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elmo museo crotone

Crotone, elmo corinzio conservato al Museo Archeologico di Capo Colonna (da www.calabrialive.biz).

Un esempio di retorica

Il periodo che all’incirca comprende tutta la seconda metà del VI secolo si contraddistingue, rispetto al precedente, per un’interruzione della pace sostanziale che aveva caratterizzato i rapporti tra le città. Attorno alla metà di questo secolo si registrano, infatti, una serie di conflitti che trovano protagonisti gli Achei e che coinvolgono le principali colonie. Questa nuova fase vede in particolare evidenza Crotone, che è citata in tutti i principali avvenimenti del periodo. Dal racconto di Pompeo Trogo (la cui fonte probabile è Timeo) riassunto da Giustino[1] sappiamo che Sibari, Crotone e Metaponto alleate tra loro contro Siris, sconfissero e distrussero quest’ultima. Questo fatto, utilizzando un termine di triste attualità, ci è descritto come un episodio di pulizia etnica, in quanto le tre città achee avrebbero inteso scacciare i Siriti perché questi ultimi erano di razza ionica. Se ciò rappresenta la ragione ufficiale del conflitto, tutto lascia pensare che, come avviene ai giorni nostri, le motivazioni etniche servano a coprire motivazioni più sostanziali. E che i Greci fossero sufficientemente smaliziati in questo senso, ci è sottolineato dall’autore aristotelico della Retorica di Alessandro:

“Sia che, dopo essere stati vittime di ingiustizie nel passato, occorra ormai, con il favore delle circostanze, punire coloro che hanno commesso tali ingiustizie, oppure che, essendo attualmente vittime di un’ingiustizia, occorra combattere per se stessi o per dei benefattori o recare soccorso ad alleati vittime di un ingiustizia, sia nell’interesse della città o per la sua gloria, per la sua potenza o per qualche altra ragione del genere, quando incitiamo alla guerra bisogna mettere in rilievo il più gran numero possibile di tali pretesti”.

Lasciamo quindi da parte le motivazioni ufficiali che ci sono state tramandate e vediamo quali possono essere le vere ragioni che portarono a questo conflitto. Innanzi tutto, diciamo che sono state sollevate diverse perplessità a riguardo dell’attendibilità di Giustino. Dato che ci troviamo di fronte ad un episodio di conquista che, in definitiva, si considera mirato all’appropriazione del territorio di Siris, alcuni sostengono che la partecipazione di Crotone sia poco verosimile, in quanto solo Sibari e Metaponto, che confinavano con il territorio sirita, si sarebbero potute avvantaggiare di un’eventuale vittoria. Questo ragionamento contiene invece alcune premesse errate. Esso si basa sul presupposto che gli Achei distrussero Siri e che occuparono fisicamente il suo territorio. Abbiamo invece ragione di credere che entrambe queste situazioni non si siano realizzate, e che la partecipazione di Crotone a questa guerra non solo sia veritiera ma anche abbastanza comprensibile.

 

