Vita economica di un convento nella prima metà del Settecento: S. Francesco di Paola di Roccabernarda
Le spese che il convento doveva sostenere per mantenere sei religiosi, erano stimate in poco più di duecento ducati annui. Erano esclusi dal calcolo il pane, il vino e l’olio, in quanto esso in questi generi era autosufficiente. Più della metà della spesa (57%) andava per vestire (33%) ed alimentare i frati (24%). Seguivano le spese per censi, contribuzioni, spese per i capitoli generali e provinciali, ecc. (15%), quindi quelle per riparare la chiesa ed il convento (11%), per i medici e gli ammalati (10%), la spesa per la cera (4%), ed infine per il barbiere e la lavandaia (2%). Un capitolo a parte e separato, era costituito dalle spese per la “manutenzione delle vacche”, o “vaccarizzo”.
Entrate e spese
Dall’esame dei libri del convento nella visita generale effettuata il 7 marzo 1739 dal generale dell’ordine, il frate Franciscus Sirera, e dai colleghi e frati Franciscus a Longobardis, Ludovicus Lopez Guixarro e Arnulphus Neveva, risultò che il convento di San Francesco di Paola di Rocca Bernarda, dal 26 marzo 1730 al 7 marzo 1739, aveva avuto entrate per poco più di 3100 ducati e spese per circa 3000; con una media annua quindi di circa 350 ducati.
Dall’analisi dei conti del convento dal 1734 al 1743, risulta che il convento potette contare su una entrata media annua di circa 550 ducati. La comparazione di questi dati evidenzia la sua crescita economica nella prima metà del Settecento. Dal 1738 si assiste ad un continuo aumento delle entrate che, dai circa 500 ducati dell’annata 1738/1739, passano agli oltre 700 dell’annata 1742/1743. Si può affermare che, nel decennio precedente al terremoto del 1744, tutta l’attività economica del convento è in crescita: dall’allevamento del bestiame alla produzione vinicola, da quella olearia a quella granaria.
La quantità di grano, proveniente alla raccolta dagli affitti dei terreni e dall’attività creditizia, rappresenta l’indice più importante per stabilire lo stato del convento. Pur non possedendo i dati annui relativi all’intero grano esitato, dall’esame annuale dei conti possiamo sapere la quantità di grano (annona) rilevata nel mese di settembre nel suo magazzino che, di solito, rappresentava poco più della metà del grano esitato in quell’anno. Essa col passare degli anni di continuo aumenta, passando dai 159 tomoli del settembre 1735 ai 235 del settembre 1745.
I frati
Durante il periodo preso in considerazione (1734-1745), in media nel convento abitarono stabilmente cinque o sei frati. Si va dai tre o quattro delle annate 1734/1735 ai sette o otto del 1743/ 1744. Tuttavia, in un decennio vissero nel convento, per un periodo più o meno lungo, circa una trentina di frati. Il religioso maggiormente presente, fu il frate Felice Bisciglia della Rocca Bernarda, che soggiornò continuamente fino alla sua morte avvenuta nel 1742. Sono da ricordare per la loro lunga permanenza, in ordine decrescente: fra Francesco del Pizzo, fra Francesco Ranieri, fra Pietro da Cotrone, fra Innocenzo da Migliarina, fra Gio. Gattista Grande, fra Domenico Caristo, fra Antonio La Piana, fra Bonaventura Consuli, fra Tommaso Fuduli, ecc.
Furono correttori, o ressero l’amministrazione del convento in qualità di vicari, Antonio Dominijanni da Catanzaro (1734/1735), Francesco Ranieri (1735/1739), Domenico Caristo (1739/1740 e 1742/1743), Luigi Maria Donato (1740/1741), Francesco del Pizzo (1741/1742 e 1743/1745) e Francesco Malerba (1745/1746). Il correttore durava in carica un anno, che iniziava il primo di ottobre. Egli teneva la lista dei conti in entrata e in uscita. Alla fine di ogni trimestre i frati vocali e locali del convento venivano congregati capitolarmente al suono della campanella per vedere la contabilità. Essi dopo aver esaminati e calcolati i conti dell’introito e dell’esito, li firmavano. Alla fine dell’anno di correttorato i libri dei conti erano portati di solito a Catanzaro, a Maida, a Monteleone, o a Nicotera, dove erano esaminati dal correttore e dai colleghi provinciali dell’ordine.
