Alcuni avvenimenti storici della Vallata del Neto (parte terza)

Il Viceregno / Il Cinquecento
Passato il Regno di Napoli sotto il dominio spagnolo, nel 1503 Consalvo de Cordoba, in nome del re di Spagna, confermò al Caraffa il possesso dei feudi ed il titolo di conte per i servizi resi contro i Francesi, titolo poi riconfermato nel 1506 dal re Cattolico (1). Sempre in questi anni con privilegio del 20 giugno 1504 il re Cattolico conferma il feudo di Polligrone ai fratelli Bernardino ed Antonio d’Eboli, feudo che poi passerà a Francesco d’Eboli. Lo stesso re, il 5 maggio 1507, concedeva a Giovan Battista Spinelli la contea di Cariati, compresa la città di Cerenzia, nel territorio della quale il conte successore Ferrante Spinelli, prima della metà del Cinquecento, ripopolava con genti venute da levante il casale di Belvedere e fondava il casale, che da lui prese il nome di Montespinello (2). Casabona ed altre terre andavano in feudo a Ferrante d’Aragona (3) e la città di Strongoli, tolta dapprima ai Sanseverino, perché si erano schierati con i Francesi, fu poi a questi nuovamente concessa (4). I feudi di Cotronei e Carfizzi, che erano rimasti a Ioannetto Morano, che aveva aiutato il principe Federico al tempo della “Congiura dei Baroni” (5), passarono ad Enrico e nel 1507 al figlio Luca Antonio, che ottenne l’investitura di Santa Vennera “cum territoriis Trivij, Carfide”. Il figlio Giovan Francesco Morano alienerà nel 1563 “Scarfizzi” al cosentino Giovan Filippo Badolato (6). Sempre all’inizio del Cinquecento l’ultimo marchese di Crotone, Antonio Centelles, catturato e fatto schiavo dai pirati, è lasciato morire in prigionia assieme al figlio nel 1505, nonostante tutti i tentativi fatti dalla moglie Leonora di riscattarlo (7).

La ribellione di Santa Severina
Nel 1512/1513 gli abitanti di Santa Severina e degli altri feudi della contea, credendo morto in battaglia il conte Andrea Caraffa, stanchi dell’oppressione feudale, si ribellarono e chiesero di ritornare in regio demanio. Fu inviato Bernardo Villamarino, conte di Capaccio e luogotenente del Cordova, con duemila armati e cento cavalli per domare le numerose ribellioni, che erano scoppiate in Calabria. La ribellione di Santa Severina durò a lungo e fu soffocata in maniera sanguinosa. I beni dei ribelli furono confiscati e molti furono messi a morte. Ancora nel 1515 duravano le conseguenze, come evidenziano alcune suppliche del Caraffa al vicerè. Il conte sollecitava l’intervento regio, affinché fossero catturati e giustiziati alcuni ribelli, che erano riusciti a fuggire dalla contea ed avevano trovato rifugio nelle vicine terre di Rocca di Neto, Verzino, Caccuri, Strongoli, Casabona, Cotronei ed in altri luoghi (8). Solamente nel marzo del 1525 il conte accoglierà le istanze dei cittadini di Santa Severina e dei suoi casali di Cutro e di San Giovanni Minagò e perdonerà “omne crimine, excesso et delicto per ipsi patrati quandocumq. et qualitercumq. in li tempi praeteriti ante due anni da la p.nte di in tempo dele guerre”. Il Caraffa concederà nuovamente ai suoi vassalli la possibilità “de potere tagliare, pascere, pernoctare, seccare, glandare, aquare, seu beverare dicto loro bestiame … senza pagamento alcuno”; diritti che gli abitanti di Santa Severina e dei suoi casali avevano perso “dal tempo de le rivolture de dicta città”. Permaneva tuttavia la paura e molti cittadini, per non incorrere nelle rappresaglie e nelle crudeltà del conte e dei suoi ufficiali, avevano abbandonato definitivamente la città. Tale fatto gravava l’università, che era costretta a pagare anche per i fuochi assenti, per tale motivo i cittadini rimasti chiedevano al conte di concedere a loro i beni confiscati, consistenti in “le possessioni, case , terre et altre robbe stabili de li homini absentati” (9). Non era passato molto tempo dalla cruenta ribellione antifeudale che nel 1528 la valle è di nuovo in rivolta e molti abitati sono saccheggiati dalle truppe francesi comandate da Simone Tebaldi. I Francesi occupano la vallata ed assediano e conquistano Santa Severina e Crotone (10). L’anno dopo la peste miete numerose vittime e spopola specialmente le due città di Santa Severina (11) e di Cerenzia. In quest’ultima città l’epidemia è così violenta, che i superstiti fuggono e molti lasciano definitivamente la città, facendo diminuire talmente la popolazione, che la sede vescovile rischia la soppressione (12).

La fondazione di nuovi conventi ed il ripristino delle antiche abbazie
Con l’arrivo degli Spagnoli, nella prima metà del Cinquecento sono fondati, quasi sempre su richiesta delle università e presso e fuori le mura, numerosi piccoli conventi francescani e domenicani. I domenicani si insediano a Caccuri ( Santa Maria del Soccorso, 1520) (13), Santa Severina (S. Domenico di Portanova, 1502) (14), Verzino (S. Maria della Grazia, 1537) (15), Cerenzia (Santa Maria della Grazia, 1530) (16) e a Strongoli (S. Maria dela Greca, 1565) (17). I frati minori conventuali sono presenti a Strongoli (S. Maria delle Grazie, 1511) (18) e a S. Severina (S. Salvatore, 1532) (19). Gli osservanti aprono un convento fuori le mura di Casabona (L’Annunziata, 1519) (20) con un laboratorio per la confezione di medicine aromatiche per la cura dei malati (21).
Altri numerosi e piccoli conventi sorsero nella vallata dopo il Concilio Tridentino. Tra la fine del Cinquecento ed i primi anni del Seicento gli agostiniani zumpani si insediano a Belvedere (L’Annunziata) (22), a Cotronei (S. Marco Evangelista, 1612) (23), a Rocca di Neto ( S. Caterina) (24) e a Strongoli ( S. Maria del Popolo) (25). I minori conventuali aprono nuovi conventi a Caccuri (S. Francesco) (26) e a Cerenzia (27). I minori osservanti sono presenti a S. Severina (L’Annunziata, 1611) (28) ed i cappuccini a Strongoli (S. Francesco, 1617) (29).
Al sorgere dei numerosi piccoli conventi francescani e domenicani si contrappone la decadenza delle antiche abbazie florensi e cistercensi.
Con l’introduzione dell’istituto della commenda, nella seconda metà del Quattrocento, le abbazie incominciano ad impoverirsi. Gli abati commendatari, per lo più cardinali e vescovi residenti lontano dalla vallata e che non hanno alcun interesse per la vita monacale, sperperano i beni badiali che affidano ad amministratori che li danno in fitto, lasciando ai priori ed ai monaci una povera mensa che il più delle volte non è sufficiente per la loro sopravvivenza. Questa situazione determina lo stato d’abbandono delle abbazie, che si prolungherà fin dopo il Concilio di Trento. Una visita ai monasteri cistercensi del 1569 c’informa sullo stato precario, in cui versavano le abbazie della vallata. Nel monastero di Santa Maria di Altilia da tempo non vi è alcun intervento del commendatario, nonostante che “… claustra sint destructa, dormitorium et capitulum corruirint et ecclesia in plerisque locis sit discoperta …”. Nel monastero di Santa Maria Nova, anche se la chiesa è integra, l’abate ed il suo amministratore risiedono in un palazzo nella vicina Caccuri. Nel convento ci sono solo due monaci, in quanto gode di poche rendite. Ancora peggiore è la situazione del monastero di San Giovanni in Fiore, nel quale “Tectum dormitorii pro media parte corruit. Claustra et refectorium ac cetera omnia regularia edificia atque etiam domus abbatialis corruerunt preter ecclesiam et capitulum de quo factum est stabulum …” (30). Solamente dopo il Concilio di Trento, verso la fine del Cinquecento, si assiste ad alcuni tentativi di ripristinare le vecchie abbazie e le grangie, obbligando gli abati commendatari a cedere alcuni beni alla mensa conventuale, in modo da permettere ai monaci di ripopolare l’abbazia e di poter sostenere le spese di vitto, di vestiario, ecc.. E’ del 1571 la prima assegnazione di alcuni fondi rustici alla mensa monacale di S. Maria di Altilia (31), ma solamente nel 1601 è introdotta nell’abbazia la riforma tridentina, con la concessione fatta in quell’anno dal commendatario Tiberio Barracco alla mensa conventuale della gabella “Alimati”, di un terreno in località “Radicchia” e della difesa di “San Duca” (32). Molti beni dell’abbazia sono occupati e molti diritti usurpati ed il nuovo commendatario, il cardinale Sannesio, supplica l’intervento di Clemente VIII per poterli recuperare (33). Nella stessa situazione si trova il patrimonio del monastero di San Giovanni in Fiore.
Dopo gli interventi di Giulio II nel 1503 e di Clemente VII nel 1523 (34), Alfonso Pisano, arcivescovo di Santa Severina e commendatario dell’abbazia, deve ricorrere nel 1601 all’aiuto di Clemente VIII, per tentare di recuperare beni e diritti perduti (35). Passato il lungo periodo in cui l’abbazia era rimasta deserta, essa fu nuovamente abitata dai monaci e ritornò il culto divino. Ciò avvenne dopo i ripetuti interventi a favore dei monasteri da parte dei papi. Furono emanate molte costituzioni come quelle di Pio IV nel 1563, Pio V nel 1569, Gregorio XIII nel 1574 e Sisto V nel 1596, che imposero, anzi ordinarono sotto la pena di rigorosissime pene, agli abati commendatari che si riedificassero e si riparassero le chiese e gli edifici claustrali e si assegnasse alla mensa conventuale la terza parte delle rendite “per il vitto, vestito et altre cose necessarie alli Religiosi”. In tal modo i monaci dovevano riprendere i monasteri, introducendovi nuovamente il culto divino ed un competente numero di religiosi. L’abbazia di San Giovanni dall’ordine florense era passata a quello cistercense ed i monaci, nonostante gli ordini papali, ebbero assegnata solo una piccola parte dei beni, che a loro spettavano. Per tale motivo poterono riparare solo alcune stanze del convento e parte della chiesa, mentre le grangie come quella di Santa Maria delle Terrate presso Rocca di Neto rimasero abitate solo da qualche eremita (36). Invano i monaci cercarono di ottenere altre rendite dal commendatario; questi affermò che molti beni erano stati usurpati.Lo stesso discorso vale per il monastero di S. Maria Nova, presso la città di Caccuri. Nel 1583 fu stabilito l’accordo tra i monaci ed il commendatario, Ottavio Protospataro, il quale assegnava “per vitto, vestito, fabrica et altre cose necessarie per dui monaci et uno diacono” una rendita annua di ducati 50, proveniente da vari beni che andavano a comporre la mensa conventuale (37). Tuttavia pochi anni dopo, prendendo a pretesto la situazione precaria del monastero, il vescovo di Cerenzia e Cariati, Maurizio Ricci, cercherà di trasferire la mensa conventuale alla comunità dei preti di Caccuri, chiedendo la chiusura del convento (38).
Colpiti dalla crisi economica, dai vescovi e dai feudatari già nei primi decenni del Seicento molti conventi sono poveri e ridotti a pochi frati e molti verranno perciò soppressi e nuovamente privati dei beni assegnati.