La guerra greca

La guerra è un aspetto molto importante per comprendere gli avvenimenti che videro protagonisti i Greci, sia perché i fatti bellici hanno il potere di mettere a nudo gli avvenimenti, sia perché l’avvento dell’organizzazione urbana determinò l’assunzione delle principali funzioni militari da parte del cittadino, funzioni che sono strettamente legate a questo status e che rappresentano la sua principale qualificazione. In relazione alla organizzazione sociale della città, ed in via del tutto generica, possiamo dire che i conflitti tra i Greci dell’epoca arcaica, nascevano naturalmente e per i motivi più vari, dalla precarietà degli equilibri che esistevano tra le piccole comunità cittadine e dalla rigidità della loro organizzazione sociale. In questo caso, uno scontro poteva rendersi necessario per il deterioramento di un rapporto di vicinato, ma anche in occasione dell’apertura di un fronte interno, visto che la massa dei subalterni era sempre pronta nel cercare di ribaltare le posizioni di potere, quando si poteva intravedere una debolezza che consentisse di passare all’azione. Certo, come a volte avveniva, la guerra poteva essere evitata facendo concessioni, ma i privilegi acquisisti dovevano spesso essere mantenuti con le armi, quando bisognava cercare di imporre la propria volontà o quando bisognava difendersi da quest’imposizione. Ciò non significa però che i Greci s’impegnassero in lunghi periodi di combattimento, in quanto per loro la guerra era molto più semplicemente rappresentata da una sola battaglia, un unico duello tra gli eserciti, che si risolveva in un solo giorno, anzi in poche ore e che decretava molto rapidamente sconfitti e vincitori. Allo scopo non esistevano militari di professione. Quando si decideva di combattere veniva costituito l’esercito, del quale facevano parte tutti i cittadini che vi militavano come opliti fino a tarda età. Armati a proprie spese con un grande scudo rotondo, la lancia, la corazza e l’elmo di bronzo, questi fanti componevano la falange, la formazione tattica di combattimento che prevedeva uno schieramento in file contigue, dove ognuno aveva il proprio posto vicino ai familiari. La falange era il vero e proprio esercito, completato da gruppi di fanteria leggera ed a volte da un piccolo contingente di cavalleria. Essendo un esercito composto esclusivamente da cittadini, le altre categorie sociali che non godevano di questo diritto, erano escluse dall’organizzazione oplitica. Come nel resto della loro vita sociale, esse svolgevano un ruolo marginale, prestando il loro servizio alla causa della città come lanciatori di giavellotto, arcieri o con altre armi leggere. Vediamo ora come si svolgeva questa guerra. Presa la decisione nell’assemblea, la città nominava uno o più comandanti, che guidavano l’esercito ai confini della città nemica, assumendo la responsabilità delle operazioni. I Greci non ritenevano che ci si dovesse barricare nella città ed attendere un assedio, ma consideravano prioritario combattere il nemico a viso aperto in un unico scontro risolutivo. Come in un duello, gli eserciti si incontravano presso il confine, in genere segnato da un fiume, dove la pianura permetteva agli opliti di schierarsi. Qui compiuti i sacrifici e ricevuti gli auspici favorevoli, gli opliti componevano la falange di fronte a quella avversaria. In questa formazione essi si disponevano uno accanto all’altro su di un fronte variabile in funzione del loro numero, e si ammassavano in file nelle quali ognuno stava gomito a gomito con il vicino in maniera tale da creare una vera e propria barriera di scudi irta di lance. Al segnale del comandante, la falange, di solito posta a poche centinaia di metri dal nemico, si metteva in movimento al passo, per poi slanciarsi di corsa nell’ultimo tratto. Ai suoi lati i soldati armati alla leggera, con giavellotti e frecce, bersagliavano i nemici, per ritirarsi una volta che le due falangi fossero venute a contatto. A questo punto ogni schieramento cercava di crearsi un varco in quello avversario e, mentre le prime file cercavano con le lance di uccidere o di far arretrare i nemici, le file successive spingevano i compagni con lo scopo di creare un cedimento nella formazione nemica. Era un combattimento breve ma violentissimo nel quale perdere la coesione portava rapidamente ed inevitabilmente ad essere travolti dalla massa nemica. Succedeva quindi che una delle due falangi, sotto i colpi e la spinta nemica si disunisse, a questo punto agli opliti non restava altro che cercare scampo nella fuga. L’armamento pesante non consentiva loro in vero grandi possibilità, ed alcuni cadevano incalzati dalla cavalleria e dalle truppe leggere che, a questo punto rientravano in gioco assalendo il nemico in fuga, in virtù della loro maggiore capacità di movimento. Molti altri in ogni caso si salvavano, anche perché dopo un rapido inseguimento i vincitori desistevano, in quanto il loro obiettivo non era quello di annientare il nemico ma solo di sconfiggerlo in maniera da ricondurlo alla propria volontà. Queste guerre si concludevano quindi con un numero limitato di morti, anche per l’esiguo numero dei combattenti. Sul luogo dello scontro, i vincitori innalzavano un trofeo fatto con le armi prese agli sconfitti, e ritornavano alla loro città dove un’altra parte di questo bottino era consacrato nei santuari. In questo modo di condurre la guerra, non vi era spazio per azioni dirette contro la popolazione civile, in primo luogo perché, come abbiamo evidenziato, almeno tra gli uomini non esisteva una popolazione civile dato che tutti gli adulti per l’occasione erano inquadrati nell’esercito, secondo perché non esisteva da parte del vincitore nessun interesse a trucidare le famiglie dei vinti e tanto meno a distruggerne le case. La vittoria, infatti, era finalizzata allo sfruttamento delle risorse dei vinti che, data l’esiguità delle popolazioni coinvolte, non poteva certo avvenire attraverso un massacro indiscriminato. Esisteva quindi un modo greco di fare la guerra, l’unico che i Greci ritenevano fosse onorevole e che consisteva nell’affrontare il nemico in uno scontro decisivo faccia a faccia, e che prevedeva che il cittadino libero dovesse difendere gli interessi della città e quindi i suoi, in un duello risolutivo con il nemico. Questa scelta non nasceva dalla volontà di rifarsi ad una qualche regola cavalleresca, ma era improntata ad una risoluzione efficace e sbrigativa della questione. Tanto efficace, da conferire ai Greci una tale superiorità militare che gli garantirà per lungo tempo un netto predominio nei confronti dei principali vicini. Tutto ciò caratterizzerà i Greci fino al periodo della guerra del Peloponneso, successivamente, agli eserciti cittadini subentreranno, sempre più massicciamente, contingenti di mercenari pagati dalle città. Con l’avvento dei soldati di mestiere, le guerre, seppure continuino a mantenere il modello tattico della battaglia oplitica, diverranno vere e proprie campagne, lunghe e cruente anche per i civili e si affermeranno altri modi di combattere che porteranno le città a dotarsi di flotte e cinte murarie.

 