L’edificio
Nei primi anni furono compiuti interventi di manutenzione dell’esistente. Furono acquistati alcuni arredi per la chiesa (due lampioni per illuminare la statua del Santo, un crocifisso per il pulpito, un apparato di candelieri con i finimenti, due apparati di fiori, campanelli per le messe, si indorò la cornice di S. Maria degli Angeli, la cui festa fu particolarmente celebrata, si dipinse il pulpito, si fecero confezionare una pisside d’argento, un panno di croce ed un drappo con l’angelo in gloria, abbellito con gallone d’oro e seta, ecc.) e furono eseguiti dei lavori al convento: si accomodò lo “scoppio” ed il “caccamo”, si rifece un “caldagio” per la cucina ed il “solo del forno”, furono acquistate delle lucerne, delle lanterne e dei “lamperi” per la cucina, il refettorio ed il dormitorio. Altre spese riguardarono le tovaglie per il refettorio, le funi per la cisterna, per la campana grande e per quella piccola, utensili per il magazzino, ecc.
Le uniche spese straordinarie di una certa rilevanza che riguardarono la struttura, furono la copertura della chiesa e del convento; la prima con duecento ceramidi fatta nella primavera del 1735, la seconda con trecento ceramidi nel dicembre 1739. Nel gennaio 1738 il mastro Girolamo fece due vetrate e due stipi “nelle camere del oficio”; furono acquistati 40 vetri ed il mastro Giuseppe Stunpo col suo discepolo, fece il tinello, ingrandì la pila del trappeto e piantò la croce. Nel novembre 1741 giunse via mare a Crotone una nuova campana grande del peso di cantari 4 e rotoli 56. Essa costò ai frati 250 ducati; pagati in parte con soldi che erano in cassa (ducati 72), parte con un prestito ottenuto dal signor Girolamo Facente di Crotone (ducati 63), parte i frati lo ricavarono dalla vendita di sette giovenchi (ducati 91), mentre il resto (ducati 24) fu pagato dal correttore. La campana fu trasportata da Crotone al convento e sistemata all’inizio di dicembre con la spesa di altri ducati 48.
Le scosse del terremoto, che si prolungarono dal 7 dicembre 1743 al 21 marzo 1744, causarono gravi danni agli edifici. In marzo fu costruita una baracca dove i frati si rifugiarono e cominciarono subito i lavori per riparare il chiostro, il convento e la chiesa. Vi lavorarono i mastri Antonio Guercio, Saverio Gallo, Giachino e Francesco de Simone e Tommaso della Rocca. Li coadiuvarono alcuni manipoli e discepoli. I lavori si prolungheranno anche nei mesi seguenti e perciò, oltre a riparare la chiesa ed a rifare nel convento alcune mura sfatte dal terremoto, si costruirono in legname la chiesa ed alcune baracche per i frati, spendendo in poco tempo più di cento ducati.
Il giardino o orto
I frati possedevano un orto dove, all’inizio dell’autunno, piantavano numerosi cavoli e cavolini. Altre verdure venivano coltivate in primavera. A volte essi seminavano anche meloni, orzo e fave. Per zappare il terreno facevano ricorso a braccianti locali, i quali venivano pagati per la cura dell’orto a grana 10 o 15 la giornata, mentre una giornata di aiuto di una donna per la raccolta nell’orto era pagata a grana 5.
Il vestiario
Durante l’anno i frati avevano diritto a tre paia di scarpe: uno a Natale, il secondo a Pasqua ed il terzo all’inizio di luglio. Ogni paio costava di solito un ducato. Per quanto riguarda il vestire essi ottenevano in settembre il “vestimento”, che variava da frate a frate ed il cui costo oscillava dagli otto ai dieci ducati per ciascuno. Il “vestimento” poteva essere formato: da “saya et un vestito”, “saya et altre cose necessarie”, “un mantello”, un “mantello e sayetti”, “un abito e un vestito di sotto”, “saya e frandina”, una “tonicha e un mantello”, “un abito e un paro di calzoni”, “un abito, cappello e sargetti”, ecc.
I frati comprarono vesti e scarpe, anche se di minor pregio, al terziario ed a volte, anche se raramente, si interessarono a quelli che avevano un rapporto continuo con il convento: nel luglio 1735 pagarono una “camiscia e calzoni al garzone”, nel dicembre dello stesso anno 25 braccia di lana per vestire “il zavo e vaccharello”. Sempre in quell’anno acquistarono un “barrettino” ed un paio di calzetti al volante, mentre l’anno dopo, dapprima fecero suolare le scarpe e poi acquistarono sei canne di tela ed un paio di scarpe al “vaccharello”. Nell’aprile 1739 acquistarono lana al “garzonello”, nel luglio di quello stesso anno cinque “pipe” per loro, ecc.