Baroni e vescovi
Le numerose ed ampie concessioni feudali, che si susseguono ininterrottamente, accrescono la potenza e prepotenza baronale. I baroni, che durante l’ultimo periodo aragonese avevano mantenuto un esteso potere sulla popolazione, lo accrescono durante il Viceregno. Sul finire del Quattrocento l’università di Cerenzia aveva chiesto di ritornare in possesso del territorio di “Brozano”, di cui ne era stata privata illegalmente dal feudatario (39), all’inizio del Cinquecento il conte Carafa aveva tentato di estendere i limiti della sua giurisdizione e di impossessarsi di alcune terre e diritti della popolazione, dei feudatari confinanti e della mensa arcivescovile di Santa Severina (40). Il conte aveva revocato le costituzioni della città di Santa Severina e privato i cittadini dei loro antichi diritti. Egli aveva ripristinato antiche ed odiose prestazioni, da tempo ormai decadute, ed aveva costretto i suoi vassalli tra l’altro a lavorare gratuitamente con i loro animali alla costruzione e riparazione del castello (41). Seguendo l’esempio del conte di Santa Severina si muoveranno anche gli altri feudatari della vallata. Alla fine del Cinquecento il vescovo di Umbriatico Alessandro Filareto Lucullo accusa i feudatari Scipione e Giuseppe Spinelli e Carlo d’Aquino di imporre sempre nuove gabelle e tasse di vario genere sui già poveri cittadini e di usurpare i beni comunali, non tenendo in alcun conto la giustizia umana e divina ed i richiami vescovili (42). Gli fa eco il vescovo di Cerenzia Properzio Resta che lamenta la perdita delle decime di alcuni corsi, tra le quali quelle che riscuoteva sul corso “Malapezza” (43), dal quale il vescovo percepiva annualmente 10 once d’oro, provenienti dall’affitto del corso ai fidatori delle mandrie, per concessione fatta ai vescovi di Cerenzia e Cariati nel 1448 da Marino Marzano (44). I feudatari hanno trasformato i corsi in camere chiuse personali ed anche la Regia Corte occupa illegalmente una salina di proprietà della chiesa di Cerenzia, senza pagare niente (45). Uguale è la situazione dei cittadini di Casabona che, per sanare la morosità dell’università verso il feudatario, sono costretti a cedere alcune terre comuni, che il barone trasforma subito in proprie camere chiuse (46). La violenza e potenza baronale si accompagna e trae forza nei primi decenni del Cinquecento dallo sviluppo della cerealicoltura e dall’aumento delle mandrie. La fase espansiva e speculativa è sorretta dalla crescente richiesta di grano per rifornire Napoli e la fanteria spagnola.
Baroni e grandi proprietari usurpano vasti territori della Sila demaniale e badiale. Occupazione di terre, spostamenti di confini, sbarramenti di territori, abbattimenti ed incendi di pini per allargare i pascoli ed i seminati, sottrazione di legname per fabbricare la pece nera, uccisione di bovini, “depignazioni” ecc. indicano il passaggio di numerose terre da boschive a coltivate e da demaniali e badiali a private. Il tutto per alimentare il commercio granario che ha nel porto di Crotone il punto di imbarco per Napoli, dove c’è il centro mercantile e finanziario (47).

Turchi e banditi
All’emergere della feudalità e dell’aristocrazia fanno riscontro la crescente povertà delle popolazioni e l’indebitamento delle università. Molti cittadini sono in carcere perché morosi; altri devono vivere alla macchia, perché non sono riusciti a far fronte alle sempre più esose imposizioni fiscali,ordinarie e straordinarie, ed a saldare i debiti comitali ed universali. Non sono rari i casi in cui intere popolazioni si ribellano agli esosi tributi ed alla introduzione da parte del barone di nuove vessazioni. A volte i vassalli non prendono in fitto i terreni del barone che per tale motivo diventano selvatici; intere famiglie migrano a volte in altri luoghi vicini, dove le condizioni di vita sono migliori. Le stesse università oppresse dal barone e dal fisco regio sono di continuo indebitate e vivono sotto l’incubo dell’arrivo dei commissari, i quali, per costringere i cittadini a pagare le imposizioni fiscali arretrate, minacciano di fare “correria”, cioè di sequestrare e vendere all’asta gli animali dei cittadini, senza dei quali non c’è possibilità di semina. Altra causa d’impoverimento sono le incursioni dei Turchi e la malvagità dei banditi, che rendono le campagne insicure, specie al tempo della mietitura. Già nella primavera e nell’estate del 1517 è segnalata più volte dai corrieri la presenza lungo la costa di fuste turchesche e le università di Strongoli e di Crotone inviano corrieri ad avvisare le terre vicine e mandano le guardie a cavallo a vigilare alla foce del Neto (48). Negli anni seguenti si fanno sempre più frequenti, soprattutto presso la marina, i saccheggi degli abitati, del bestiame e del raccolto; la popolazione per sfuggire al rapimento ed alla schiavitù si sposta verso l’interno. E’ del 1535 l’ordine di abbandonare i casali e le terre non fortificate e di riparare, specie d’estate, all’interno delle città murate. Contribuisce allo spopolamento d’alcuni abitati anche il tentativo di fuggire alla pesante tassazione per fuochi ed ai nuovi oneri per le fortificazioni. Nella primavera del 1541 iniziano i grandi lavori per costruire le mura ed i baluardi della città e castello di Crotone. Concorrono alle spese, secondo la popolazione e la distanza, le università dei luoghi vicini, dapprima fornendo calce e pietra e poi denaro (49). Per la massiccia domanda di manipoli e di devastatori, soprattutto nei primi anni di costruzione, numerosi abitanti della vallata si insediano a Crotone e prestano la loro opera nella regia fabbrica.
I lavori alle fortificazioni di Crotone si prolungheranno, anche se in modo discontinuo, per tutto il secolo e le università della vallata verranno di continuo tassate secondo la popolazione censita per fuochi (50). A queste tasse si aggiungeranno quelle per le regie strade, per la costruzione delle torri marittime (51), per il salario dei cavallari, che fanno la guardia alla marina e cavallaro per cavallaro si danno avviso della presenza delle galeotte, per mantenere ed alloggiare la fanteria spagnola ed i capitani a guerra, che in gran numero durante la primavera e l’estate vigilavano la marina (52), per i numerosi corrieri mandati dalle terre vicine per avvisare la presenza di galeotte turche (53), ecc.. Decadono i casali vicino alla marina (Crepacore, San Stefano, Strongolito, S. Leone, San Biase ecc.) violentemente colpiti dai fatti bellici del quattrocento, impoveriti e spogliati di ogni diritto dai baroni ed ora saccheggiati dai Turcheschi. La violenza baronale, la lotta tra le opposte casate aristocratiche per il controllo del potere cittadino e la forte tassazione spagnola accrescono il banditismo, che trova in Sila e nelle campagne il naturale rifugio. Facilitano il fenomeno la difficile situazione economica determinatasi con il fallimento per siccità del raccolto del 1559, con la seguente mortifera carestia (1560), con le persecuzioni religiose (1561) e con le incursioni turchesche e la peste del 1562. Un vigoroso movimento sotto la guida di “Re Marcone” scorazza per le campagne e le città della presila, taglieggiando e rapinando. Altre bande al comando di feroci banditi sono in agguato nei folti boschi vicini ad ogni città, dove sovente godono di complici e protezione. La situazione sociale peggiorò talmente, che “non solamente è continuato lo timore deli Turchi per mare ma è tanto augmentato lo numero di forasciti, che non solamente predavano le campagnie ma entravano nelle città, et terre murate, et commettevano molti homicidii, furti, et rapine in danno deli cittadini et habitanti” (54). E’ del 25 giugno 1562 un ordine del Vicerè che ordinava alle università di sfrattare “li dissutili”, un successivo bando del 17 luglio comandava di tagliare la testa ai fuorusciti e di sfrattare i loro congiunti e parenti. Il 2 agosto giungevano altri due bandi; uno metteva una taglia su Pietro Bianco, indicato come “forascito” e “forbandito”, e l’altro ordinava alle università di “non recettarnosi li parenti deli foresciti” (55). Nel 1563 Re Marco con 150 “forasciti”, evidentemente con la complicità di alcuni del luogo, riusciva a penetrare in Cropani, abitato razziato l’anno prima dai Turchi, e metteva a sacco le dimore di alcuni possidenti, parte dei quali era trascinata via, per ottenerne il riscatto.
Sempre in quell’anno il ribelle aveva sconfitto, ed in parte ucciso, cinquanta soldati spagnoli della compagnia, acquartierata a Crotone, del capitano Diego de Veza. I soldati partiti di notte da Roccabernarda, si erano avventurati nei fitti boschi della Sila ma, sorpresi da una tempesta si erano smarriti ed avevano dovuto soccombere ai ribelli, che uccidevano anche l’alfiere di casa Medina, che li comandava.
Il 16 agosto 1563, inviato dal vicerè il duca d’Alcala, partiva da Napoli il preside di Calabria Ultra, il marchese di Cerchiara Fabrizio Pignatelli, con “mille fanti spagnoli, e ducento uomini d’armi et altrettanti cavalli leggieri”; lo aspettava, come si diceva, una banda ben organizzata di “seicento cavalli” di fuorusciti, stipendiati a nove scudi al mese, sotto il comando di Re Marco che ha un suo “consiglio, secretario Ferrerio, commissarii et altri ufficiali”.
Tra le imprese, che si attribuivano al ribelle, c’era il tentativo di impadronirsi della città di Crotone, che gli Spagnoli ritenevano la chiave di volta della loro difesa in Calabria, l’avere stracciato un privilegio ad un possidente di quella città, rilasciandone uno simile ma con la sua firma e l’aver esteso la sua autorità su un vasto territorio silano e presilano, sul quale esigeva i pagamenti fiscali e amministrava la giustizia “come quello fusse il suo regno”, incitando i manutengoli dei casali a non pagare le tasse, ad assaltare e ostacolare gli Spagnoli e gli esattori, che si recavano per perseguire i ricercati.
Attendeva il marchese un’impresa sanguinosa anche perché, per controbattere le taglie che gli Spagnoli avevano messo sul capo dei ribelli, si vociferava che questi ultimi avessero ribattuto ponendo “taglioni, di due mila scudi sopra il Marchese, e dieci per ogni testa di Spagnuolo, e seicento per il dottore Uzeda; il quale sta in servizio con soldati”.
Alla fine, utilizzando i soliti sistemi del terrore, della tortura e del tradimento, il Pignatelli “distrusse e pose in fuga tutta quella gente, la quale non fu mai più veduta in quei paesi” (56). Se la ribellione era stata sconfitta, non cessava l’opera dei banditi e permaneva il pericolo delle incursioni turche, tanto che nell’estate 1564 i fanti e gli ufficiali della compagnia del coronello Mario Pignatello (57) sono a guardia della città di Crotone e della marina circostante.