La distruzione di Siri

Da quanto abbiamo esposto, si comprende che per distruzione di Siri (ma anche in altri casi come vedremo in seguito), non si deve intendere che gli Achei l’abbiano rasa al suolo sterminandone la popolazione, in quanto ciò era estraneo ai loro obiettivi. La distruzione di Siri citata dalla tradizione, non riguardò dunque le case dei Siriti, essa fu invece politica e per quanto abbiamo detto a proposito dello spirito cittadino che animava i Greci, allo stesso modo tragica come una devastazione, in quanto cancellò la prerogativa principale che permetteva la vita di una città greca: quella di potersi determinare liberamente ed autonomamente. La tragicità con la quale quest’episodio è riportato dalla tradizione non è dovuto comunque solo a questo aspetto. L’aggressione a Siri fu sicuramente un episodio molto difficile da giustificare per la rigida morale greca dato che quest’evento venne ad interrompere la pace sostanziale che aveva accompagnato la vita delle colonie fin dalla loro fondazione, nonché il reciproco rispetto delle aree di influenza che attraverso l’oracolo di Delfi, erano state sancite dalla volontà di Apollo. Ne sono testimonianza gli episodi che a riguardo parlano dei fanciulli siriti trucidati dopo essersi rifugiati attorno all’altare di Atena Iliaca[2], delle sedizioni interne e delle pestilenze che, come una maledizione divina, avrebbero colpito gli Achei[3] nonché dei loro successivi atti di espiazione presso il santuario di Delfi che, alludendo ad una violazione della volontà di Apollo, sottolineano tutti la riprovazione nei riguardi di un atto di aggressione compiuto in maniera deliberata anche se motivato da solidi interessi. I Crotoniati, infatti, recatisi a Delfi si sarebbero infine liberati delle pestilenze erigendo, su ordine dell’oracolo, magnifiche statue alla dea e ai fanciulli trucidati. Una distruzione come quella ipotizzata, poi, avrebbe costituito un non senso per i vincitori. Il territorio conquistato, infatti, non fu occupato totalmente dagli Achei, per il fatto molto semplice che ciò non sarebbe potuto avvenire nella pratica né sarebbe stato utile farlo. Le considerazioni che ci portano a queste affermazioni sono in relazione a quanto abbiamo esposto sulla natura stessa della città e dei suoi cittadini. Nella nostra analisi abbiamo visto che le dimensioni territoriali di una città non sono un fatto casuale, ma rappresentano ciò che costituisce la proprietà dei suoi cittadini ed il titolo che permette loro di possedere i pieni diritti. Ne consegue che i vincitori non avrebbero potuto acquisire la terra conquistata mantenendo allo stesso tempo il possesso delle loro proprietà, dato che ciò avrebbe determinato una specie di doppia cittadinanza senza senso. I vincitori poi, essendo al pari dei vinti, contadini, non potevano continuare a lavorare i loro campi e allo stesso tempo prendersi cura di quelli distanti anche poche decine di chilometri nel territorio conquistato, dato che i cittadini non erano possidenti terrieri che si occupassero solo della gestione dell’attività agricola, ma erano quelli che la realizzavano materialmente attraverso il lavoro nei campi. Possiamo dire, inoltre, che questa terra non poteva essere data neanche troppo facilmente a chi non ce l’aveva, dato che ciò avrebbe comportato, automaticamente, la concessione a questi ultimi di un titolo di legittimità civile e politica. Possiamo quindi immaginare che sebbene una parte del territorio degli sconfitti venisse acquisito dai vincitori che lo assegnavano a soggetti che ne erano comunque privi, larga parte continuava a rimanere nelle disponibilità dei primi. Ciò consentiva di avere a disposizione una popolazione asservita se non come condizione sociale almeno dal punto di vista politico ed inoltre di dare sfogo ad una sicura domanda interna da parte di quanti non avevano altre possibilità d’accesso alla terra se non quella derivante da una concessione da parte dei concittadini o da una nuova conquista. Questi contadini che rischiando la propria vita avevano combattuto per realizzare un obbiettivo politico ed economico non si prefiggevano quindi di fare i pendolari né di spartire i propri diritti ed i propri privilegi. Essi miravano ad acquisire altri vantaggi che non erano solo in relazione al reperimento di altri terreni da lavorare ma principalmente ad altri terreni da sfruttare. Gli Achei quindi non trucidarono i Siriti che servivano a presidiare il territorio conquistato ed a farlo fruttare a tutto loro vantaggio, ma imposero ai vinti una serie di condizioni, tra le quali possiamo immaginare anche quella di accettare nella cittadinanza una quota di nuovi soggetti comunque legati alle loro famiglie o a quelle degli alleati. Oltre ad imporre tributi, essi si impadronirono dei loro traffici commerciali e del controllo delle vie di comunicazione, della gestione delle loro risorse ed, in definitiva, del loro ruolo. Alla luce dello spirito cittadino che animava i Greci, come si può considerare se non distrutta, una città che aveva perso qualunque capacità di auto determinarsi, che aveva dovuto accogliere degli estranei e che aveva dovuto cedere il proprio ruolo? Un altro aspetto che bisogna considerare per comprendere le ragioni di quest’avvenimento è rappresentato dal fatto che esso vede gli Achei riuniti perseguire quello che ci viene descritto come un obiettivo comune. Gli Achei, con questa guerra, avrebbero inteso eliminare da un’area sostanzialmente omogenea (che implicitamente dunque potevano rivendicare), una presenza etnica diversa. Tale descrizione, che sottolinea l’unità di intenti che caratterizza l’atteggiamento degli Achei in questa fase, è da mettere in relazione a quanto abbiamo detto a proposito del controllo dello spazio in cui erano sorte le loro città e implica ed avvalora le considerazioni che abbiamo espresso a riguardo delle forme di collaborazione che caratterizzarono l’arrivo delle spedizioni e tutta la fase precedente all’accendersi dei conflitti. Ritornando al momento in cui si inquadra l’avvenimento, possiamo dire in definitiva che l’episodio della distruzione di Siri è riconducibile ad una fase nella quale le colonie sorte sullo Ionio, (ma che avevano già solidi interessi sul Tirreno) entrano in disputa come reazione e contro reazione ai rispettivi tentativi di variare i limiti delle loro aree di influenza sancite dal volere di Apollo al momento della fondazione, di cui la distruzione di Siri non è che il primo di una lunga serie di episodi che caratterizzeranno la storia greca dell’Italia. Non appare poi un caso che esso abbia coinvolto da una parte Siri e dall’altra le città achee riunite, la prima, infatti, sorgeva all’interno di quella che abbiamo definito un’enclave di questi ultimi e si presentava certamente come un punto di discontinuità e di instabilità di questo ampio territorio.

 