La vigna
Una cura particolare era riservata dai frati alla vigna, che forniva vino quasi sempre bastevole per il vitto del convento. Da settembre, quando l’uva era ormai matura, e fino alla vendemmia, essa era vigilata da un guardiano, o “vigniero”, il quale per la sua mesata, riceveva 11 carlini e mezzo. All’inizio di ottobre si preparava la vendemmia. Si compravano cerchi e salice per accomodare le botti, si sostituivano le doghe vecchie e le botti non più utilizzabili. Si acquistavano nuove botti, barili, imbuti di legno, “sportelle” e “fiscoli” per poter vendemmiare.
La raccolta dell’uva era di solito fatta dalle donne, le quali ricevevano un salario di 5 grana il giorno. Gli uomini che di solito, portavano la racina nel palmento ed erano addetti al pesto dell’uva, ricevevano un salario di 20 grana al giorno. Tutti avevano diritto ad essere alimentati durante il loro lavoro con “cascio”, “foglia”, ecc. I lavoratori impiegati variavano a seconda dell’annata ed aumentarono sensibilmente dopo l’ampliamento del vigneto. Se nella vendemmia del 1737 prestarono la loro opera 4 donne ed in quella successiva 2 uomini, dal 1740 troviamo 6 donne ed un uomo, poi 24 donne e 12 uomini, quindi tre donne per tre giorni e 5 uomini, ecc. Le spese per la vendemmia a causa dell’aumento del vigneto raddoppiarono. Tra il 1735 ed il 1738 erano di 6 o 8 carlini, negli anni seguenti oscillavano tra i 12 e i 14 carlini. Il periodo della vendemmia, a seconda dell’annata, avveniva tra il 13 ed il 24 ottobre, solamente nel 1740 a causa del freddo e dell’uva immatura si potette vendemmiare solo il 9 novembre.
Di solito in febbraio si facevano i lavori di propagginazione e di potatura; quindi, si levavano i sarmenti. Seguiva tra la fine di marzo e l’inizio di aprile la zappatura. Era questo un lavoro costoso in quanto normalmente occorrevano una trentina di uomini, ognuno dei quali era pagato a grana 20 la giornata oltre al vitto, che era composto da pane, foglia, olio, sarde salate e “cascio”. Sempre in tale periodo si alzavano le fosse e si faceva “la scalza”. Tra la fine di maggio ed i primi di giugno, altro denaro andava per “la rifusa”, per “ammaiare” e “sgarganare”. Tra le spese straordinarie fatte nel periodo considerato, sono da mettere in risalto quelle dell’ampliamento del vigneto, fatto nei primi giorni di aprile 1738, quando quattro vanghieri fecero “la scippa” e piantarono 2787 “maglioli”, con una spesa di circa 20 ducati. Altri considerevoli interventi furono realizzati nel febbraio 1741, quando furono acquistati mille pali da Pietro Suraci, e nel gennaio 1744 altri duemila per “la pastina”.
L’oliveto
I frati possedevano una chiusura con un oliveto. Durante l’inverno si procedeva a sboscare, ripulire, “stroppare” e “rimondare” gli ulivi. In maggio/giugno si facevano gli innesti agli “ogliastri”. In autunno due stimatori stimavano le olive. La raccolta delle olive era fatta dalle donne. Messe nei “fiscoli” e nei “cofini”, erano poi consegnate ai “trapittari”. I frati, durante il lasso di tempo considerato, ampliarono e migliorarono la produzione dell’olio. Nell’estate del 1736 iniziarono la costruzione di un nuovo trappeto, che completeranno l’anno seguente, spendendo oltre un centinaio di ducati. Eseguirono l’opera i mastri Giuseppe Timpano della Serra, Michelangelo Parise, Giuseppe Stumpo, Tomaso Bolotta e Domenico lo Scozzonaro. Nel maggio 1738 Polo Apa di Santa Severina a spese del convento, innestò ben 522 oleastri. Nell’ottobre 1737 il mastro Giuseppe Stunfo accomodò la pietra del trappeto, nel settembre del 1743 i frati spesero 20 carlini per una caldaia per il trappeto del peso di libbre 28 e mezza e, due anni dopo, ne spesero altri dieci per una vite.