Il ritorno del rito greco
Iniziato sul finire del Quattrocento, continua nella prima metà del Cinquecento l’esodo delle popolazioni greco- albanesi verso la Calabria. I nuovi arrivati, quasi sempre gente povera, sono sfruttati dai baroni del luogo come manodopera a basso prezzo, da contrapporre per contrastare ogni rivendicazione dei loro vassalli. Gli Albanesi sono utilizzati dai baroni per ripopolare feudi e terre in abbandono ed incolte. Essi hanno ripopolato e dato nuova vita a molti abitati della vallata, situati in luoghi per lo più poco fertili ed inospitali. La loro presenza è predominante soprattutto a Carfizzi, San Nicola dell’Alto, Zinga, Monte Spinello, Belvedere Malapezza, Scandale e Cotronei (58). I nuovi venuti, nonostante le persecuzioni da parte della gerarchia cattolica, mantengono il rito greco, che all’inizio del seicento è ancora celebrato a Scandale (59), Montespinello (60), Belvedere (61), Carfizzi (62), S. Nicola dell’Alto (63), Papanice (64), Cotronei (65) e nel casale di recente fondazione di San Giovanni di Palagorio (66). Parrocchiali di rito greco intitolate a San Nicola sorgono accanto alle parrocchiali latine a Caccuri, Casabona, Cotronei, S. Nicola dell’Alto, S. Severina, Scandale, Papanice e Crotone. In alcuni casali gli Albanesi utilizzano antiche chiese latine preesistenti come a Cafizzi (Santa Venere), Pallagorio ( San Salvatore) e Strongoli ( Santa Maria della Greca). I poverissimi casali abitati dai “Greci”, gente dedita al lavoro dei campi ed utilizzata anche come manodopera per la costruzione delle fortificazioni, sono costituiti quasi completamente da tuguri e pagliai, cioè da costruzioni in canne e paglia, di facile demolizione soprattutto all’avvicinarsi dei contatori di fuochi.
Malvisti dalla popolazione latina, essi dopo il Concilio di Trento sono perseguitati di continuo dai vescovi, i quali colpiscono ogni tradizione pagana. “ I curati.. invigilino di rimuovere l’abuso delli lutti, et pianti immoderati, si fanno nelli morti, et funerali, et vietino espressamente si come noi vietamo sottopena di scomunica, che l’homini et le donne si graffino le faccie, et che l’istesse donne lascino l’abuso di battersi i petti et fare reputi et di proseguir lo cadavero alla chiesa, d’entrar a fare simili lamenti, et pianti nelle chiese.. et li medesimi curati, ci diano nota di quelle donne, che sotto pretesto della morte delli suoi, restano le Domeniche et feste di precetto d’intervenire et essere presenti al sacrificio della S.ta Messa, et d’andare a sentire la parola di Dio” (67).

Verso la decadenza
La tassazione focatica del 1521 fa emergere l’importanza che conserva ancora all’inizio del Cinquecento la città di Santa Severina (tassata per 450 fuochi), alla quale seguono nell’ordine per popolosità Caccuri (185), Verzino (181), Casabona (179), Strongoli (172) e molto distanziate ed in decadenza le due città vescovili di Cerenzia (95) e Umbriatico (66) e da ultimi Rocca di Neto (52) ed i due casali albanesi di Carfizzi (23) e San Nicola dell’Alto(9) (68). L’aumento della popolazione, che come si evidenzia dalle numerazioni dei fuochi tra il 1532 ed 1578, quasi raddoppia, oltre che dalla mancanza di gravi epidemie e per la favorevole congiuntura economica e commerciale è determinato anche dall’immissione sul territorio di genti albanesi, greci e schiavoni (69). Nel 1530 incomincia la formazione del nuovo casale con greci e schiavoni attorno al monastero di San Giovanni in Fiore per concessione di Carlo V al commendatario Salvatore Rota (70). Seguirà con le stesse popolazioni quello di Altilia per opera del commendatario Tiberio Barracco. Sempre prima della metà del Cinquecento vengono fondati i casali di Monte Spinello, di Belvedere, di San Mauro e di Scandale e forti aumenti di popolazione sono segnalati un po’ in tutta la vallata: a Caccuri, Cerenzia, Santa Severina, Strongoli Umbriatico e Verzino. L’andamento positivo subisce alla fine del secolo una drastica inversione . Determina la diminuzione della popolazione il ripetersi di raccolte sterili e di pestilenze, tra le quali la gravissima epidemia del 1592, quando “avvenne una mortalità così grande per tutta la provincia che si fe’ calcolo esserne morta la terza parte delle genti” (71). Contribuiscono alla decadenza anche le frequenti incursioni turchesche, tra le quali è da annoverare quella che investe Strongoli e gli abitati della bassa vallata ad opera dell’armata del Cicala nell’agosto/settembre del 1594.

La costruzione della torre di Calimera o della Limara
Per proteggere la navigazione e la marina già durante il viceregno del duca d’Alcalà (1559 -1571) era cominciata la costruzione di torri regie marittime. Le torri di solito erano costruite nei capi e alla foce dei fiumi. Una di queste fu costruita in territorio di Strongoli presso il capo di Neto (72). La torre era custodita da un torriere o caporale, un milite spagnolo di nomina regia, e da due servienti, nominati dall’università sul cui territorio era edificata la torre. Essi avevano il compito di vigilare e proteggere la navigazione e la marina e di segnalare ogni presenza sospetta. Tra i torrieri della torre di Calimera ricordiamo: Rodriguez de Somoza Bartolomeo (1569), Roscinda de las Quintas (1571), Gerolamo de Vera (1581), Blas de Zunica (1597–1613) (73).

La costruzione della torre di Fasana
La costruzione di una torre a Fasana in territorio di Strongoli, a sinistra e presso la foce del Neto, si inserisce nel tentativo da parte dei feudatari e dei grandi proprietari terrieri di mettere al riparo la vita ed il raccolto dai sempre più frequenti saccheggi dei turcheschi e dei banditi. La torre inoltre servirà come magazzino in cui ammassare il grano, nell’attesa di imbarcarlo per Napoli dal vicino scaro presso la foce. Si deve all’aristocratico crotonese Lelio Lucifero la decisione e l’onere della costruzione. Il Lucifero tramite il suo amministratore Gio. Andrea Puglisi, darà inizio all’opera nel 1586. I lavori di costruzione saranno eseguiti sotto la direzione del mastro fabbricatore cutrese Giuseppe La Macchia, che è aiutato nella costruzione da due mastri e da manipoli (74). Morto in quello stesso anno Lelio Lucifero le sue proprietà, tra le quali il territorio di Fasana con torre e magazzini, passarono al fratello Jo. Paulo Lucifero, ma essendo dopo poco morto anche costui, subentrò il figlio di costui Lelio Lucifero juniore. Per la minore età di quest’ultimo il tutto nel 1591 è sotto la tutela della madre Isabella Leone, moglie del fu Jo. Paulo Lucifero (75).