La battaglia del fiume Sagra

Proprio nella scia di questa situazione di conflitto, le fonti letterarie[4] ci segnalano in questo periodo un altro episodio che questa volta vede protagoniste Crotone e Locri. Non conosciamo la data precisa dei fatti, ma considerando che secondo la ricostruzione di Giustino[5], questi furono motivati dalla volontà dei Crotoniati di punire i Locresi per l’aiuto fornito a Siri in precedenza, si colloca l’episodio successivamente e si ipotizza che esso possa risalire ad un periodo attorno al 530 a. C.[6] La tradizione descrive la vigilia di questo avvenimento sottolineando la grande apprensione dei Locresi verso la minaccia incombente. Essi, infatti, si sarebbero recati a Sparta in cerca di sostegno ed a Delfi per conoscere la loro sorte dalla bocca dell’oracolo di Apollo, facendo poi ritorno in patria con le statue dei Dioscuri (i gemelli Castore e Polluce) date loro dagli Spartani. Quindi, fortemente indecisi se affrontare i Crotoniati in campo aperto (in alternativa ad una resistenza ad oltranza tra le mura), arrivarono ad una decisione solo dopo l’intervento di Persefone che come divinità poliade della città, apparve loro esortandoli ad andare incontro al nemico ed assicurando la propria protezione[7]. Tale favore sovrannaturale ha in ogni modo un preciso riferimento anche a riguardo degli atti che avrebbero visto protagoniste le due città nei confronti dell’oracolo a Delfi. Qui i Crotoniati, alla vigilia della battaglia, si sarebbero recati per promettere ad Apollo la decima dell’eventuale vittoria, ma sarebbero stati superati nell’offerta dai Locresi che promisero al dio la nona parte[8]. La battaglia avvenne sul fiume Sagra dove, secondo Strabone, i Reggini furono alleati dei Locresi che, schierando “solo” 15.000 uomini, ebbero ragione di 130.000 Crotoniati[9]. A proposito della consistenza dei due eserciti, Giustino afferma che i Crotoniati erano 120.000 e 10.000 i Locresi, confermando sostanzialmente la versione fornita da Strabone, ma senza citare l’intervento di Reggio[10]. In quest’occasione sarebbero avvenuti fatti straordinari come l’apparizione di un’aquila (l’uccello sacro a Zeus) che fu vista volteggiare sul campo di battaglia e come l’intervento di Aiace e dei Dioscuri, che avrebbero combattuto a fianco dei Locresi determinando la loro vittoria. Con un riferimento che, analogamente a quello che coinvolge Delfi, ha l’intento di fornire il definitivo riequilibrio della situazione di crisi, è tramandato che la notizia sarebbe giunta ai Greci riuniti ad Olimpia lo stesso giorno della battaglia[11] divenendo addirittura proverbiale (“vero come la Sagra”) e rimanendo ad indicare i fatti incredibili ma veri. Fin qui la tradizione che, seppure ci propone una ricostruzione dei fatti colorita da una serie di episodi fantasiosi, ci permette di appurare una serie di questioni. Partiamo dalle motivazioni del conflitto. Esso ci è presentato come un atto di aggressione da parte dei Crotoniati che sembra essere in linea con gli avvenimenti precedenti, visto l’interesse di questi ultimi verso l’area di confine locrese, che risaliva al tempo della fondazione di Caulonia. Da parte di Crotone, abbiamo valutato questi interessi nella concomitante esigenza di difendersi da una possibile minaccia verso la via istmica e verso i giacimenti minerari presenti nell’area di Stilo. Se nei primi periodi della sua esistenza gli equilibri erano stati mantenuti, verso la metà del VI secolo la situazione era notevolmente cambiata. Entro gli inizi del VI secolo[12], Locri aveva fondato Medma e Hipponion sul versante tirrenico ed era riuscita a garantirsi il controllo di Metauro, una colonia di origine zanclea situata in prossimità del fiume omonimo, che in precedenza era gravitata nell’orbita delle città dello stretto. Non è chiaro a questo punto cosa abbia potuto spingere Reggio ad affiancare Locri, visto il conflitto che le aveva viste nel recente passato disputarsi il controllo di Metauro, un centro che sarà motivo di attrito per queste due città nel basso Tirreno anche nel futuro. D’altra parte non s’intuisce quale minaccia avrebbero potuto costituire per Reggio gli interessi di Crotone che viceversa erano rivolti contro quelli di una sua recente rivale nello stesso scenario. Personalmente non credo dunque in un aiuto di Reggio a Locri in quest’occasione anche perché il fatto viene taciuto da Giustino e riferito solo da Strabone la cui fonte, per l’occasione, è Antioco di Siracusa, un personaggio che come vedremo, aveva solidi interessi di parte per avvalorare una tradizione di questo tipo. Se oscura appare la partecipazione di Reggio, chiari sono invece gli interessi di Crotone. Essi debbono essere ricercati nella volontà di contrastare l’espansione di Locri sul Tirreno che con la fondazione di Hipponion si era portata pericolosamente a ridosso della via istmica, coinvolgendo di conseguenza anche la pertinenza ionica di quest’ultima e creando una situazione che, da parte di Crotone, non poteva essere vista che come una minaccia. In questo senso trova ragione la ricostruzione operata dalla tradizione che inserisce l’avvenimento nel clima d’instabilità avviato con la caduta di Siri, l’aiuto che quest’ultima avrebbe ricevuto da Locri e la serie di iniziative di Crotone che aveva salvaguardato i propri interessi promuovendo la fondazione di Caulonia. Come abbiamo visto, i momenti successivi alla dichiarazione di guerra e precedenti alla battaglia, sono descritti attraverso una ricca serie di episodi che da un punto di vista ideologico si ricollegano a quelli che si sarebbero verificati durante lo scontro. Gli interventi di Aiace, di Persefone e di Zeus fanno riferimento alle tradizioni sulle origini di Locri ed ai suoi principali culti civici, mentre la tradizione che chiama in causa Sparta e i Dioscuri evidenzia un riferimento esplicito alle origini doriche della città[13]. Veniamo alla battaglia. Considerando l’assetto del periodo, possiamo supporre che il luogo dove essa si svolse possa essere identificato nel tratto compreso tra quelli che si ritengono i limiti territoriali di Caulonia e di Locri, forse con il corso del torrente Allaro[14], nel quale si dovrebbe quindi riconoscere il fiume Sagra. Per quanto abbiamo visto sul modo greco di affrontare una guerra, possiamo dire che le dimensioni degli eserciti sono sicuramente sproporzionate rispetto ad ogni plausibile realtà. Le citazioni che vi fanno riferimento trovano invece la loro ragione nel contesto epico dell’evento che avrebbe visto i Locresi, inferiori per numero, difendere con successo la propria patria assalita da un nemico preponderante. Essa si collega poi alla classica morale della vittoria che arride a chi si batte per una giusta causa ed in questo caso, sembrerebbe confermare che il conflitto sarebbe scaturito a seguito di un atto d’aggressione compiuto dai Crotoniati. Assolutamente senza fondamento sono quindi i tentativi da parte di alcuni di trovare una ragione al numero dei combattenti ed all’esito inverosimile della battaglia che sarebbe stato determinato da un agguato, o dall’impossibilità dell’abnorme esercito crotoniate di manovrare in spazi angusti dove sarebbe stato attirato dai Locresi. Gli argomenti che abbiamo esposto permettono di valutare l’infondatezza di questioni di questo tipo. Diversamente, in base a quanto invece conosciamo della battaglia oplitica, possiamo immaginare che la sconfitta dei Crotoniati sia avvenuta né più e né meno per le stesse cause che determinavano a quel tempo tutte le sconfitte. Il cedimento della falange, come conseguenza di una perdita di coesione creata dal nemico o determinata dalla propria incapacità di mantenere lo schieramento sotto la pressione avversaria. Cosa che ci è tramandata anche in questo caso, quando si racconta che il comandante dei Crotoniati Leonimo, pensando di conquistare la vittoria, abbia lanciato i suoi in un varco che aveva visto tra le fila dei Locresi. Il suo tentativo invece sarebbe fallito miseramente perché quel varco era nella realtà il posto di Aiace che, essendo uno spirito, non poteva essere veduto[15].