Il vaccarizzo
Durante il decennio considerato aumentò l’importanza economica dell’allevamento del bestiame. Le entrate e le spese aumentarono, raddoppiandosi. L’attività fu sempre attiva, anche se l’utile che il convento ne trasse dipese dalle annate, con ampie variazioni che vanno dalla quasi parità nell’annata 1736/1737, ai circa 88 ducati in quella successiva. Con l’aumentare delle entrate, aumentarono anche le spese. Il crescere del bestiame, se da una parte portò maggior utile riguardo la produzione di carne, latticini e pelli, dall’altra richiese maggiori spese per erbaggio, custodi, utensili per fare il latticinio, sale, ecc.
a) I custodi. Il “soldo” di coloro che custodivano il bestiame col passare degli anni aumentò. Se nel 1734/35 rappresentava il 20% delle spese per la “manutenzione delle vacche”, nel 1741/42 era il 30%. Gli armenti erano custoditi da un “capovaccaro”, o “caporale”, da un “primo vaccaro”, da un “secondo vaccaro” e da un “mesarolo”. Il capovaccaro ed i vaccari erano pagati ad annata, mentre il mesarolo ogni mese. Durante il periodo preso in esame, l’annata del capo vaccaro non subì grandi mutamenti, oscillando dai 16 ai 18 ducati. Il capovaccaro rimaneva in carica per più anni; in un decennio ci furono solo due capivaccaro: Leonardo Garruba e Giovanni Dardano.
Sensibili furono invece gli aumenti di salario delle altre due figure. L’annata del primo vaccaro passò gradualmente dai 9 ai 15 ducati, mentre quella del secondo vaccaro dagli 8 ai 14 ducati. I vaccari quasi ogni anno cambiarono. Sono ricordati Antonio Paglianise, Serafino ed Andrea Mazzeo, Leone e Gio. Paolo Facente, Giuseppe Terzo, Domenico e Gio. Battista Gunnari, Giuseppe Zimmaturo, Gio. Battista de Cotronei, Giuseppe Licò ed Arcangelo Perrone. La mesata del mesarolo, che era di mezzo ducato, raddoppiò. L’incidenza del costo delle persone addette alla custodia del bestiame negli ultimi anni aumentò sensibilmente, non solo per l’aumento del “soldo”, quanto per le concessioni accessorie. Il capovaccaro, i vaccari ed i mesaroli ottennero anche il diritto ad un tomolo di grano al mese e, durante la quaresima, un quarto di fave ed una mezza litra di olio. Di altre “ricreazioni” beneficiarono quando si marcavano i vitelli, o si portavano a vendere.
b) La fida. Il bestiame pascolava sui terreni situati nella vallata del Tacina (Valle di Niffi, Corso dell’Umbro, Favata, Duecimi, Serrarossa, S.to Petro, Budetto, Altofilica, Foresta, Rivioti, ecc.) e pertanto, a seconda del luogo, i frati pagarono la fida ai baglivi di Policastro, Roccabernarda, S. Mauro e Cotronei. L’incidenza era modesta, variando a secondo delle annate dall’uno al cinque per cento della spesa.
c) L’erbaggio. La spesa per l’affitto dei terreni a pascolo mutò a seconda dell’annata e con l’aumento degli animali. Dopo il 1735/36 raddoppiò, tuttavia, nel decennio considerato, incise sempre meno sul totale, riducendosi dai circa due terzi della spesa, a poco più della metà negli ultimi anni. I frati, di solito, prendevano in fitto terreni da più proprietari (Gio. Filippo Godano, Cesare Berlingieri, Gio. Pietro Giuliani, l’agente di Cutro, Gio. Domenico Martino, Francesco Chaivano, Carlo Tronga, ecc.).
d) “Quagli, sepi, cortina e pagliaro”. Per la produzione del “latticinio”, gli acquisti riguardarono “forme” e “fiscelli” per i “raschi” e le ricotte, quagli, sale, un “caccamo” ed un “caldarello”. Una cospicua entrata proveniva dalla vendita degli animali nelle fiere, soprattutto in quella di S. Janni presso Santa Severina ed in quella di S. Vittorio presso Cutro. Perciò si dovevano pagare ed assistere i vaccari che vi portavano il bestiame, ed un uomo che era addetto alla guardia degli animali. Una spesa che triplicò riguardò il pagamento dei guardiani di erba, o di erbaggio. Il convento e tutti coloro che avevano mandrie pascolanti in un certo territorio, ognuno per la sua porzione, dovevano pagare una somma di denaro al guardiano di quel territorio. A tale spesa si aggiungevano quelle per costruire le siepi e le cortine per gli animali ed il pagliaio per i vaccari.