La costruzione della Torre di Neto
In seguito, nel 1593/1594, seguendo le indicazioni del governatore di Calabria Ultra Henrico de Mendocza e del regio ingegnere Vincenzo de Rosa venne decisa la costruzione di 14 torri; 13 dal Tacina al Capo delle Colonne ed una alla foce del Neto. All’inizio del Seicento il mastro Petruczo de Franco iniziava la costruzione di una torre regia marittima alla foce del Neto in territorio di Crotone.
L’auditore Sancio de Miranda alla fine del 1601 emanava alcuni ordini diretti ai partitari, affinché si faccino pagare l’anticipo spettante, come previsto dalla capitolazione da essi fatta con la Regia Corte, che prevedeva anche la consegna di altro denaro ad alcuni cassieri, scelti dalle università sul cui territorio si dovevano edificare le torri.
All’inizio dell’agosto del 1602 alcuni di questi ordini avevano già avuto il loro effetto.
Il mastro Petruczo de Franco, partitario della torre di Neto in territorio di Crotone, presenta al castellano di Crotone Antonio dela Motta Villegas un ordine emanato dall’auditore Miranda il 29 ottobre 1601, che gli consente di incassare i ducati 100 di anticipo ed il Villegas ordina che altri ducati 150 si dovessero consegnare al cassiere della torre di Neto, da scegliersi dall’università di Crotone, per essere spesi ad ogni ordine del mastro per il servizio della torre, di cui ha l’appalto.
Avendo già incassati i ducati 100 di anticipo ora il mastro vuole utilizzare gli altri ducati 150. Avendo già pronti i materiali nel luogo, dove deve essere costruita la torre, e’ sua intenzione iniziarne quanto prima i lavori, essendo il tempo favorevole per la costruzione delle fondamenta, che devono essere scavate dentro il letto del fiume, conforme al disegno consegnatogli dal regio ingegnere.
Il castellano Don Antonio dela Motta Villegas, sopraintendente delle torri che si costruiscono nel Marchesato, il 9 agosto 1602 scrive perciò al tesoriere Camillo Romano, ordinandogli di consegnare ad Alonso Corrales, pregio di Petruczo de Franco e deputato cassiere della torre di Neto, i ducati 150 da prendersi o dai pagamenti delle imposizioni per la fabbrica delle torri o, mancando questi, da quelli della guardia.
Il tesoriere il 14 agosto 1602 da Monteleone ordina al suo luogotenente nel Marchesato di Crotone, Gio. Battista Oliverio, di pagare ad Alonso Corrales i ducati 150.
Il 23 settembre 1602 Lutio Liveri a nome di Jo. Battista Oliverio consegna in Crotone i ducati 150 ad Alonso Corrales, spagnolo abitante in Crotone e deputato cassiere, perché possa spenderli ad ogni ordine del mastro Petruczo de Franco per il servizio della torre di Neto (76).
Ai primi di aprile 1604 l’ingegnere Vincenzo De Rosa con il tesoriere Camillo Romano ed il soprastante della torre, Vincenzo Scigliano, si reca a misurare la torre e trova che “neli cavamenti per il pedamento si son fatti canni piccoli n. 487 et meza, cioe’ canni 298 e palmi 54 per lo cavamento del pedamento e canni 188 e palmi 42 che de mio ordine d.o m.o ha cavato atorno atorno detta torre più del cavamento ordinato … per non fare spesa d’impelliciata che forno palmi 4 larghi atorno atorno. Et più ha fatto de fabrica in detti pedamenti canni 195 e palmi 46”. Dalla perizia fatta risultava che il mastro aveva maturato un totale di ducati 1054, tari 4 e grana 13 (77).
Il mastro chiede che gli si aumenti il prezzo della canna di fabbrica da 29 carlini a 39 e l’ottiene.
Il 24.2.1605 il De Rosa fa un’altra misurazione ed il 13.3.1605 il mastro ottiene dal tesoriere il saldo di ducati 334 e grana 19 (78).
Vincenzo De Rosa il 19.11.1605 rifà le misurazioni e certifica che nel frattempo il mastro aveva costruito canne 84 e 1/4 di fabrica, aveva scavato un pozzo all’interno della torre per 10 canne piccole e fatto un terrapieno nella torre di canne 174, maturando ducati 478 e grana 10. Essendo il mastro debitore verso la tesoreria di ducati 47 e tari 4 per l’interesse del 10 per cento su un anticipo di ducati 200, il luogotenente Carlo Nicotera di Nicastro lo salda in Cutro il 17.1.1606, versandogli ducati 430 e carlini 3 (79).
Nel maggio del 1606 i lavori proseguivano e su ordine di Baltasar Calderon il mastro riceve dal luogotenente del tesoriere un altro acconto di ducati 200 per procedere nella costruzione (80).

La vallata alla fine del Cinquecento
Lo spopolamento ed i cattivi raccolti rendono le campagne insicure per la presenza di banditi e di ladri e fanno decadere soprattutto le città vescovili di Santa Severina , Strongoli, Umbriatico e Cerenzia.
Grotte, case terrane, casalini, qualche casa palaziata, la casa grande, dove abita il feudatario o il suo sostituto, con stalle, magazzino, cucina e forno, la cattedrale, alcune cappelle, il palazzo vescovile, il castello, la cinta muraria con le torri, due o tre piccoli conventi fuori e vicino alle mura, formano materialmente le città più importanti della vallata nel Cinquecento. Esse sono attorniate da orti con alberi di noci, fichi, mandorli, gelsi ecc. Piccoli mulini (alcuni a vento) e frantoi di olive, quasi sempre di proprietà baronale, sorgono vicino ai fiumi ed ai torrenti. Vignali, oliveti e vaste estensioni di terre aratorie e di prati per il pascolo caratterizzano la bassa vallata, dove la maggiore produzione è costituita da “grani, horgi, lini, fave, bambace” e pascolano soprattutto “bacche, pecore, crape, giomente, porci”. Nella parte mediana predomina l’olivo, i boschi di querce e di lecci, il castagno, il gelso, il noce e si coltivano il grano bianco ed il germano, l’orzo, i legumi, il lino, la canapa ecc.
L’alimentazione della popolazione è a base d’erbe ed è integrata dal pane, dal vino, dalle uova e dalle carni conservate del maiale. Tra gli alimenti, la maggior parte ad uso dei possidenti e dei funzionari, sono ricordati il caso, casicavalli, ricotte, grano, pane, vino, oglio, horgio, pullastri, galline, frisinghe, grastati, palumbi, porco silvagio, salciczi, crapetti, porcello, carne de vitella, carne di porco, carne de zimbato, carne de sacime, pisci, cauli, radici, mele, zafarana, pipe, ova, moccarruni, sale, simula, meluni, caniglia. Mandriani dei casali silani spostano le greggi di capre e pecore e le mandrie di bovini di proprietà dei feudatari e dei nobili secondo le stagioni dalla pianura alla Sila. L’economia della vallata è basata sulla rotazione triennale delle terre da seminative a pascolo. Sulle stesse terre si accavallano ogni tre anni i fidatori delle mandrie ed i massari. Il riposo triennale con la concimazione costituisce la premessa per il successivo triennio a semina (81).
Quasi tutte le terre e le case appartengono ai baroni ed agli ecclesiastici. Gli abitanti abitano in case terranee e grotte e possiedono solamente piccoli terreni, vigneti e vigne; il tutto gravato da censi che devono alla chiesa e al barone.
Strongoli, città dominante l’ingresso della vallata ed esposta alle incursioni turchesche, durante il Cinquecento è resa più sicura con nuove fortificazioni. Verso la metà del secolo il vescovo Timoteo Giustiniani fa iniziare la costruzione di quattro robustissime torri (82) ed il vescovo Claudio Vico, verso la fine del secolo, ne completa una vicino al proprio palazzo vescovile, che era stato rifatto dalle fondamenta dal Giustiniani (83). All’interno della cinta muraria c’è l’antichissima e grande cattedrale dedicata ai SS. Pietro e Paolo, divisa in tre ali separate da archi gotici, restaurata dal vescovo Vico, essa è fornita di sacrestia, coro, battistero e campanile. Ci sono inoltre tre piccole chiese “rurali”: L’Annunciazione, S. Giovanni e S. Giacomo (84). All’esterno, ma vicino alle mura, sorgono : la chiesa di S. Maria dela Greca detta poi de Catholica, accanto alla quale il vescovo Giustiniani fonda il convento domenicano (1573) (85); il monastero dei minori conventuali di S. Maria delle Grazie o de Planetis (1511) (86) e il convento degli agostiniani detto di S. Maria del Popolo (1599) (87). La città ed il suo territorio subiscono nel 1594 la devastazione da parte dei Turchi (88) e la sua popolazione dai 460 fuochi del 1578 scende ai circa 200 del 1597 (89).
Conserva una certa importanza la città di Santa Severina per la posizione del suo castello e delle fortificazioni e come sede arcivescovile. All’interno delle mura c’è la cattedrale di Santa Anastasia Romana, restaurata ed ampliata dall’arcivescovo Francesco Antonio Santoro. La mensa arcivescovile gode di una rendita annua di circa 3000 ducati provenienti dalle rendite “grani et altre sorte di vittuaglie, decime di herbaggi et censi” (90) e che viene potenziata ulteriormente nel 1571 con l’aggregazione dei beni del vescovato soppresso di S. Leone. Accanto alla cattedrale con campanile, fornita di quattro bellissime campane, con sacrestia, fornita di preziosi paramenti e ornamenti, e con coro ed organo, sorgono il vescovato molto antico, rifabbricato alla fine del Quattrocento dall’arcivescovo Alessandro della Marra (91), il seminario, eretto subito dopo il Concilio di Trento, e la vecchissima parrocchiale di San Giovanni Battista, una delle sette parrocchiali della città. Ci sono inoltre i due conventi, il domenicano con sei frati e quello dei conventuali con due o tre frati (92). Nonostante la presenza di una sede arcivescovile la città, che sorge su di una rupe attorno alla quale sorgono “grotte, casalini et mesolari”, decade ed interi quartieri, costituiti per la maggior parte da case matte e terrane e da poche case palaziate, sono abbandonati (93).
In piena decadenza è la città di Cerenzia, distrutta e spopolata dalla peste del 1528, nel 1589 conta solo 60 fuochi. Abbandonata dal suo vescovo, che fa residenza a Cariati, ha la cattedrale pericolante, nonostante i restauri fatti dal vescovo Propertio Presta, il campanile è caduto e mai più ricostruito, la sacrestia povera, la casa del vescovo composta da due “stanziole” in terreno fabbricate di creta, recetto di topi e formiche. Posto malsicuro per la presenza di banditi e di ladri è abitata da gente povera e ignorante e manca di tutto: dall’acqua al maestro di scuola al medico (94). La diocesi di Cerenzia conserva ancora le terre di Caccuri e di Verzino, il castrum di Belvedere Malapezza ed il casale di Montespinello.
Umbriatico con la sua antica cattedrale dedicata a San Donato sorge isolata in mezzo ai monti. La città è come un’isola circondata da orrendi precipizi e per arrivarci si rischia la vita. Abbandonata da tempo anche dal suo vescovo, che fa residenza a Cirò, la città è abitata da nemmeno settecento abitanti (95).
Nella parte alta della vallata si estrae l’argento ed il ferro e si trova in abbondanza il sale terrestre, l’alabastrite bianca e nera, l’allume, il vetriolo, la terra di Tripoli, la terra rossa, lo zolfo, il gesso marmoroso e la pece nera.
Nella selva e nei folti boschi, popolati da animali selvaggi, da uccelli e da testuggini terrestri, crescono le erbe medicinali tra le quali l’eufrasia, l’agrimonia eupatoria, il meo, la centaurea maggiore e minore, l’eliotropio di due tipi, il dittamo, l’erba lunaria, il gigaro, “l’amoro”, ecc (96). Nei fiumi popolati di trote, anguille e qualche storione si immettono ruscelli di acque saline e solfuree.
Durante il Cinquecento ed il Seicento numerosi sono i feudatari che si succedono nella vallata. Con il disgregarsi della famiglia Spinelli, feudatari di Cerenzia,Montespinello, Rocca di Neto, Umbriatico, Caccuri e Verzino, Caccuri dagli Spinelli passa ai Cimino, ai Sersale, ai Cimino e quindi ai Cavalcanti; Cerenzia dagli Spinelli passa ai Cimino, agli Spinelli, ai dei Rota e poi dei Giannuzzi Savelli; Montespinello dai Lucifero passa ai Pisciotta poi ai Rota e quindi ai Giannuzzi Savelli; Rocca di Neto dagli Spinelli, ai Lucifero, ai d’Aquino, ai Prothospatari, ai Campitelli e da ultimo alla Certosa di S. Stefano in Bosco; Umbriatico va ai Rovegno e Verzino ai Cortese. Anche negli altri feudi si nota una continua successione : Strongoli dai Sanseverino perviene ai Campitelli e poi ai Pignatelli; Santa Severina dai Caraffa passa ai Ruffo quindi agli Sculco e da ultimo ai Grenther; il feudo di Belvedere Malapezza dagli Assan Paleologo passò ai Carafa, ai Lucifero, ai Barbaro, ai Rota e poi ai Giannuzzi Savelli; S. Nicola dell’Alto dai Pisciotta passa ai Moccia; Carfizzi dai Morano ai Badolato quindi ai Campitelli poi ai Caracciolo ai Moccia ai Scarfizzi Crispano e da ultimo ai malena; Casabona dagli Aragona, ai Cananea, agli Aragona, ai Cossa, ai Rocco, agli Aragona, ai Pisciotta, ai Campitelli, ai Pisciotta, agli Spiriti, ai Rossi, ai Moccia ai Crispano ed infine ai Capecelatro; Cotronei dai Morano passa ai Sersale quindi ai Caracciolo poi ai Filomarino; il feudo di Croniti o La Sala dai Sersale agli D’Orangia a Basilio Ungaro, ai Protospatari, agli Amalfitani ed infine ai De Mayda; Pallagorio dagli Spinelli passò ai Rovegno; Polligrone dagli D’Eboli, ai Giuranna, agli Alimena, ai Rota, ai Gianuzzi Savelli; ecc.