 

Le conseguenze della disfatta

Gli studiosi, in genere, attribuiscono alla sconfitta della Sagra conseguenze relativamente negative per Crotone, sostenendo che essa non determinò ripercussioni sostanziali. Le motivazioni che abbiamo posto come base del conflitto e i primi avvenimenti successivi, ci dimostrano invece che le ripercussioni furono serie, dato che la posizione di Locri in direzione dello sbocco tirrenico di Hipponion si era notevolmente rafforzata e costituiva sempre più una minaccia futura per i confinanti interessi di Crotone. La stessa situazione interna era divenuta delicatissima. Essa è evidenziata in due diversi passi di Strabone secondo il quale la sconfitta, a causa delle numerose perdite, avrebbe determinato un generale indebolimento della città che l’avrebbe avviata verso un fatale declino[16], mentre Giustino riferisce che la sconfitta determinò l’infiacchimento dei Crotoniati e il loro disinteresse per le pratiche militari[17]. Seppure queste citazioni non possano essere intese alla lettera, ci forniscono la rappresentazione di una situazione di crisi che si aggancia a tutta la tradizione che accompagna l’arrivo a Crotone di Pitagora. Essa rimarca questo momento di involuzione, che poi sarebbe stato sanato da Pitagora attraverso la diffusione della sua dottrina nella città. Tale avvenimento, in considerazione dell’importanza riconosciuta al filosofo, è sicuramente uno degli episodi più noti della storia di Crotone, che ci permette, innanzi tutto, di valutare alcuni elementi che è possibile mettere in relazione ad un cambiamento degli equilibri interni nella città. Gli aspetti fondamentali della dottrina di Pitagora e la tradizione che lo accompagna, ci consentono di mettere in relazione diretta il suo arrivo a Crotone con la situazione della città all’indomani della sconfitta subita. Proprio la sconfitta era diventato il pretesto per provocare le prime rivendicazioni più consistenti di quei ceti esclusi dalla vita politica della città.

 

Una naturale lotta per il potere

Fin dalle origini, Crotone era organizzata sulla base di un’aristocrazia che esercitava il proprio dominio su di un vasto territorio e su una popolazione abbastanza numerosa che veniva mantenuta in una condizione di completa sudditanza. Relativamente al periodo, tale situazione si era mantenuta sostanzialmente inalterata, ma sebbene tale aristocrazia fosse rimasta al potere, la popolazione ad essa sottoposta si era notevolmente evoluta, sia nel numero che nella sua composizione sociale. Alle famiglie aristocratiche discendenti dai coloni, si erano andati nel tempo aggregando altri gruppi sociali, costituiti sia da individui completamente subalterni che avevano goduto dello sviluppo del primo secolo e mezzo di vita della città, sia da individui di condizione libera, la cui libertà era comunque limitata dalle prerogative vantate dagli aristocratici. Tale situazione, ricostruibile attraverso una serie di avvenimenti che prendono l’avvio dall’insuccesso maturato nella contesa con Locri, determinerà un progressivo ribaltamento delle antiche posizioni di potere. Prima di analizzare tali cambiamenti in seno all’organizzazione dei Crotoniati, serve comunque avere un’idea più chiara sulle forme di governo che furono adottate dai Greci in alternativa ed opposizione a quelle aristocratiche.

 

Democrazia e Tirannide

Si tratta fondamentalmente di sistemi che prevedevano un’estensione del diritto di cittadinanza ad alcune categorie di esclusi. Tale situazione poteva determinare la formazione di quello che si definisce un governo democratico, nel quale rientrano anche soggetti di condizione libera dediti al commercio ed all’artigianato che affiancavano i classici contadini proprietari della terra. Una situazione maggiormente estremizzata è rappresentata dalle Tirannidi, nelle quali il potere era assunto da un unico individuo (il Tiranno). Questa situazione determinava un allargamento ulteriore del gruppo sociale di pieno diritto perché, per assumere il potere e mantenerlo, il tiranno aveva bisogno di un largo consenso, che si realizzava attraverso la concessione di privilegi alla fazione che lo aveva sostenuto nella sua ascesa, e della cittadinanza a larghi strati della popolazione, anche di condizione servile. Da quello che stiamo evidenziando, si comprende come sia difficoltoso ed improponibile creare dei paragoni con la realtà dei nostri giorni. Senza esprimere un giudizio che non avrebbe senso proiettato in una società a circa tremila anni di distanza, possiamo dire che le forme di governo che abbiamo descritto hanno dei connotati sostanzialmente diversi da quelli che potremmo loro attribuire a prima vista. Ci accorgiamo, infatti, che la democrazia greca aveva poco a che fare con una qualunque forma di democrazia moderna, dato che, nonostante i diritti estesi a fasce più ampie di popolazione, rimanevano esclusi larghi settori della società. La partecipazione di tutti i cittadini nell’assemblea, determinava poi un coinvolgimento diretto che non esiste in una democrazia moderna, nella quale le decisioni sono prese da una classe politico-dirigenziale che si avvale di un consenso concesso su delega dai cittadini che spesso restano completamente inconsapevoli delle decisioni assunte.

 

La setta Pitagorica

Le trasformazioni che si verificarono a Crotone durante la seconda metà del VI secolo, possono essere apprezzate attraverso una serie di avvenimenti che la tradizione lega all’arrivo di Pitagora e alla fondazione nella città della sua setta. Nel mondo greco le sette erano organizzazioni sociali e religiose che a differenza dei culti ufficiali che riunivano collettivamente la cittadinanza, permettevano di soddisfare una serie di bisogni individuali e relativi a gruppi sociali emarginati dall’organizzazione cittadina, come gli individui di condizione servile e le donne. Le sette erano quindi associazioni perfettamente legali e riconosciute dalla città, nelle quali ognuno continuava a ricoprire il proprio posto legato alla propria condizione sociale. Non si trattava dunque di strutture alternative alla città, ma possiamo dire che le sette erano complementari ad essa, andando ad interessare ambiti dove, la rigida organizzazione urbana, limitava il suo organigramma ed il suo controllo. Rispetto a questa descrizione generale, i Pitagorici si connotarono per una loro originale impostazione che, seppure sotto forma di un’ideologia religiosa, comportava un netto rifiuto dell’ordine politico della città. La setta pitagorica si riproponeva di dare alla città un ordine diverso da quello della polis, basato sulla guida di un uomo illuminato che avrebbe utilizzato la sua sapienza per il bene della comunità. I Pitagorici, attraverso il perseguimento del proprio ideale, si riproponevano quindi di sovvertire l’ordine politico della città che si basava invece su un criterio d’eguaglianza tra i soggetti di diritto. Quando parliamo dei Pitagorici e del loro obiettivo di sovvertire lo stato, non dobbiamo pensare però ad un gruppo illegale tipo Brigate Rosse o Falange Armata, perché (l’abbiamo detto) le sette erano perfettamente riconosciute. Proprio questo riconoscimento permetteva loro di condurre un’azione ideologica che, comunque, veniva celata nel segreto delle pratiche che si svolgevano all’interno della loro comunità. Ciò le poneva, inevitabilmente, in una condizione di minoranza ai margini della città che, nel caso dei Pitagorici, in considerazione del loro obiettivo, si manifestava attraverso il rifiuto di tutti simbolismi legati alla sua struttura. E’ nota, infatti, la pratica pitagorica di non cibarsi della carne. Ciò non avveniva perché il fatto era legato ad una particolare dieta alimentare, ma perché il consumo della carne avveniva all’interno della pratica rituale del sacrificio, durante il quale tutta la città ribadiva la sua organizzazione con le sue gerarchie. Il tipo di vita in comune auspicato dai Pitagorici è un altro aspetto di questa condotta ideologica, dato che essi auspicavano che ogni membro della setta mettesse in comune i suoi beni con quelli degli altri confratelli. Ciò rappresenta l’esatto contrario di ciò che invece costituiva l’ordine sociale della città, dove il diritto di cittadinanza era legato alla proprietà terriera e ai beni che su di essa erano stati realizzati.