L’alimentazione
a) Il grano, il vino e l’olio. Il convento, tranne che in certe annate, per questi generi era autosufficiente. I correttori nei loro conti raramente riportano la gestione di questi generi. Tutta l’attività creditizia basata sul prestito del grano ai coloni, che doveva costituire una delle voci più importanti delle rendite del convento, rimane all’oscuro. Abbiamo solamente per alcuni trimestri, la quantità di grano “impastato” e di olio consumato. Annualmente il grano “impastato” era di poco più di 30 tomoli, mentre per quanto riguarda il consumo di olio, esso variava a seconda delle annate dai 110 litre alle 150.
Sappiamo inoltre, da un’indagine fatta alla fine di settembre 1745 che, nell’annata 1744/1745, la quantità di grano esitato era stata di 391 tomoli; così suddivisa: il 9% era stata impastata, il 31% era stata venduta ed il restante 60% si conservava nel magazzino del convento. I frati, di solito, all’inizio dell’autunno facevano le provviste annuali. Essi prendevano parte del grano, giunto al convento come pagamento per il fitto dei terreni a semina, o in quanto dato a credito, e si recavano a macinarlo a Crotone o a Policastro. Macinato il grano, si procedeva con la “fattura della pasta”, che doveva bastare per tutto l’anno. Di solito si trattava di “maccaroni”, di “gnoccoli”, o “ingnoccole”, e di “vermicelli”. Il pane solitamente veniva acquistato quasi giornalmente.
Per quanto riguarda il vino, fino all’ampliamento del vigneto, avvenuto nel 1738, il convento dovette in autunno procedere ad acquisti di vino vecchio, in quanto quello che aveva imbottato non risultò sufficiente a coprire il consumo per tutta l’annata. Nell’autunno 1735 i frati acquistarono 50 cannate di vino, nell’autunno seguente il doppio, tre barili nel settembre 1737 ed un barile l’anno seguente. In certe annate mancò anche l’olio. Acquisti di olio a due carlini e a due carlini e mezzo a litra, sono segnalati nell’autunno 1736 (2 litre), nell’inverno 1739/1740 (8 litre) e nell’autunno successivo (5 litre). L’annata 1743/1744 fu così disastrosa che nel luglio 1744, i frati furono costretti a comprare addirittura 30 litre di olio a carlini 4 la litra.
b) Pesci, molluschi, ecc. I pesci costituivano l’alimentazione ordinaria dei frati. Giornalmente essi acquistavano anguille, “verracchi” e trote, che abbondavano nel Tacina e nei torrenti. Altri pesci d’acqua dolce di cui i frati si cibavano, anche se in minor quantità, erano le “minuse”. Il resto era costituito dalla grande varietà degli animali marini, che i frati acquistavano anche in luoghi lontani. Solitamente all’inizio di ottobre, i frati si premuravano di comprare a Pizzo due barili di tonnina. Acquistavano anche tonno salato, “tarantello”, “ova tarachi e trippa di tonno fatto al sole”. A volte portarono, o si fecero portare, da Maida, o da Pizzo, barili di “sgambirro”, da Crotone sarde salate, da Le Castella baccalà, da Cutro una cernia, da Fasana pesci di diversa qualità, tra i quali molti “sardi per salare”, ecc.
Tra i pesci, i molluschi ed i rettili marini, quelli che ricorrono più spesso sono: il “pesce squadro”, le “arenghe”, i merluzzi, le sarde, il palombo, le “trigliozze”, i “luvri”, le cozze, le “sarache”, i cefali, la “testudine di mare”, le “seppi”, i calamari, il pesce mastino, lo “spinolo”, le alici, le triglie, i “vavosi”, le cernie, il tonno (nell’aprile 1744 acquistarono un “tonnacchio” di dodici rotoli spendendo sette carlini), ecc. Inoltre, i frati si cibavano, anche se in modo saltuario, di “dormituri”, il cui costo era di un carlino a rotolo, di “tartuche” e di “testudini”.