Tentativi di ribellione
I primi decenni della seconda metà del Cinquecento sono caratterizzati dalla cruenta repressione da parte dell’inquisizione cattolica e dell’apparato spagnolo di Turchi, ribelli ed eretici, che sono a volte accomunati con accuse pretestuose di attentare alla sicurezza dello stato, alla proprietà ecclesiastica e feudale ed alla religione cattolica. In tale azione si segnala soprattutto l’arcivescovo di Santa Severina Giulio Antonio Santoro, al quale è affidata anche l’amministrazione dei beni dell’abbazia di Santa Maria di Altilia, dopo che nel maggio 1567 l’abate commendatario Mario Baracco, sospettato di eresia, era stato condannato definitivamente da due cardinali della Santa Inquisizione e sospeso per un triennio dalla amministrazione dell’abbazia (97). Dalla fine del Cinquecento e per tutta la prima metà del Seicento il pericolo preminente per i dominanti è rappresentato dalle sollevazioni popolari contro lo strapotere baronale ed ecclesiastico e contro gli Spagnoli. Le violenti liti tra feudatari, clero e vescovi (98), la corruzione, che favorisce il discredito delle istituzioni (99), e la difficile situazione economica, che peggiora di anno in anno (100), danno origine a ribellioni e sommosse e, più del timore di nemici esterni, spingono ad inviare in Calabria nell’agosto 1599 Carlo Spinello, “non tanto per timore di galere turchesche”, quanto perché “vi era una congiura di molte persone, ch’avean per fine di sollevare in arme quella provincia, et esimersi dall’obbedienza del Re”. Il tentativo di Tommaso Campanella sarà soppresso nel sangue. I congiurati e i supposti tali saranno perseguiti e catturati; i loro familiari, i parenti e gli aderenti gettati in carcere ed i loro beni confiscati. Più di cento, fra cui otto frati, e lo stesso Campanella saranno imprigionati e torturati. Molti saranno giustiziati, squartati “tanagliati e strozzati” (101). Il pericolo di nuove congiure e di sempre possibili ribellioni sarà utilizzato dal potere come occasione e pretesto valido, per annientare ogni nemico sociale e personale. Con il pretesto dell’eresia molti, dopo essere stati torturati, saranno trascinati per le strade, mozzati e bruciati (102).

 