 

Una valutazione politica e sociale del Pitagorismo

Sappiamo quindi come valutare la presenza dei Pitagorici a Crotone, come in altre città nelle quali la loro esperienza politico-religiosa si realizzò. Essi erano un gruppo solidale che auspicava un diverso ordine della città e che viveva una vita sociale in attesa di poter realizzare quest’obiettivo. Per arrivare a ciò, la setta si impegnava in una attività di proselitismo, attirando soggetti a quest’idea, con la promessa di una emancipazione sociale e di una salvezza ultraterrena. Quest’ultimo aspetto assume una sua valenza specifica ed un carattere d’estrema novità nel panorama religioso fin qui descritto. I Greci, infatti, non credevano che dopo la morte esistesse una sorta di paradiso o una vita ultra terrena, né che gli uomini avessero un’anima, ma che i trapassati si riunissero in un regno oscuro popolato dalle ombre dei morti (l’Ade) dal quale, comunque, non esisteva nessuna salvezza. La filosofia pitagorica introdusse in questa concezione dell’aldilà una novità molto importante, basata sul concetto che ogni essere vivente è dotato di un demone (qualcosa di vicino al nostro concetto di anima) che alla morte abbandona le sue spoglie e migra in un altro, attraverso un ciclo di reincarnazioni successive che si perpetuano in funzione dei meriti acquisiti durante la vita terrena. In questo caso, un essere meritevole si eleva migrando in altri di livello superiore, per esempio da un insetto ad un cavallo o all’uomo, mentre il ciclo si compie all’inverso per chi non acquisisce tali meriti, che la tradizione individua in una condotta di vita consona ad una serie molto articolata di precetti e che noi conosciamo solo attraverso una letteratura d’epoca romana. Il livello più alto è in ogni modo, quello del filosofo che nell’ideale pitagorico rappresenta la figura che avrebbe dovuto assumere la guida della società. Questa figura era naturalmente incarnata dallo stesso Pitagora che, secondo la tradizione si sarebbe presentato ai Crotoniati assumendo l’autorità e le prerogative di Apollo Pizio[18]. Abbiamo già preso sufficiente confidenza sulle rappresentazioni religiose, per valutare alcuni significati relativi alla presenza di Apollo nella filosofia pitagorica. Tale dottrina si pone, infatti, come una rivelazione che, profusa dallo stesso Pitagora, si manifesta agli uomini per permettere loro la comprensione delle cose. Si tratta di un ambito classico che la cultura greca attribuisce ad Apollo, divinità che in questo caso è presentata come l’ispirazione divina di Pitagora. Un’ispirazione analoga a quella che veniva manifestata dall’oracolo delfico, che fa di Pitagora tramite privilegiato del dio presso gli uomini. La valenza di tale rappresentazione religiosa, risiede nelle implicazioni che richiamano all’ordine originario stabilito dall’oracolo delfico, nel ruolo che la tradizione attribuisce al filosofo e nella descrizione degli avvenimenti che lo videro protagonista al suo arrivo nella città. Tali avvenimenti lo identificano nella funzione di censore delle abitudini dissolute, di moderatore ma anche di strenuo difensore degli equilibri interni della polis. Tale azione calmierante ci permette di legarlo chiaramente al momento che la città stava vivendo e di riconoscerlo apertamente impegnato al fianco dell’aristocrazia. Quest’affermazione potrebbe apparentemente risultare in contrasto con quanto è stato detto sulla struttura e sugli obiettivi che la setta si riproponeva di realizzare e che risultano evidentemente antagonistici verso l’organizzazione della polis. Le cose appaiono invece nella loro dimensione se si considera il contesto nel quale fu realizzata l’accoglienza di Pitagora, un contesto di crisi e di involuzione della città che, come abbiamo visto, la tradizione faceva risalire, genericamente, alle conseguenze della sconfitta militare della Sagra. Un effettivo chiarimento sulla natura di questa situazione interna, ci viene comunque fornito dal resoconto degli avvenimenti che videro protagonista Pitagora al suo arrivo nella città, ed in particolare da ciò che la tradizione ha tramandato attraverso una serie di discorsi che il filosofo tenne ai Crotoniati. Questa predicazione di Pitagora, che costituisce il preludio alla sua accoglienza nella città, rappresenta un passaggio fondamentale per una comprensione del Pitagorismo e per una sua effettiva valutazione storica. In questi discorsi risalta l’impegno a 360 gradi di Pitagora, nel ricostituire a Crotone quella concordia che, secondo la tradizione, sembra che l’avesse fatalmente abbandonata. Il recupero della concordia rappresenta, infatti, il tema ricorrente in tutte le orazioni attribuite al filosofo, attraverso una metafora che coinvolge i rapporti tra figlioli e genitori, tra mariti e mogli, tra giovani ed anziani. Su tale aspetto, Pitagora si esprime fin troppo chiaramente. Rivolgendosi ai giovani riuniti nel ginnasio, egli li avrebbe esortati“…a stimare gli anziani, mostrando che nell’universo, come nella vita, nelle città e nella natura in genere, ciò che viene prima in ordine di tempo è