c) I legumi, i salumi, le foglie e “altro commestibile per far minestre”. I vegetali assieme ai pesci, costituivano la maggior parte dell’alimentazione dei frati. Le spese per “foglia” sono spesso una voce mensile a parte. In media in un anno essa assommava a circa cinque ducati. In ottobre il correttore procedeva a fare la provvista annuale di riso, pepe, cannella, zucchero e mandole. Cicerchia, ceci, fave, “suriaca occhinigrella” e bianca, “piselli di soriaca” e “fasoli”, erano acquistati anche in luoghi lontani come Cosenza, Rosarno e Crotone. Tra le verdure usate comunemente, sono ricordati i “scacciofoli”, le cipolle, “capucci”, i broccoli, i “cardoni”, le lattughe, i “rafanelli”, le “cocozze”, le “foglie cappuccia”, “teste di cipollina”, i “caoli”, gli “acci”, i finocchi, “melignani”, i “talli”, i “fungi”, le “cicoie” e gli “sparaci”. La frutta annoverava “mendole”, “nucilli”, “miloni”, “cerasi”, “mela”, “pomi melabbi”, noci, fichi, “arangue”, pinoli, prugni, peri, “persica”, “percochi” e castagne. I frati acquistavano, inoltre, olive fatte al forno, castagne infornate e “lancelle di pepi all’aceto”.
d) La neve. Di solito i frati acquistavano la neve da giugno a fine settembre. In certe annate, tuttavia, essi cominciarono ad acquistarne dalla metà di maggio fino alla fine di ottobre. La spesa fu di poco più, o poco meno, di quattro ducati, fecero accezione le annate particolarmente aride e secche del 1735 e 1743, quando i frati spesero circa 6 ducati. Dal 1744 in poi la spesa della neve per il “ballo”, o “ballone di neve di somarro”, aumentò sensibilmente, in quanto furono più numerosi gli acquisti in maggio e si prolungarono anche a novembre.
e) Il sale. I frati possedevano un centinaio di vacche, che fornivano latticini, carne e pelli. Le pelli delle vacche, spesso “morte dal lupo”, appena scuoiate erano trattate con il sale, che i frati compravano alla salina di Neto. Altro sale era acquistato “per commodo de’ frati”, e per salare le sarde, le “sarache” ed altri pesci.
La cera e l’incenso
La spesa per la cera e l’incenso solitamente si aggirava intorno ai dieci ducati annui (una libra di cera costava 36 grana). La cera serviva per le candele, particolarmente consumate durante le funzioni religiose dei tredici venerdì, in occasione della festa di San Francesco di Paola e della “settimana santa e tenebre”, quando un mastro allestiva il “sepolcro”.
I regali
Ogni anno venivano fatti dal correttore alla Vigilia di Natale, al barbiero e alla lavandara ed a coloro che portavano “la strina”, “presenti” e “molte coselle” al convento. Si trattava in genere di serve e servi, che recavano i doni offerti dai loro padroni ai frati, che erano ricompensati con 5 o 10 grana a testa. Sempre a Natale i frati consumavano dolci, nocelle e torrone ed in certi anni, il correttore fece regali sostanziosi in denaro all’arcivescovo, al vicario di Santa Severina ed anche agli stessi religiosi. Qualche volta i vaccari ricevettero in regalo denaro sia a Natale, che in tempo di Carnevale. Altro denaro andò a quelli che portavano presenti a Pasqua.
Occasione di regali era la festa di S. Francesco di Paola, quando si svolgeva anche una fiera presso il convento. “Mustaccioli napolitani” e dolci erano distribuiti ai celebranti, al clero e agli accoliti. Denaro era dato in regalo ai soldati che vigilavano, a coloro che preparavano la chiesa, al panegirista ed alle zitelle. Regali in denaro furono fatti in occasioni straordinarie: ai marinai che portarono la campana, al capomastro che calcolò i danni subiti dal convento a causa terremoto, al figliolo che venne col padre provinciale, ad una zitella che portò i tagliolini agli ammalati, al barbiere che si occupò di radere il padre vicario provinciale, ecc. Mance furono date alle serve che facevano la spola tra la casa del loro padrone ed il convento: quella del medico Nicolò Geraldi di Roccabernarda, del canonico Rizza, del signor Facente, del signor Felice, ecc.
Il barbiere e la lavandaia
Il barbiere e la lavandaia ricevevano un salario annuo pagato in tre rate: a Natale, a Pasqua e in settembre. All’inizio esso era di 20 carlini annui per il barbiere e di 15 carlini per la lavandaia. In seguito, entrambi ricevettero 20 carlini annui. Dal 1741 in poi il salario del barbiere passò a 40 carlini annui, mentre rimase inalterato quello della lavandaia. Oltre al salario annuo entrambi ricevevano altro denaro in regalo, più il barbiere che la lavandaia, a Natale e in occasioni particolari.