Note

1. Galasso G., cit., p. 28.
2. Pellicano Castagna M., Storia dei feudi cit., III, 266.
3. Galasso G., cit., p. 26; Casabona dal conte di Montello passò a Roberto Sanseverino che nel 1483 ne fece refuta a favore del figlio Giovan Francesco che a causa della ribellione fu spogliato. La terra fu data nel 1501 a Ferrante d’Aragona, in Maone P., Casabona feudale cit., p. 145.
4. Fasanella d’Amore di Ruffano R., cit., p. 82.
5. Capialbi H., cit., p. 266.
6. Zangari D., cit., p. 137; Pellicano Castagna M., Storia dei feudi cit., III, 75.
7. Russo F., Regesto, III, 190, 202, 208; Valente G., Calabria Calabresi e Turcheschi nei secoli della pirateria, Chiaravalle C., 1973, pp. 61 –63.
8. De Frede C., Rivolte antifeudali nel Mezzogiorno d’Italia durante il Cinquecento, Milano 1962, pp. 10-11; Coniglio G., cit., pp. 30-31; Galasso G., Mezzogiorno medievale e moderno, Einaudi 1965, p. 143; Morto Andrea Caraffa nel 1526 successe il nipote Galeotto ed a questi il figlio Andrea e poi Vespasiano, Fiore G., cit., III, p. 206.
9. Documenti di archivi, Siberene p. 285 sgg.
10. Saluto V., La spedizione di Lautrec contro il Regno di Napoli, in Studi Meridionali n. ¾, 1974, pp. 55 sgg.
11. Bernardo S., Santa Severina nella vita calabrese, IEM 1960, p. 111.
12. Cerenzia « antiquiss.a est et annis pluribus floruit quando de anno 1528 maxima illa pestis … civitatem p.tam tam valide oppressit, ut vix aliqui cives, arrepta fuga, evaserint », Rel. Lim. Cariaten. et Geruntinen., 1589,1602, 1606.
13. Il convento dei domenicani di Santa Maria del Soccorso di Caccuri, diocesi di Cerenzia, era situato a circa un quarto di miglio dall’abitato “in strada libera, pubblica e pratticata”.Esso fu fondato ed eretto per opera del frate Andrea da Gimigliano nel 1518 col consenso e su richiesta dell’università di Caccuri e con conferma ottenuta l’anno dopo da papa Leone X. All’atto di fondazione furono stabiliti alcuni patti e condizioni tra il frate da una parte e l’università e gli abitanti di Caccuri dall’altra. L’università si impegnò a fornire il terreno su cui doveva sorgere l’edificio, a sostenere alle spese di costruzione, imponendo una tassa su alcuni generi alimentari (carne e pesci), che doveva essere gestita dai frati, ed a fare edificare a sue spese due calcare per procedere e facilitare i lavori. Essa inoltre promise di intercedere presso il feudatario del luogo, il duca di Castrovillari e conte di Cariati Giovan Battista Spinelli, in modo che i frati potessero ottenere il permesso di fare una difesa nelle terre comuni, la qual cosa avrebbe fornito ai religiosi le entrate sufficienti per poter vivere. Non passa molto tempo e nel 1520 è posta la prima pietra del convento, che è benedetta da Gaspare de Murgiis, in quell’anno vescovo di Strongoli e vicario generale della chiesa metropolitana di Santa Severina, S. C. Stat. Regul. Relationes, 25, ff. 512-515, Arch. Segr. Vat; Fiore G., cit., II, 393.
14. Secondo i documenti esistenti nel convento, l’arcivescovo di Santa Severina Alessandro della Marra donò ai domenicani la chiesa di Santa Severina dedicata alla Annunziata e concesse loro di fondare il convento circa l’anno 1500. Il convento era in costruzione nei primi anni del Cinquecento, dopo l’arrivo degli Spagnoli e la presa di possesso della città da parte del feudatario Andrea Caraffa. Con il breve che inizia “In Ap.lica Dignitatis specula constituti” del 24 maggio 1502 il papa Alessandro VI confermava ai superiori ed ai frati del convento dell’Annunziata di Santa Severina la donazione a loro fatta della chiesa dell’Annunziata, situata dentro e vicino alle mura nel luogo detto Portanova, e di un pezzo di terra, ad essa contiguo, sul quale i frati avrebbero potuto edificare il loro convento. S. C. Stat. Regul. Relationes , 25, ff. 701 –705, Arch. Segr. Vat., Russo F., Regesto, III, 157.
15. Il convento dei domenicani di Verzino, diocesi di Cerenzia, sorgeva nel luogo detto “Il Campo”. Dopo che l’università nel 1537 con parlamento pubblico aveva dato il suo assenso, il 30 agosto 1543 il convento di Santa Maria della Grazia della terra di Verzino fu approvato dal priore e dai canonici della chiesa di San Giovanni in Laterano di Roma e per loro da Fra Giovanni Soldato di Squillace. Era provinciale dell’ordine dei predicatori della Provincia di Calabria Fra Girolamo di Monteleone. S. C. Stat. Regul. Relationes, 25, ff. 403 – 406, Arch. Segr. Vat., Fiore G., cit., II, 394.
16. Il convento domenicano di Santa Maria della Grazia di Cerenzia era situato dentro le mura della città, “in strada publica che delle case dell’habitanti è distante dal d(ett)o monasterio passi nove in circa”. Due anni dopo che la città di Cerenzia era stata spopolata e “destrutta” dalla peste, vi fu fondato ed eretto, su concessione del vescovo delle due diocesi unite di Cariati e Cerenzia, Tommaso Cortese da Prato (1529-1532), un convento di domenicani. Correva l’anno 1530 ed era pontefice Clemente VII (1523 –1534). S. C. Stat. Regul. Relationes, 25, ff. 278 –283, Arch. Segr. Vat., Siberene cit., p. 443.
17. Il convento di San Domenico di Strongoli sorse attorno alla chiesa di Santa Maria dela Greca, chiesa che secondo il Fiore fu fondata nel 1531. In seguito la chiesa senza cura di anime, che era situata presso ma fuori le mura, fu amministrata dal rettore Gaspare Murgia, il quale la consegnò senza alcun obbligo al vescovo della città, il domenicano Timoteo Giustiniani (1568-1571). Quest’ultimo, così come l’aveva ottenuta, concedeva la chiesa di “Santa Maria de Catholica, als de la Greca”, ai domenicani. Il papa Gregorio XIII, con breve dato in Roma il primo ottobre del 1573, dava il suo assenso ed accoglieva la petizione inviatagli dai cittadini di Strongoli , dal defunto vescovo Timoteo Giustiniani e da Gaspare Murgia, S. C. Stat. Regul. Relationes, 25, ff. 448 – 451v, Arch. Segr. Vat., Russo F., Regesto, IV, 494.
18. E’ certo che nel 1500 per munificenza di Lucia Gatona si fondò in contrada “Planeta” un eremitorio per i religiosi claustrali del terzo ordine di S. Francesco d’Assisi. Il convento prese il titolo dalla preesistente chiesa di S. Maria delle Grazie de Planetis e dopo pochi anni, nel 1511, fu concesso ai frati minori conventuali di S. Francesco. Il convento era situato fuori e lontano dalle mura e particolarmente esposto al pericolo delle incursioni turche Russo F., Regesto, 15375, 18315, 23369.
19. Nel 1532 Clemente VII confermava l’erezione di un convento in Santa Severina dell’ordine dei Minori Conventuali. Esso era stato fondato da Giovanni Francesco e Giovanni Maria di Sanctoseverino e da Antonio degli Infusini. Il convento dell’ordine dei conventuali, uno dei due conventi esistenti all’interno delle mura della città, era intitolato al Santo Salvatore ed era situato appena dentro la porta della città detta della Piazza e quasi sottostante alle muraglie del castello, Russo F., Regesto, III, 17161.
20. Fondato da Beato Matteo Vidio da Mesoraca poco fuori dell’abitato, Pellizzi C. – Tallarico G., Casabona, Cittacalabriaedizioni, 2003, pp. 147 e sgg., Fiore G., cit., II, 403.
21. Rel. Lim. Umbriaticen., 1600.
22. Siberene, p. 306.
23. All’inizio del Seicento sorse a Cotronei, casale in diocesi di Santa Severina, un monastero agostiniano. Esso fu edificato sulla strada pubblica ad “un tiro di scopetta”dall’abitato. Intitolato a San Marco Evangelista, fu fondato nel 1612. Contribuì all’erezione la baronessa del luogo Auria Morano, che diede il terreno, dove costruire il convento, ai frati della congregazione dell’ordine di San Agostino, e poi lo dotò di una rendita annua, con il patto che vi abitassero tre sacerdoti religiosi. Vi fu anche il consenso dell’allora arcivescovo di Santa Severina Alfonso Pisani. AGA, Ji, f. 145 –145v;Fiore G. cit., II, 385.
24. Nella seconda metà del Cinquecento fu eretto dagli agostiniani appena fuori le mura il monastero di Santa Maria della Grazia con chiesa di Santa Caterina. Esso compare già nel 1580. L’unico monastero esistente a Rocca di Neto è richiamato anche in una relazione di pochi anni dopo Tra i monasteri esistenti nel 1586 in diocesi di Santa Severina: “ Alla rocca di Neto vi è un convento di S.to Agostino”, Visitatio ap.lica Sanctae Severinae, 1586, SCC Visit. Ap. 90, ASV; Fiore G., cit., II, 385.
25. Fondato nel 1598/1599 dal frate agostiniano Guglielmo di Tarsia detto anche da Strongoli, col consenso di Clemente VIII e su richiesta del vescovo Claudio Vico e dei cittadini. Contribuirono alla costruzione ed al mantenimento dei frati la vedova Persia Pica ed il figlio Agostino Simonetta. Il convento che apparteneva all’ordine degli Agostiniani Zumpani era situato fuori mura “in una pianura vicino alla strada publica e distante dall’abitato passi 160”, Rel. Lim. Strongulen. 1612.
26. Siberene, p. 443.
27. Siberene , p. 437.
28. Secondo il Fiore il convento dei frati minori osservanti riformati di Santa Severina fu fondato da Pietro da Cassano nel 1611. Secondo altri il convento intitolato alla SS. Vergine Annunziata fu fondato nel 1613. Il convento era situato poco fuori la porta della città detta della Piazza, Fiore G., II, 419.
29. Il convento fu costruito all’inizio del Seicento durante il vescovato di Sebastiano Ghislieri (1601-1626). Lo stesso vescovo nella sua relazione del 1625 così ne descrive la fondazione: Otto anni fa a mie spese, per la maggior parte, edificai il convento dell’ordine dei cappuccini di S. Francesco, nel quale al presente dimorano sette frati cappuccini, ai quali quattro anni fa per il loro sostentamento assegnai 24 libbre di carne alla settimana, vita mia durante. In una relazione gli stessi frati fissano il loro arrivo a Strongoli nell’anno 1614. Il provinciale frate Matteo da Corigliano il 22 aprile 1614 piantò la croce per la fondazione ed il 22 agosto seguente il frate Matteo Persiani diede inizio alla permanenza dei cappuccini a Strongoli. L’anno dopo il provinciale ispezionò il luogo, tracciò la pianta del convento e stabilì il numero dei frati che doveva contenere. I frati giunsero in quello stesso anno e cominciarono a raccogliere il materiale ed i mezzi per iniziare la costruzione del convento. Si iniziò dapprima a scavare e fabbricare la cisterna che doveva essere situata in mezzo al chiostro. Il 2 giugno 1616 alla presenza del vescovo di Strongoli Sebastiano Ghislieri e del nuovo provinciale, Frate Francesco da Paola, fu posta la prima pietra della chiesa e del convento.Rel. Lim. Strongulen.1625.