venerato più di quanto viene dopo. (…) Similmente lo sono gli abitanti del luogo rispetto agli stranieri, come pure i capi e i fondatori delle colonie rispetto agli abitanti …”[19]. Naturalmente elogiato dai mille aristocratici per le parole rivolte ai giovani, Pitagora appare successivamente di fronte a questi ultimi nell’assemblea, suggerendo di edificare un tempio alle Muse allo scopo di preservare la concordia della città, in quanto le Muse “… erano note alla tradizione come una comunità e si compiacevano in sommo grado del culto comune; e poi il coro delle Muse era sempre uno e costantemente il medesimo …”[20]. Tale affermazione, che sottolinea il riconoscimento del ruolo che la costituzione della città assegnava agli aristocratici, si arricchisce però di una sostanziale apertura, quando lo stesso Pitagora ammonisce che gli anziani“ … avrebbero dovuto considerare la patria come un deposito affidato dalla cittadinanza a tutti loro insieme e perciò governarla in modo da lasciare intendere che avrebbero trasmesso in eredità ai propri figli la fiducia in essi riposta. Il che sicuramente si sarebbe realizzato se essi si fossero fatti uguali a tutti i cittadini, sopravanzandoli esclusivamente nella giustizia.”[21]. Richiamando i miti di fondazione che avevano per protagonista Ercole ed il responso manifestato ai coloni da Apollo, attraverso l’oracolo di Delfi[22], Pitagora venne dunque accolto, mentre i Crotoniati, abbandonate le concubine, costruirono “alla concordia” il nuovo tempio dedicato alle Muse (la prima realizzazione di questa nuova era) e gli affidarono l’incarico di parlare ai ragazzi presso il tempio di Apollo Pizio e alle donne presso il tempio di Hera. In questo caso, come avevano fatto i loro uomini, anche le donne crotoniati rinunciarono alla dissolutezza, depositando in voto le loro vesti preziose presso il tempio di Hera[23]. Il quadro che appare da questa tradizione confluita in Giamblico, indica un inserimento di Pitagora all’interno di una cittadinanza che, seppure nel pieno di una crisi, rappresentata emblematicamente dalla dissolutezza dei suoi costumi (un riferimento moralistico che rintracceremo anche in seguito), l’aveva superata con un adeguamento che non aveva pregiudicato l’ordinamento originario di stampo aristocratico. Le ragioni di questa crisi interna possono essere ricondotte all’azione di forze “giovani” costituite cioè da quanti erano ancora esclusi dal rigido circolo aristocratico di pieno diritto, il cui dissenso aveva preso consistenza a seguito della disfatta militare conseguita dalla vecchia classe dirigente. L’azione di queste forze che, secondo la tradizione pitagorica sarebbe stata tenuta a freno e ricomposta dallo stesso Pitagora, più verosimilmente, evidenzia una prima apertura della classe aristocratica che, attraverso il riconoscimento dei Pitagorici, aveva canalizzato questo dissenso in un ambito circoscritto alla setta dove esso rimaneva emarginato e comunque relativamente meglio controllabile. Non è un caso che Pitagora sia presentato come un irriducibile avversario della tirannide (il regime instaurato da Policrate a Samo che lo aveva spinto all’esilio), dato che, evidentemente, proprio rischi di questo tipo avevano motivato i Crotoniati ad accoglierlo. Le ragioni che portarono a questa scelta, sono dunque da mettere in relazione alla situazione interna che la città stava vivendo e che vedeva la sua classe (o casta) dirigente impegnata a difendere i propri privilegi. Una nuova idea fu quindi accolta in seno alla città. Un’idea pericolosa che poneva le premesse per sovvertire lo stato, ma che l’aristocrazia tollerava perché la dottrina pitagorica conteneva delle componenti tese a sottolineare il ruolo guida di quest’ultima. In ogni caso tale ideologia rimaneva pur sempre marginalizzata e nel giudizio sul contesto della sua accoglienza, bisogna evidenziare che l’aristocrazia si trovava in crisi sotto la pressione dei ceti subalterni. Quale polis avrebbe accolto Pitagora e le sue teorie sovversive dell’ordine cittadino se non si fosse trovata in così serissima difficoltà? Appare a questo punto come l’arrivo di Pitagora a Crotone rappresenti la risposta vincente delle forze più conservatrici della polis. Un’operazione ardita e rischiosa che dimostra la vitalità di una classe dirigente che seppure costretta a scendere a patti, riuscirà a conservare la propria supremazia per un periodo ancora abbastanza lungo. Tali risvolti si rendono manifesti anche da un episodio successivo che avrebbe visto l’esule Pitagora cercare accoglienza presso i Locresi. Questi ultimi, però, avrebbero risposto rifiutando: “Noi o Pitagora abbiamo udito che tu sei sapiente e abile, ma poiché le nostre leggi sono per noi irreprensibili, cercheremo di tenercele e restare sempre ad esse fedeli. Tu vattene altrove.”[24]. Tale presa di posizione, deve essere letta alla luce della tradizionale organizzazione dei Locresi, che li qualificherà a lungo come la più chiusa ed impermeabile aristocrazia agraria dell’occidente greco, che al tempo non aveva alcuna necessità di effettuare concessioni.