Medici e ammalati
Le spese che i frati sostenevano per infermeria, medicamenti e soldo al medico erano consistenti. Esse variarono da anno ad anno. Si va da poco più di sei ducati negli anni compresi tra il 1736 ed il 1738, ai quasi trenta ducati tra il 1742 e 1744, annate quest’ultime caratterizzate dalle infermità dovute al freddo ed alla pioggia, dalla carestia, dal terremoto e dal vaiolo. Per il suo “appaldo”, annualmente il medico aumentò le proprie entrate dai quattro ai sei ducati. I conti ci ricordano il medico Nicola Geraldi di Roccabernarda ed un altro medico abitante a S. Mauro. I medicamenti e le medicine, che venivano acquistati dallo speziale, costituivano gran parte della spesa, che variava da poco più di un ducato del 1736/1737, ai 10 ducati nel 1738/1739. Solo ai frati ammalati era concesso alimentarsi con uova, pollastri, galline, piccioni e “insogna”, e curarsi con olio di mandole, rabarbaro e gomma ammoniaca.
Il notaio
I frati pagavano al notaio un salario di 20 carlini per “li strumenti ed oblighi” e per le scritture, che questi faceva in tutto l’anno per il convento. Alcuni “strumenti” eccezionalmente, erano pagati a parte. In questi casi il costo di uno “strumento” era solitamente di due carlini.
Il forgiaro
Per servizi di forgia solitamente erano pagati al fabbro ogni anno circa 20 carlini.
Il cavallo ed il balduino
Per spostarsi per i loro affari ed acquisti, i frati si servivano del cavallo del convento. Nell’estate del 1735 il cavallo “si dirupò” così, per alcuni anni, quando erano necessitati a spostarsi, ne prendevano uno in fitto. Questa situazione durò fino al 1740, quando ne acquistarono un altro per 19 ducati. Nell’agosto 1743 comprarono anche un “balduino”, spendendo nove ducati. L’animale dopo pochi giorni però morì, così furono costretti a riacquistarne un altro, spendendo altri otto ducati. Di solito i frati si recavano a Crotone, a Catanzaro e nei paesi vicini (Policastro, Cutro, Mesoraca, S. Mauro, ecc.); a volte andarono anche a Maida, Pizzo, San Biase, Rosarno, ecc. Le spese principali riguardavano, oltre all’orzo e alla biada, quelle per “inferrare” l’animale, l’acquisto di una corda “per farsi la capizza”, di “una cigna”, di una sella, di un “imbasto”, “per accomodare la barda”, ecc.
Le questue
All’inizio di luglio i frati, con un cavallo, andavano per le aie a fare la questua. Essi raccoglievano nei sacchi il grano offerto ed in cambio regalavano tabacco (nel 1734 ne comprarono due libre a tre carlini e mezzo la libra), trote, sarde salate, anguille e neve. Sul finire di ottobre con un “balduino” si recarono a Mesoraca e a Policastro per la questua delle castagne.
Le fiere
Una consistente entrata del convento era costituita dalla vendita del bestiame. Vacche e giovenchi erano condotti e custoditi dai vaccari alle fiere, specialmente in quella di S. Janni, che si svolgeva presso Santa Severina ogni terza domenica di maggio, ed in quella di S. Vittorio, che si teneva presso Cutro il primo giorno di luglio. I frati vi si recavano sia per vendere il bestiame, che per fare acquisti. Di solito vi rimanevano tre o quattro giorni. Essi, inoltre, erano presenti l’otto settembre, con acquisti e vendite, anche nella fiera di Mulerà a Roccabernarda.
La festa
Il 2 aprile di ogni anno si celebrava la festa del santo patrono San Francesco di Paola. Per l’occasione i frati acquistavano numerose libre di cera, rotoli di polvere da sparo, libre di “mustaccioli napolitani” e dolci. La chiesa era parata a festa ed illuminata da numerosi lampioni fatti con la carta. Veniva cantato il vespro e la messa per il santo padre. Un panegirista, quasi sempre di Catanzaro, teneva l’orazione; sono ricordati il padre Francesco del Pizzo ed il padre Francesco Pingitore. Ognuno di essi riceveva in regalo 25 o 30 carlini per il suo panegirico, oltre il pagamento delle spese di viaggio, cioè per la cavalcatura. Mustaccioli napolitani e dolci erano distribuiti ai celebranti, al clero, ai cantori, agli accoliti e a coloro che assistevano alla festa. Venivano costruite delle baracche in legname ed una fiera si svolgeva presso il convento. Regali erano fatti ai soldati che vigilavano lo svolgimento. Particolarmente splendida e solenne fu la festa del 2 aprile 1745. Per esorcizzare la paura del passato terremoto furono acquistati otto rotola di polvere da sparo, cioè il doppio di quanti solitamente venivano consumati.