30. Status monasteriorum Cist. Ord. ex Visitatatione an. 1569, Conc. Trid. 2, f. 119, ASV.
31. C.S.- S. E. – Cart. 60 fasc. 1333, ASCZ.
32. Sec. Brev. 334, f 122-126, ASV.; C. S. – S.E. Cart. 60 fasc. 1333, ASCZ :
33. Sec. Brev. 402, f. 192-196, ASV.
34. L’inventario cit., Siberene p. 205.
35. Sec. Brev. 402, f. 194, ASV.
36. La chiesa di Santa Maria de Terrata è richiamata anche in alcuni atti della seconda metà del Cinquecento, quando essa era custodita da eremiti. Da una relazione sappiamo che la grancia, che da tempo era amministrata, assieme agli altri beni dell’abbazia, dagli abati commendatari di San Giovanni in Fiore, fu nel 1570 oggetto di una convenzione tra il commendatario Bernardino Rota ed i superiori dell’ordine cistercense. Il Rota con tale atto obbediva alle constituzioni emanate dai papi per ripristinare i monasteri cistercensi con l’assegnazione della terza parte delle rendite ai monaci perché potessero ripristinare gli edifici ed il culto, S. C. Stat. Regul. Relationes 16. Riformati San Bernardo (Cistercensi) ff. 53-56, 59v. A. S.V.
37. Morto in quell’anno il Rota, la commenda fu conferita al cardinale Giulio Antonio Santoro il quale eseguì l’accordo che prevedeva l’assegnamento di beni per 220 ducati, concedendo perciò alcuni beni e le due grancie, con chiese e case, di Vordò nella terra di Caccuri e di Santa Maria della Terrata nel territorio della Rocca di Neto, dove l’abbate possedeva molte altre terre. L’assegnazione delle due grancie fu fatta con la condizione che i monaci facessero celebrare la messa nelle chiese. La grancia di Santa Maria delle Terrate era costituita dalla chiesa, da una casa e da un piccolo pezzo di terreno dell’estensione di una tomolata e mezza, per potersi fare la vigna. La chiesa allora era servita da un eremita.
38. S. C. Stat. Regul. Relationes cit., ff. 104-105.
39. Il Ricci, nella relazione del 1621, fa riferimento all’abbazia dell’ordine di S. Bernardo “dove sta un frate ch’a la Mensa dell’Abbate quale e Rodolfo de Rodolfi che la tiene in comenda, et resteranno per l’Abbate da 150 d(oca)ti et la Mensa sarà d(ocat)i 30. Questa chiesa è discosta dalla t(er)ra circa un miglio. La chiesa è destrutta et la casa del Monaco sta mal accomodata, sarebbe forsi bene levar il monaco et trasferire il serv(iti)o delle messe, che molte volte non se dicono, alla chiesa Matrice della T(er)ra et farle celebrar dalla Comunità de preti, questo temperam(en)to non sarebbe di preiudicio alla Religione, perche l’interesse è di niun momento. Sarebbe di qualche agiuto a questi poveri Preti, si sodisfarebbero le messe et si levarebbe anco qualche nido de Ladri. Sempre lo stesso vescovo ribadirà la richiesta di soppressione dell’abbazia nel 1625 chiedendo al Papa “che il servitio della messa dell’abbadia Paganella di S. Maria Trium Puerorum dell’abate Rodolfo mal servita da un frate di S. Bernardo, si riduchi alla comunità de preti di Caccuri con l’entrata della Mensa, che saranno da trenta ducati lanno incirca, che saria d’utile alla chiesa perché saria servita et di nulla preiuditio all’abbate et si levaria quel nido de ladri”, Rel. Lim. Cariaten. Geruntin., 1621, 1625
40. Trinchera F., Codice cit., pp. 222- 223.
41. Siberene cit., p. 534.
42. Documenti di archivi, Siberene, p. 292.
43. “Scipio Spinellus, Ioseph Spinellus et Carolus de Aquino avarissime utuntur subiectis, imponentes onera importabilia, personas assidue defatigantes, novas gabellas, et exactiones inventantes, et bona communia, et particularia publice subtrahentes, nec Deum, nec Iustitiam reverrentes, paternas monitiones ab Episcopo nolunt recipere..”, Rel. Lim. Umbriaticen., 1600.
44. Rel. Lim. Cariaten et geruntinen., 1589.
45. Documenti di archivi, Siberene pp. 376 sgg.
46. Rel. Lim. Cariaten. et geruntinen., 1589.
47. Maone P., Casabona cit., Historica n. 5/6, 1964, p. 200.
48. Carte relative alla badia di S.ta Maria di Altilia, C. S.- S. E., Cart. 60, fasc. 1333, ASCZ.
49. Il 14 maggio 1517 l’erario di Crotone paga un corriere inviato dall’università di Strongoli “per avviso de due fuste turchische”; Il 9 luglio 1517 paga “bonayuto de Strongoli venio in cotroni ad notificar di certe fuste turchische”; Sempre nello stesso mese è un pagamento “per la guardia a cavallo fata al neto.. per suspetto dele fuste turchesche”, Introyto erario de Cotrone, 1516/1517, Fs. 532/10, ff. 24, 28v., ASN.
50. Tra i sindaci delle università della vallata sono ricordati: Strongoli (Carluccio de Junta, 1542); Casabona ( Marino Russo ,1541; Antonio Maria Pixotta, 1542; Jo. Andrea Pantisano, 1542); Casale di Belvedere (Joanne Gaverropoli, 1542; Cola Livani, 1542); Santa Severina (Minico de Yerardo e Petruczo delo Moyo, 1542); Cerenzia ( Cola Suprano, 1541); Rocca di Neto ( Colella dela Grutteria (1541); Caccuri ( Domenico Inrigana (1541), Dip. Som. 196, 4-6, ASN.
51. Nel giugno 1578 per la costruzione del nuovo baluardo del castello e per riparare una cortina delle mura della città di Crotone, le terre della vallata vennero tassate a fornire carri per portare la legna dai boschi alle calcare e la pietra per far calce dai moli alla marina a ragione di un carro ogni cento fuochi. Dovettero fornire due carri: Strongoli (fuochi 460), S. Severina (f. 414) e Caccuri (f. 325); fornirono un carro: Casabona (f. 230), Umbriatico (f.130) e Cerenzia (f. 120). Le due terre di Rocca di Neto (f. 120) e Belvedere e Montespinello (f. 156) fornirono invece ciascuna due guastatori per aiutare a carricare e scarricare le calcare, Torri e Castelli, Vol. 135, ff. 18 –20, ASN.
52. Nel 1579/1580 esistevano in Calabria Ultra 49 torri regie marittime. Un caporale ed un milite erano addetti alla custodia. Il caporale percepiva uno stipendio mensile di ducati 4 ed il milite uno di 25 carlini , Cunto del Regio Thesoriero di Calabria Ultra nell’anno 1579- 1580 per guardia delle Torri, ASN.
53. Città strategica per la difesa del regno dal nemico turco, la città di Crotone e la marina circostante sono nella bella stagione, tempo di pericolo, difese da un forte presidio spagnolo: nell’estate 1558 ci sono 700 fanti, nel 1560 vi veniva mandato Salvatore Spinelli con 800 soldati, l’anno dopo vi era acquartierata una compagnia con duecento spagnoli, Caracciolo F., Uffici, difesa e corpi rappresentativi nel Mezzogiorno in età spagnola, Reggio C., 1974, pp. 169 – 170.
54. Tra aprile ed agosto 1562 l’università di Melissa pagò a 5 grana ciascuno 22 corrieri; 11 provenienti da Cirò e 11 da Strongoli. Tra l’altro furono avvistate 22 galere a Capo Stilo (12 aprile), furono presi “li navili allo capo dela lige (10 maggio), furono avvistate 3 fuste a Capo Nao (25 giugno), 7 galeotte a Fiumenicà ( 3 luglio) e 2 galeotte a Cirò ( 12 luglio), Libro V ind. 1561 fatto per le spese dell’un.tà de melissa, Conti comunali fs. 199/5, ASN.
55. Così descrive la situazione il barone di Melissa Gio. Maria Campitelli: “ come detti forasciti, perseguitavano multi cittadini et principali di detta terra, et cercavano d’haverle per le mano componerli et amazzarli più volte se disse per piu diversi personi che detti forasciti volevano intrare dentro detta terra di Melsa, et abuscarse in quella per fare molti homicidii et amazzare a quelli forno ramazzorno Gio. Pietro Bianco forascito, et rebelli di la corte per fare altri arobbi e delitti non senza gran danno et interesse deli citadini, et habitanti”, Fondo Pignatelli Ferrara, Fs. 51 bis, Pr. 100, f. 7v, ASN.
56. Libro V ind. 1561 fatto per cit.
57. Relazioni varie dall’anno 1561 sino al 1596 in Archivio Storico Italiano t. IX,1846,pp.195-196; De Mayda B., Splendore della misericordia…, Valle di Pompei 1918,pp.18-19; Fiore G.,Della Calabria Illustrata,Forni 1974, Rist.,I, 215.
58. Tesorieri e Percettori Vol. 4087 (1564- 1565), f. 293, ASN.
59. Brasacchio G., cit., III, 79.
60. “Scandale è … habitato da cinquecento Greci e cento cinquanta latini.Ha due chiese greche, et una latina:così anco vi sono dui preti, uno Greco con dui Diaconi, et uno latino. Questi Greci vivono catholicamente per la vigilanza che vi ha sempre usata il cardinale di S.Severina a farli ben’instruire, e riformare”, Rel. Lim. S. Severina., 1589.
61. “Il casale di Montisp(ine)llo, altre volte di rito greco, pian piano col tempo s’è ridutto al rito latino, e non vi restano più che quattro o cinq(ue) fameglie, che vivono secondo il rito greco..” Rel. Lim. Cariaten et Geruntin., 1605.
62. Il casale di Bilvedere habitato da Greci; che vivono secondo il rito greco. Hanno il loro curato in una sol chiesa parrocchiale..”, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntinen., 1605. Belvedere Malapezza era stata ripopolata con genti di origine greco- albanese alla fine del Quattrocento ed all’inizio del Cinquecento risultava feudo di Federico Assan Paleologo, Pellicano Castagna M., La Storia dei feudi cit., I, 208; Nell’aprile 1542 era barone Marcho Antonino Locifaro, Dip. Som. Fs. 196/4, f. 25, ASN; Nel 1620 Antonio Rota è barone del “Castrum” di Belvedere Malapecza, ANC. 49, 1620, 14.
63. “Casale Carfizzi quod incolunt Albanenses, qui ritum grecorum sequuntur habet praesbiterum grecum coniugatum cum eius coadiutore similiter coniugato..”, Rel. Lim. Umbriaticen., 1600.
64. “Casale S.ti Nicolai de Alto ciuus solum pleno iure spectat ad ecc.m cathedralem umbriaticen., habet cappellam sub invocatione S.ti Nicolai et casale habitatur ab Albanensibus grecorum morem sequentibus, qui habent praesbiterum grecum curatum..”Rel. Lim. Umbriaticen., 1600.
