Centimoli e mulini d’acqua di Crotone e del Marchesato
La presenza di mulini d’acqua in territorio di Crotone è documentata fin dalla metà del XII secolo. In una donazione fatta nel 1159 da Curbulino al monastero eremitano di San Stefano Protomartire, compare il toponimo “fossam Molendini”. Esso fa parte del confine di un fondo nella pianura a sinistra dell’Esaro, presso il torrente “Armira”[i] (Armeri), vicino all’odierna località Cipolla. Ancora alla fine del Cinquecento, alcuni piccoli mulini ad acqua erano in attività nelle campagne di Crotone attorno alla città,[ii] ma quasi tutta la molitura ormai avveniva all’interno delle mura, utilizzando le vecchie mole e le macine azionate da animali.
I mulini ad acqua non ebbero infatti nel Medioevo ed in età moderna un particolare sviluppo in territorio di Crotone; certamente non lo ebbero come in altri paesi confinanti o vicini. Evidentemente ciò dipese più che per la natura dei luoghi, per il ruolo politico militare della città e per il potere che vi esercitò l’aristocrazia. Motivi strategici e di interesse, impedirono lo sviluppo dei mulini ad acqua nel territorio della città.
Mentre altri paesi del Crotonese conobbero la presenza opprimente e monopolistica del feudatario, che, forte dello “jus prohibendi”, era proprietario di tutti, o della quasi totalità dei mulini, che di solito fecero parte integrante dei beni feudali, Crotone fu quasi sempre città demaniale ed importante fortezza militare. Specie nelle annate sterili, una delle principali preoccupazioni dell’università, dominata dagli aristocratici che facevano fortuna speculando sul commercio del grano, era quella di assicurare il grano sufficiente sia per il pane dei cittadini e dei soldati di presidio, sia ai coloni per poter seminare.
Così facendo i possidenti si assicuravano da una parte, il controllo sociale, prevenendo il pericolo di sommosse popolari, dall’altra l’accumulazione. Essi impedivano la ribellione, la morte per fame o la fuga dei coloni, eventi che si sarebbero ripercossi sull’economia della città, lasciando i campi sfittati, desolati e incolti. Una volta ottenuti raccolti sufficienti, tramite la concessione dei terreni, il cappio dell’usura ed il prestito delle sementi, ai quali i coloni avevano dovuto sottostare per potersi alimentare e coltivare, era assicurato alla aristocrazia ed al clero il processo speculativo.[iii]
Perciò, subito dopo una raccolta scarsa, i governanti fissavano la quantità di grano che necessitava, sia per assicurare il pubblico pane della piazza fino al nuovo raccolto, sia per poter seminare. Essi procedevano quindi al “ratizzo”, a ripartire cioè, il fabbisogno di grano per la città tra i mercanti, i quali dovevano fornirlo a seconda della quantità racchiusa nei loro magazzini.
L’attività molitoria era regolata e tassata dall’università ed il governo cittadino, dominato dall’aristocrazia, favorì la proprietà e lo sviluppo di centimoli, per uso proprio, per produrre farina per conto di terzi, e per rifornire le pubbliche panetterie. L’esistenza solo di mulini “centimoli” dentro le mura, se da una parte era condizione importante per un vettovagliamento anche in caso di assedio, dall’altra dava l’occasione alla nobiltà locale di esercitare il controllo della farina; monopolio che sarebbe subito venuto meno nel caso che sul territorio civico, avessero potuto operare i mulini ad acqua, ben più potenti e convenienti dei centimoli.
Il centimolo, almeno fino alla fine del Cinquecento, faceva parte integrante della dimora signorile. Esso era di solito situato in un basso, o “catoyo”, e al suo funzionamento era addetto un “molinaro” alle dipendenze del nobile.[iv] I centimoli, piantati nei bassi delle case palaziate dei possidenti,[v] erano utilizzati spesso evadendo le proibizioni e le tasse sulla macina.
