiritualibus generali mandat ut Iohanni de Ranaldis, clerico Firman. dioc., provideant de ecclesia S. Iohannis in Monticello, Sanctae Severinae dioc., vac. per ob. Henrici, Archiepiscopi Sanctae Severinae, qui eam in commendam habebat.” Russo F., Regesto III, 13159.
[xxiv] ASN, Regia Camera della Sommaria, Segreteria, Inventario (1529-1530).
[xxv] ASN, Regia Camera della Sommaria, Segreteria Partium, busta 99 f. s.n. Sisca D., Petilia Policastro, 1964 rist. 1996, pp. 123-124, che cita: Licterarum Parcium 23 anno 1518 f. 31.
[xxvi] ASN, Materia Feudale, Relevi, vol. 346 fascicolo 32, ff. 356v.
[xxvii] AASS, 002 A, f. 87v.
[xxviii] AASS, 001A, ff. 181 e 182v-183.
[xxix] 1545: “Da m(esser) Mario brassco per s.to Joanni monticello docati sectanta dui d. 72-0-0” (AASS, 003A, f. 25v). 1546: “Da m(esser) mario brassco per s.to Joanni monticello se have riciputo docati sectanta dui d. 72-0-0” (Ibidem, f. 37v). 1547: “Da m(esser) Mario blassco per Conto de s.to ioanni monticello have reciputo lo sup.a dicto quondam d(onn)o Jacobo rippa in pio partite Come appare per suo manuale docati Cinquanta uno tari quactro et grana Cinque d. 51-4-5” (Ibidem, f. 49). 1566: “lo curso de s(anc)to jo a monticello lo tene in affitto lo s.or jerolimo caracciolo per docati settantacinque per 3 anni lo p.o 70 d. 75-0-0”, al margine: “si paga ad maggio” (Ibidem, f. 2). 1566 (?): “S(anc)to Jo: Amonticello Ad policastro si vende in erbaggio per doc.ti settantadoi lo anno vel circa d. 72-0-0” (Ibidem, f. 9).
[xxx] Maone P., Notizie storiche su Cotronei, in Historica n. 2/1972, p. 102.
[xxxi] Pellicano Castagna M., Storia dei feudi e dei titoli nobiliari della Calabria IV, p. 146.
[xxxii] Sisca D., Petilia Policastro, 1964 rist. 1996, p. 353, il quale cita il documento conservato presso l’Archivio di Stato di Napoli: Summaria Partium Vol. 705 fol. 9 anni 1574.
[xxxiii] AASS 042A, f. 128.
[xxxiv] Sisca D., Petilia Policastro, 1964 rist. 1996, pp. 167-180.
[xxxv] “Sententia in causa decimarum Casei in terra Policastri in anno 1571” (AASS, 002A, f. 13v). “Informatio capta in T(er)ra Mesoracae per novo Jure X.me extererorum sumentium Pascua in T(er)ra Policastri: Obligatio per Do: Jo: ant.o telese affictatore X.marum Ill.mi et R.mi D. C(ar)dinalis s.tae s.nae d. Jo: laur.m de la vigna et Horatium grecum affictatores territorii de marturi in ter.o polic.i de solvendo X.marum tangentem p.to Ill.mo D. Car.li pro nova X.ma 22 martis 1572” (Ibidem, f. 13). “Obligatio per do: Jo: Ant.o telese affictatore X.marum Ill.mi et R.mi D.ni Car.lis s.tae s.nae cont.a Pirrhum Ant.nium cicugium et fran.cum martinum de petraficta affictatores terr.rii et ovilis de merindino in terr.o Policastri pro nova decima 30 martii 1572” (Ibidem, f. 13v).
[xxxvi] AASS, Protocollo notaio Santoro M., Volume 4, ff. 46v-47.
[xxxvii] AASS, 001A, f. 64.
[xxxviii] AASS, 001A, f. 63v. Annotato a margine: “et per esso, li Patri Gesuiti di Catanzaro”.