Spese ordinarie
Per far fronte ai problemi della vita quotidiana i frati sostenevano durante l’anno numerose piccole spese. Dovevano “far stagnare e rifare il caldagio” e “la conchetta della cucina”, “accomodare i matarazzi”, “le fermature”, il “caccamo” e “i lamperi”, acconciare le sedie, “il cato” della cisterna, la “gaccia”, lo “zappone”, “le mascature”, il “grillo della scopetta”, ecc.
La maggior parte degli acquisti erano fatti nelle fiere, specie in quelle di San Giovanni, di S. Giuliano e di Mulerà, ed a Crotone e Catanzaro. Tra gli oggetti di uso quotidiano sono ricordati: “lancelli”, “lancelloni”, “cocchiare”, un mortaio di marmo, argani per la cucina, bicchieri di vetro e di cristallo, “cannate”, piatti, piattini, “tiani”, “pignate”, “candilieri”, “lampe”, lucerne, “garaffe”, scope, pale, fiaschi di vetro, padelle, tovaglie, “frissure” di ferro, “cortelli” per servizio della cucina, “canistre di verga”, tripodi, secchi, “canistrelle”, “urinali”, un “mezzarolo” e un “coppiatone” per il grano, ecc.
Libri
Nell’ottobre 1734 i frati decisero di fare i libri maggiori del convento e perciò spesero 22 carlini per acquistare una risma di carta, un “bergamile per farsi li vesti”, e per la fattura. In questi libri ogni correttore avrebbe annotato giorno per giorno, gli introiti e gli esiti. È dell’annata 1737/1738 l’acquisto per ducati tre, del libro di Gabriele Barrio: De Antiquitate et situ Calabriae con le aggiunte e note di Tommaso Aceti, edito in Roma nel 1737. L’anno seguente furono spesi sei carlini per tre libri per scrivere le messe. Nel novembre 1740 furono acquistati quattro libretti di messe dedicate a San Francesco di Paola, del costo di cinque carlini. Altre piccole spese riguardarono l’acquisto di “quinterni di carta”, ognuno dei quali costava 6 grana, e per la “vittuccia per i signacolari” dei messali.
Censi Passivi
I frati dovevano pagare ogni anno una decina di ducati per alcuni censi che gravavano alcuni terreni pervenuti al convento. I beneficiari erano: il procuratore della cappella di S. Caterina per le terre “delli costeri”, il procuratore della cappella di S. Sofia per una messa cantata, il procuratore della cappella del SS. Rosario, il parroco della chiesa di S. Nicolò, la mensa arcivescovile, l’erario della camera principale di Rocca Bernarda per diversi territori, e la mensa vescovile per decima sopra il territorio “Li Comunelli”.
Contributi
Riguardavano: la contribuzione al Provinciale per le spese della provincia, le spese straordinarie nelle visite provinciali, le spese di accessi, recessi e mora, che fanno i superiori provinciali, i correttori e i commessi, per andare ai capitoli generali e provinciali, la contribuzione per i capitoli intermedi annuali, per il procuratore in Napoli e Roma, per la contribuzione ai chierici, ecc.
Verso la decadenza
Con il Concordato del 1741 e la compilazione del catasto onciario, i beni del convento, che da sempre erano stati esenti, cominciarono ad essere colpiti dal fisco. Aumentarono le tasse così il correttore, già nel gennaio 1744, dovette annotare che, a causa dell’onciario, aveva dovuto pagare sette ducati e nel novembre dello stesso anno, quasi altri tre per la gabella di Caravà, situata in territorio di San Mauro. A queste nuove uscite si aggiunsero i gravi danni causati dal terremoto del 1744, e la inarrestabile discesa del tasso di interesse che, in pochi anni, si dimezzò, rendendo difficile la collocazione del capitale del convento. Seguirono moria di bestiame ed annate scarse e secche.
Creato il 23 Febbraio 2015. Ultima modifica: 14 Giugno 2024.