 

L’inizio dell’emissione di moneta

Un altro avvenimento importante relativo al periodo che stiamo trattando, è rappresentato dall’avvio all’emissione di moneta da parte di Crotone che, assieme a quella di Sibari e Metaponto, costituisce la più antica attività monetale delle colonie greche d’occidente. La datazione sembra abbastanza certa per il fatto che Crotone conia, riutilizzandola, una moneta corinzia del terzo quarto del VI secolo (550 – 525 a.C.)[25]. I risvolti legati a questa nuova attività ci danno ulteriori indicazioni sullo scenario che abbiamo delineato, ed in particolare ci permettono di gettare luce sia sulle ragioni degli avvenimenti di questo periodo, sia sui mutamenti nell’organizzazione della città che abbiamo appena esposto. Il fatto che le tre città che per prime si dotarono di moneta, sono proprio quelle che troviamo coinvolte nel conflitto che vide la prima disputa territoriale tra le colonie greche d’occidente, non può costituire una casualità ma deve contenere motivazioni sostanziali. Che gli Achei si dotino di moneta e come nel caso di Crotone, si impegnino in conflitti anche in luoghi molto lontani dai propri confini, testimonia che quest’espansione non era destinata a reperire altro terreno coltivabile, ma serviva principalmente ad imporre il proprio controllo in ambiti precisi con scopi prettamente commerciali. Ciò evidenzia anche una serie di trasformazioni nella struttura della città, dato che dotarsi di moneta, impone dei cambiamenti sostanziali nell’ordine sociale di una comunità. Tralasciando gli aspetti legati a forme vere o supposte di progresso sociale, focalizziamo invece la nostra attenzione sui risvolti che l’uso della moneta ha sui suoi equilibri interni. Le città non utilizzarono la moneta dalla loro origine, ma cominciarono a servirsene in momenti successivi, nei quali si realizzò una partecipazione alla vita pubblica di più ampie fasce di popolazione che si affiancarono alle tradizionali corporazioni di contadini che costituivano le aristocrazie. L’esigenza principale che determinò l’adozione della moneta da parte delle città è infatti, riconducibile all’affermarsi in esse di un’attività commerciale più consistente. Quest’attività era esercitata principalmente da soggetti che non possedendo terreni, rimanevano esclusi dall’assemblea e non avevano nessun potere decisionale. L’uso della moneta (il capitale circolante) dava loro un potere che, seppure non gli consentisse di assumere i diritti politici, gli permetteva economicamente di contrastare gli aristocratici, che erano gli unici detentori del capitale fondiario (la terra) e di larga parte del capitale lavoro (il possesso degli schiavi). Per questo motivo le chiuse aristocrazie greche stentarono a dotarsi della moneta, perché per le classi subalterne della città, la moneta rappresentava una forma di emancipazione economica che preludeva ad un’emancipazione civile e politica. Chi possedeva moneta, attraverso la propria ricchezza, poteva contrastare e condizionare le decisioni anche rimanendo fuori dall’assemblea. Quest’ultima era invece costituita solo da contadini che non avevano bisogno di ricorrere alla moneta, perché il loro lavoro si traduceva nella realizzazione di prodotti che servivano alla sussistenza delle proprie famiglie, mentre le eccedenze potevano essere scambiate con altre merci attraverso un semplice baratto. Questa situazione deve essere ben compresa in quanto l’indirizzo di chi possiede beni immobili come i terreni agricoli, è certamente diverso da chi possiede solo il denaro. I primi, per forza di cose, devono radicare i propri interessi sul territorio, i secondi, in virtù della natura del capitale che possiedono, possono compiere le proprie scelte in maniera diversa. In base alla propria convenienza, essi possono scegliere cosa e come comprare, quando e con chi allacciare scambi e relazioni commerciali, mentre i contadini non hanno questa libertà, in quanto la produzione agricola è sostanzialmente legata ad un indirizzo stabilito e poco modificabile. Sono quindi questi ultimi che hanno i maggiori interessi a difendere il “loro” territorio da minacce esterne, mentre i possessori del denaro, se le cose si mettono male, possono abbastanza agevolmente realizzare la loro attività da un’altra parte, visto che si tratta sempre di classi subalterne composte in maggioranza da meteci e schiavi. Per i motivi che abbiamo evidenziato, alcune città greche come Locri e Sparta, nelle quali il potere delle aristocrazie agricole si mantenne saldo più a lungo, ritardarono molto l’utilizzo della moneta. Altre invece (tra le quali Crotone) se ne dotarono più precocemente, dietro l’affermazione di classi di artigiani e commercianti o comunque di senza terra che, con il tempo, s’imposero prima economicamente e poi politicamente nella città. Potrà sembrare strano, ma furono degli stranieri (forse alcuni schiavi) che, ad Atene, organizzarono e gestirono le prime banche greche di cui esista notizia[26]. Ritornando a Crotone, il fatto che ciò accada proprio, successivamente, in un periodo che aveva visto una clamorosa sconfitta militare e la venuta di Pitagora, sta a significare che nella città si realizzò una prima affermazione, in questo caso economica, della classe popolare che, in virtù dei fatti che conosciamo, deve essere avvenuta attraverso una concessione dell’aristocrazia in difficoltà a seguito degli insuccessi maturati.

 

Note

[1] Giust. XX, 2 ,3; 4, 18.

[2] Licof. 982-992. La strage è imputata anche agli stessi Siriti, che al tempo del loro insediamento nella città, avrebbero massacrato i Troiani che l’avevano colonizzata dopo la caduta di Troia. Secondo Strabone (VI, 1, 14) la prova di questo fatto sarebbe stata il simulacro della dea, che aveva gli occhi chiusi perché non aveva voluto vedere il massacro.

[3] Giust. XX, 2, 3-5.

[4] Giust. XX 2, 10 -3, 9; Diod. VIII, 32 Vogel; Livio XXIX, 18, 16; Strab. VI, 1, 10.

[5] Giust. XX 2, 10.

[6] La cronologia di questi avvenimenti si basa sulle vicende relative a Pitagora. Considerato che l’arrivo del filosofo a Crotone ci è stato tramandato come un fatto conseguente alla tirannide di Policrate a Samo (circa 532 a.C.) ed immediatamente successivo alla sconfitta dei Crotoniati contro i Locresi, la battaglia della Sagra viene in genere fatta risalire intorno al 530 a.C., anche se alcuni, sempre in maniera ipotetica, sono propensi a spostarla più indietro nel tempo. Meno precisa è invece la datazione della guerra contro Siris, della quale sappiamo solo che fu precedente alla battaglia della Sagra. In genere le date proposte oscillano attorno al 560 a.C.

[7] Livio XXIX, 18, 16.

[8] Giust. XX, 2, 5; 1.

[9] Strab. VI, 1, 10.

[10] Giust. XX, 3, 4.

[11] Strab. VI, 1, 10.

[12] G. De Sensi Sestito, op. cit. p. 235.

[13] G. De Sensi Sestito, op. cit. p. 245.

[14] A proposito vedi le considerazioni espresse da M. Giangiulio, op. cit. p.251 e sgg.

[15] Sull’episodio vedi Conone, Narrat. XVIII e Paus. III, 19, 10.

[16] Strab. VI, 1, 10-12.

[17] Giust. XX, 4, 1-2.

[18] Giamb. 30; 140.

[19] Giamb. 37.

[20] Giamb. 45.

[21] Giamb. 46.

[22] Giamb. 50-52.

[23] Giamb. 56.

[24] Dicearco, fr. 34 W.

[25] N. Franco Parise, Le Emissioni Monetarie di Magna Grecia fra VI e V sec. a.C., p. 307-309, in op. cit., Cangemi ed. 1987.

[26] D. Musti, L’economia in Grecia, p. 112, Universale Laterza, 1987.