[xxxix] ASN, Regia Camera della Sommaria, Patrimonio Catasti Onciari, busta 6991, f. 78.
[xl] AASS, 082A, f. 19v.
[xli] AASS, 024B fasc. 3, f.s.n.
[xlii] 18 settembre 1598, Cutro. Davanti al notaro comparivano Joannes Tronga di Cutro e il Cler.o Fabritio Tronga suo figlio. Per consentirgli di ascendere all’ordine presbiterale, il padre donava al figlio alcuni beni, tra cui la terza parte del “terr.rio di baudino” che era stato del Cler. q.m Gio. Thom.o Tronga suo figlio, sito nel territorio di Policastro, confine le terre del q.m Gio. Ferrante Negro, “le t(er)re della Mensa Arcivescovale” e altri fini. ASCZ, Notaio Campanaro G. F., Cutro, busta 69, prot. 218, ff. 60-61.
[xliii] ASN, Tesorieri e Percettori Fs. 550/4154; Fs. 558/4162; Fs. 561/4165.
[xliv] ASN, Tesorieri e Percettori Fs. 550/4154, ff. 127-132.
[xlv] Sisca D., Petilia Policastro, 1964 rist. 1996, p. 195, il quale cita gli atti del notaro G. Domenico Sgro di Catanzaro conservati presso l’Archivio di Stato di Catanzaro.
[xlvi] AASS, 023A, ff. 187-187v.
[xlvii] AASS, 001A, ff. 131-140.
[xlviii] 4 marzo 1626. Nei mesi precedenti, Laurentio Ceraldo ordinario serviente della Regia Corte di Policastro, su istanza del cl.o D. Ottavio Vitetta di Policastro, aveva fatto esecuzione contro Stefano de Martino per un debito di ducati 86, della “gabellam seu continentiam terrarum” posta nel territorio di Policastro loco detto “rese”, consistente in tre “pezzis”: “la vota grande” confine la parte superiore delle terre che, al presente, possedeva il Dottor Horatio Venturi, “lo vallone ditto de vaudino et la via cheva attacina”; “la destra suprana”, confine la detta via e le terre di detto Dottor Horatio, e il pezzo detto “l’altra destra”, confine le terre di “s.to Jannello” e altri confini. ASCZ, Notaio Guidacciaro G. B., Busta 79 prot. 296, ff. 022v-025.
[xlix] 12 gennaio 1646. Il “Capitaneo” Joannes Dominico Aquila di Policastro, in relazione al debito di 1300 ducati che aveva nei confronti del Sig.r D. Pompeo Campitelli “Marchese di Caso Bono”, contratto relativamente all’acquisto di case ed altri stabili posti in territorio di Mesoraca e Policastro, vendeva ad Alphonso Campitello di Policastro, padre del Reverendo Ferdinando Campitelli degente nella città di Napoli, la gabella nominata “la Caracciola” di circa 7 salmate, posta nel “distretto” di Policastro, confine la gabella di “Santo Jannello” della Mensa Arcivescovile di Santa Severina, la gabella detta “la Monaca”, la gabella del “Magazeno” ed altri fini. ASCZ, Notaio Guidacciaro G. M., Busta 182 prot. 805, ff. 003v-006.
8 ottobre 1655. Il presbitero Ferdinando Campitello e suo padre Alfonso, vendevano al presbitero Sancto de Pace procuratore della chiesa di S.to Jacobo Apostolo e a Michaele Aquila, procuratore del Pio Monte dei Maritaggi lasciato dal quondam presbitero Jacobo de Aquila, l’annuo censo di ducati 66 per un capitale di ducati 660 sopra alcuni beni, tra cui la gabella di circa 8 salmate di capacità, posta nel territorio di Policastro loco detto “la Caracciola”, confine le terre della Mensa Arcivescovile di Santa Severina, il “feudum orrico”, le terre di “S.ti Joannelli” ed altri fini. ASCZ, Notaio F. Cerantonio, Busta 196 prot. 880, ff. 168-170.