65. Rel. Lim. Crotonen., 1597.
66. “Cotronei è casale habitato da Albanesi al numero di quattrocento anime, quali vivono al rito Greco nel modo che si è detto di Scandale et perche il loro Barone è latino, vi stanno dui preti, un Greco col suo diacono, et un latino, ciascaduno con la sua chiesa”, Rel. Lim. S. Severina., 1589.
67. Il vescovo di Umbriatico Pietro Bastone (1611 – 1621) nella sua relazione del 1611 asserisce che nella sua diocesi ci sono tre casali abitati da Albanesi. Nella relazione in data 2 dicembre 1618 fa esplicito riferimento alla formazione del nuovo casale di San Giovanni de Palagorio: “ In territorio huius Civitatis Umbriatici quodnuncupatur San Gioanne de Palagorio sunt preterea nonnulli quoadunati noviter, et Latinorum, et Albanensium; ubi viginti construxerunt tuguria, et cum tota familia habitant..”, Rel Lim. Umbriaticen.,!611, 1618.
68. Litere Pastorales Ill.mi R.mi D.ni Alphonsi Pisani, Data in Sata Severina nel Palazzo Arciv.le a 13 di Decembre 1630, AVC.
69. Pedio T., Un foculario del Regno di Napoli del 1521, in Studi Meridionali n. 3/1991, pp. 262-265.
70. Valente G., Dizionario dei luoghi della Calabria, Frama’s 1973; Torri e Castelli, Vol. 35, ASN.
71. Napolitano R., S. Giovanni in Fiore cit., pp. 127 –129.
72. Fiore G., cit.,
73. Nel giugno 1594 il vascello di N. Greco inseguito dai Turcheschi era riuscito ad approdare a Capo di Neto, vicino alla torre di Strongiolo, ANC. 49, 1594, 118-119.
74. Mazzoleni J., Fonti cit., p. 349; Valente G., Le torri cit, pp. 74 –75, Vaccaro A, Fidelis cit., p 199.
75. Dal conto dell’amministratore Gio. Andrea Puglise si ricava: “L’altra partita di ducati quattro e tari uno dice haverli pagato a mastro Gioseppe Lamacchia fabricatore per haver fabricato alla torre di fasana; 13 maggio 1586. A di detto al m.co Horatio Lucifero ducato uno per comprarmi tre pale di ferro, che servino alla fabrica della torre di fasana se li fa bono, poi che ne costa ch’in detta torre si fabricava et ci erano necissarie detti pale; 16 maggio 1586. A 16 detto, a Gio. Montileone per comprare vino et altre robbe, per portarle alla torre di fasana dove se voltava la lamia; A di detto a Mastro Gioseppe la macchia docati dieci e carlini sette, per havere fabricato esso con dui altri mastri, et manipoli alla torre, et scala di fasana appare polisa a 16 maggio 1586; A di (25 maggio). al detto ducati sei, tari uno e grana dieci, et sono per lo prezo de quarantacinque tiylli, a grana quattro l’uno, et per lo prezo di tavole cinquanta de butiello servino per voltare la lamia de fasana; A di detto al m.co Cosmo lo epitropo, ducati dui et tari quattro per lo prezo de tabule n. vintiotto di mesura serviro per fenire le lamie della torre de fasana; A di detto, a Gio. Montileoni massaro carlini decietto per pagarne le genti che tagleno tanta frasca per cocere un’altra volta la calcara de fasana; A di detto (1° giugno) a m.o Gioseppe la macchia fabricatore ducati dudici et carlini sei, per havere fabricato esso con altri mastri et manipoli alla torre de fasana, appare lista tanto dille giornati quanto delli mastri et manipoli preditti; A di detto a Pietro Giovanni la macchia carlini trentasei per havere caricato la carcara a fasana et per sua mastria et cuocirla se li fa buona detta partita non obstanti che none mostra polissa poichè costa haversi fabricato et era necessario di farsi carcara di calce; A di 8 giugno 1586 a m. gioseppe la macchia fabricatore ducati dieci tari quattro et grana quindici per havere fabricato esso con altri mastri e manipoli alla torre de fasana appare lista delli mastri et manipoli et giornati et polissa; A di detto al R.do don alfonso de Alessandro ducati dudici debito per prezo de dece canne de pietre et palmi cento di cantoni et uno travo di palmi n. quaranta quattro venduti a detto q.m lelio; A 20 de giugno 86 a m.o Gioseppe la macchia carlini quaranta due per havere fatigato con altri mastri alla torre de fasana; A di detto (23 giugno) pagato a ger.mo varano carlini dui et se pagarno comer priore in tando della chiesa di S.ta maria della pietà de ditta città per haverli prestata una scala grande di detta chiesa et quelli mandata a fasana per servitio di detta fabrica quale dice haversi rotta et per elemosina et pagamento di quella et dono , ANC. 108, 1614, 193 –211.
76. Il territorio di Fasana con torre, magazzini, cappella e cisterna passerà poi in proprietà del marchese di Casabona Scipione Pisciotta, come si ricava dall’elenco dei numerosi beni lasciati in eredità nel 1622 dal marchese. In seguito si aprirà una lunga lite in Sacro Consiglio tra gli eredi ed il principe di Strongoli Francesco Campitelli, marito di Francesca Pisciotta, nipote di Scipione Pisciotta. Poi Fasana passerà a Domenico Pignatelli, quindi a Geronimo Pignatelli e poi alla figlia di quest’ultimo Lucrezia Pignatelli (1728 -1760), che sposò Ferdinando Pignatelli. Si deve ai coniugi Pignatelli la trasformazione della torre in un magnifico casino, ANC. 49, 1591, 56 -58; Fondo Pignatelli Ferrara, Fascio 77 Prat. N.41, f. 1v, 26.6.1668- Inventario fatto da Domenico Pignatelli per morte di Francesco Campitelli. ASN.
77. Atti Notaio J. Galatio, Cotrone 23.9.1602, Fs.1602, ff.328-329, Arch. Vesc. Crot.
78. ANC.69,1604,10-11.
79. ANC.69,1605,47-48.
80. ANC.57,1606,7v-8.
81. ANC.69,1606,7v.
82. Diritti feudali a Santaseverina, Siberene p. 555 e sgg.
83. Ughelli F., cit., IX, 522-523.
84. Rel. Lim. Strongulen., 1594.
85. Rel. Lim. Strongulen., 1594, 1597.
86. Russo F., Regesto, III, 438;IV,494.
87. Russo F., Regesto, IV, 30.
88. Fiore G., cit., II, 386.
89. Rel. Lim. Strongulen. 1594, 1597.
90. Lo spopolamneto di Strongoli proseguirà nei primi anni del Seicento: “Civitas Strongolen… cum sit magna ex parte diruta centum octoginta focularia non excedit”, Rel. Lim. Strongulen., 1612.
91. Visitatio Apostolica Sanctae Severinae, 1586, SCC Visit. Apost. 90, ASV.
92. Siberene, p. 414.
93. Visitatio cit.
94. “La Città oltre che è fortissima di natura è anco munita d’un fortissimo castello. Il sito di essa città è capace di più di cinquemilia anime, ma per li debiti universali, et per il mal governo di Conti p(at)roni d’essa Città, et delli officiali temporali da cinquanta anni in qua è andata decrescendo in modo che à pena vi si numerano quattro, o cinquecento anime et se non fusse stata d’alcuni anni quà protetta dalla pietosa mano del R.mo Mons.re Alfonso Pisani al presente Arcivescovo di quella Città saria all’intutto desolata”, Rel. Lim. S. Severina., 1603.
95. Cerenzia “habitata da gente povera… La chiesa catedrale e fuora della habitatione in loco eminente et mal seguro per i banditi et latri… da sessanta anni casco’ il campanile senza esser mai refabricato…Rel. Lim. Cariaten. et Geruntinen., 1589.
96. Rel. Lim. Umbriaticen., 1600.
97. Marafioti G., Croniche e antichità di Calabria, Padova 1601, pp. 203 –204.
98. Russo F., Regesto, 21754.
99. Il vescovo di Umbriatico Alessandro Filaretto muove numerose accuse per mettere in cattiva luce l’arcivescovo di Santa Severina Alfonso Pisano, che vuole esigere il diritto di spoglio. Tra le accuse vi è quella che “Fuit per eumdem R.mum E.pum quem supra carceratus quidam monacus, qui in carceribus fame et inedia in extremis redactus, cum peteret sacram(ent)um poenitentiae et eucharistiae omnibus per eumdem denegatis mortuus extra ecc.am tamq. canis proiectus”, Rel. Lim. Umbriaticen., 1598.
100. “Vivit in Civit. S. Severiane quidam Marcellus Barach, qui contracto matrimonio, et consummato, ac per pluris annos cum Innocentia dello Moyo uxore prima cohabitans, tandem illa mortua contraxit matrimonium cum alia sorore utrimque coniuncta, cum maximo scandalo totius Provinciae iactando se obtinuisse dispensationem in hoc primo gradu affinitatis”, Rel. Lim. Umbriaticen., 1600.
101. Nel giugno 1616 il vescovo di Cariati e Cerenzia Filippo Gesualdo faceva presente che “L’entrate del vescovato sono incerte per esser decime e terraggi e molti beni stabili e raggioni della mensa sono occupati, et impediti, e per la potenza laicale e per la povertà della mensa di due chiese non si può litigare, Rel. Lim. Cariaten. et Geruntin., 1616.
102. Do0cumenti sulle novità tentate in Calabria nell’anno 1599, in Archivio Storico Italiano, Firenze t. IX, 1846, pp.405 sgg.
103. Il 19 agosto 1614 in Catanzaro il capitano della città Don Francesco de Vega, Fra Antonio Cataneo, il signifero Fra Amilio Malagrezza ed il milite della società equestre del marchese di Sant’Agata Julio Antonio Schimano dichiaravano che “hieri lunedi 18 del p(rese)nte mese di Agosto ritrovandono nella piazza p(ubli)ca di detta citta di Catanzaro a tempo si voleva esseguire la giustitia contro Fran.co de Paula della p(redi)tta città per ordine dell’Ill.mo S.r Don Carlo di Sangro Gov(ernato)re et cap(ita)no a guerra in questa Provincia di Calabria Ultra, et mentre il detto Fran.co salio sopra il catafalco per tagliarsi il capo, p(rim)a di esseguirsi la detta giustitia esso Fran.co stando alla allerta disse con voce forte, et alta, che fu d’ogn’uno inteso in questo modo: Sig.ri gentilhomini miei io dechiaro et confesso, qui in publico, come tutti quelli capi che mi sono stati apposti nella corte vescovale d’heresia, m’erano stati dati appostamente per prolongarsi la mia vita, et percio per discarrico de mia conscienza per togliere il scandalo dal populo, et la infamia data a me et tutta mia casa declaro et confesso, che sempre ho vissuto catholicamente, et da christiano, che sono stato, et sono, et da catolico voglio al presente morire, havendo sempre havuto desiderio di sparger il sangue per la fede di Christo mille volte, et altre parole simili, mostrando segno di grandissima contritione, et dopo dette queste parole s’inginocchio in detto catafalco pose il collo al ceppo, et dal ministro regio gli fu troncato il capo …”, ANC. 108. 1614, 174.


Creato il 15 Marzo 2015. Ultima modifica: 21 Aprile 2015.

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