[l] 4 giugno 1639. Su Richiesta del Cl.co Flaminio Blasco di Policastro, il notaro si portava nel territorio di Policastro dove si dice “la gabella della monaca”, confine la gabella detta di “Santi Angeli”, la gabella detta “la garacciola” ed altri fini, per immetterla nel possesso del detto Cl.co Framinio e di Laura Blasca sua sorella. In tale occasione, nella copia del decreto della Regia Corte di Santa Severina, si affermava che la gabella detta “la Monaca” confinava con la gabella “de S.to Jannello” della Curia Arcivescovile. ASCZ, Notaio Guidacciaro G. B., Busta 80 prot. 306, ff. 059v-064v.
[li] AASS, 023A, f. 171v.
[lii] “Herbaggi” (1653): “S. Joannello d.ti 80” (AASS, 023A, f. 140). “Erbaggi” (1653): “S. Gioannello d.ti 80” (Ibidem, f. 167). “Herbaggi, e terraggi” (1654): “S. Joanello d.ti 100” (Ibidem, f. 140v). “Erbaggi” (1654): “S. Gioannello d.ti 100.0.0” (Ibidem, f. 140v). “Decime” (1655): “S. Gioannello d.ti 100” (Ibidem, f. 129). “Herbaggi, e terraggi” (1655): “S. Gioanello d.ti 100” (Ibidem, f. 140v). “Erbaggi” (1656): “S. Gioannello d.ti 100” (Ibidem, f. 128). “Herbaggi, e terraggi” (1656): “S. Gioanello d.ti 100” (Ibidem, f. 141). “Erbaggi” (1657): “S. Gionnello d.ti 100” (Ibidem, f. 130). “Herbaggi, e terraggi” (1657): “S. Gioanello d.ti 100” (Ibidem, f. 141).
[liii] AASS, 033A, f. 134.
[liv] AASS, 033A, f. 125.
[lv] AASS, 033A, f. 125 e sgg.
[lvi] AASS, 033A, f. 138v.
[lvii] AASS, 033A, f. 135.
[lviii] AASS, 033A, f. 129 e sgg.
[lix] AASS, 023A, f. 143.
[lx] AASS, 034A, f. 31.
[lxi] “Solvit”. AASS, 030A f. 113.
[lxii] AASS 030A ff. 115-115v.
[lxiii] AASS 030A ff. 87-88v.
[lxiv] AASS, 033A, f. 1v.
[lxv] AASS, 033A, ff. 64-65v.
[lxvi] AASS 040A, f. 149 e sgg.
[lxvii] AASS 039A, ff. 44-46.
[lxviii] AASS 039A f. 149v.
[lxix] AASS 039A, ff. 159-159v.
[lxx] AASS 039A, ff. 160-160v.
[lxxi] AASS 042A, f. 90.
[lxxii] AASS 042A, ff. 132-132v.
[lxxiii] AASS 042A, ff. 119-119v.
[lxxiv] AASS 039A, f. 34.
[lxxv] AASS 039A, f. 36.
[lxxvi] AASS 039A, f. 36v.
[lxxvii] AASS, 054A, 226-226v.
[lxxviii] AASS, 054A, ff. 290-291.
[lxxix] ASN, Regia Camera della Sommaria, Patrimonio Catasti Onciari, busta n. 6991, f. 76.
[lxxx] AASS, 024B fasc. 3, f.s.n.
[lxxxi] ASN, Regia Camera della Sommaria, Patrimonio Catasti Onciari, busta n. 6991, f. 75.
[lxxxii] ASCZ, Notaio Guidacciaro G. B., Busta 80 prot. 306, ff. 059v-064v.
[lxxxiii] AASS, 024B fasc. 3, f.s.n.
[lxxxiv] AASS, 082A, f. 14v.
[lxxxv] AASS, 001A, f. 353v.
[lxxxvi] AASS, 015B, f. 81.
[lxxxvii] AASS, 027B.
Creato il 11 Novembre 2019. Ultima modifica: 11 Novembre 2019.