L’università di Crotone, come anche altre università vicine con antiche tradizioni demaniali (vedi Santa Severina), possedeva fin dai tempi antichi il dazio, o gabella della macina della farina. Previo assenso regio, questa poteva metterla all’asta pubblica, ed affittarla al maggior offerente “con i capitoli soliti et centimoli dentro la città”. Nella seconda metà del Cinquecento, la gabella dava un’entrata di un carlino per tomolo di macinatura di grano, e l’università nel ricavava circa 1000 ducati all’anno.[vi] Erano esenti in “toto”, o in parte dalla tassa, oltre agli ecclesiastici ed i chierici, anche i forestieri e le compagnie dei soldati che venivano e si acquartieravano in città.[vii]
Acquirenti del dazio erano gli aristocratici della città, che a turno si avvicendavano e ne traevano i benefici. Essi controllando il governo cittadino, indebitavano di continuo l’università verso la regia corte, la quale per poter incamerare, concedeva facilmente l’assenso all’alienazione. Così nel febbraio 1589, l’università di Crotone si rivolgeva al re, facendo presente che “per li molti pesi et debiti che tiene et per li mali annate et raccolti che sono stati max.e nel presente anno quasi tutti li cittadini sono sfrattati et perche non tiene comodita alcuna de complire alli pesi et debiti che tiene et max.e per dare soccorso alla compagnia spagnola che in essa resede”, alla quale deve dare 12 ducati al giorno, chiede e ottiene il regio assenso a poter nuovamente affittare per un anno la gabella della farina.[viii]
Ma nonostante questa concessione l’anno dopo il sindaco dei nobili, Gio. Andrea Pelusio, doveva recarsi a Napoli, e ripetere la richiesta per poter pagare i debiti che l’università ancora aveva, soprattutto verso il tesoriere. Egli ottenne di poter vendere per altri due anni il dazio della macina.[ix]
Dopo essere stata amministrata da Camillo Pipino nel 1589, la riscossione della gabella pervenne a Gio. Francesco Lucifero, il quale già in passato l’aveva affittata. Il Lucifero l’affitterà dapprima per due anni e poi per altri 19 mesi, con i capitoli soliti e consueti, e con i centimoli dentro la città, nelle case e nelle abitazioni dei padroni.[x] In seguito però, il Lucifero pose la condizione che “li centimoli delli cittadini se haveano da reducere fuora le proprie case dalli padroni”. Per aver per tanti anni riscosso il dazio della macina della farina, il Lucifero sarà soprannominato “Lo molinaro”,[xi] e durante la sua amministrazione i mulini uscirono dalle case dei proprietari, tranne quelli di alcuni aristocratici, che pagarono una tassa annua per poter conservare i “centimuli” nelle loro dimore.[xii]
Sempre in questi anni di fine secolo, per la necessità di reperire denaro e per la povertà della università, la tassa fu raddoppiata passando ad un tari per tomolo di macinato.[xiii] L’aumento del dazio e il fatto che i mulini erano stati concentrati in un unico luogo, soggetti ad un miglior controllo, se da una parte rivalutarono la gabella dai circa 1000 ai 1500 ducati all’anno, aumentando le entrate dell’università, dall’altra tutto ciò colpiva i coloni che portavano il grano a macinare e, facendo lievitare il prezzo della farina e quindi del pane, l’aumento si andava a scaricare sulla popolazione. Più crescevano le tasse e più gli aristocratici indebitavano l’università, che era costretta a prendere denaro in prestito dagli usurai, pagando elevati interessi.
Nel 1598 l’università di Crotone deve a Cornelia Ricca ducati 3000 al 10%. Per non pagare più gli interessi essa ottiene di affittare per due anni il dazio della macina della farina a Nicolò Prato per ducati 3300.[xiv] Il governo cittadino, prendendo a pretesto lo stato di difficoltà e l’impossibilità di far fronte ai pagamenti verso il fisco, continuò ad ottenere i relativi assensi dalla regia corte.
Nel 1605, trovandosi l’università debitrice di una grossa somma di denaro nei confronti di Gio. Francesco Lucifero, e vertendo la lite nel Sacro Regio Consiglio, tramite comuni amici delle parti, per non sopportare ulteriori spese, i governanti cittadini si accordarono di versare al Lucifero oltre 4000 ducati. Per reperire tale somma, non avendo denaro né altro modo più comodo, l’università vendette l’affitto del dazio della farina per quattro anni continui, ad Horatio Venturi e soci.[xv] Nel frattempo le case ed i mulini costruiti per ordine dell’università, cominciarono a decadere ed il prezzo della gabella iniziò a scendere.
Nell’aprile 1609, poiché stava per scadere la durata del regio assenso per la concessione in fitto a privati del dazio della macina della farina che esige “cinque cavalli per rotolo di grano”, i governanti ricorsero al re chiedendo una proroga. Nel luglio dello stesso anno venivano concessi ancora cinque anni con le solite condizioni, che cioè la gabella fosse affittata a cittadini, o abitanti della città, eccetto i chierici e gli ecclesiastici, in asta pubblica, e che il denaro servisse solamente per pagare il fisco o i servizi regi.
Dopo essere stata affittata a Gio Cesare Scazurlo, nel luglio 1611, prima della scadenza fu nuovamente messa all’asta per la durata di 15 mesi a partire dal 4 marzo 1612. Partecipò all’asta il facoltoso spagnolo Alonso Corral, da anni residente in città, il quale offrì subito duc. 1700, con la condizione che da questa somma, fossero tolti duc. 60 per poterli spendere “in benefitio di essa città per l’acconci et reparatione delli molina”. Dopo varie offerte, l’asta fu vinta da Horatio Venturi, che già in passato l’aveva affittata, che offrì ben 1825 ducati.[xvi]
Il tentativo di obbligare i padroni dei centimoli a toglierli dalle loro case, ed a loro spese concentrarli in un unico luogo, in modo da limitare le frodi e rendere più facile gli accertamenti e la riscossione della tassa, ebbe vita breve. Ben presto la maggior parte dei mulini ritornerà nei bassi delle case degli aristocratici, i quali “con l’occasione de preti et clerici che tengono alle loro case”, intestandoli a loro, riuscivano ad evadere le tasse, sfruttando l’immunità ecclesiastica.[xvii] I tentativi dell’università di tassare le persone che abitano con i preti ed i chierici come gli altri cittadini, specie in riferimento a quelle gabelle che esigeva previo il regio assenso, non portarono gli effetti sperati.[xviii] Infatti, ogni giorno in città sono rogati “diversi contratti di donationi, venditioni e cessioni stimolate da persone laiche di tutti loro beni, o parte di quelli, a chierici, e preti, loro parenti e amici, in grave pregiuditio e danno d’essa università”. Tali frodi non solo infrangono le leggi, ma soprattutto colpiscono la povera gente, in quanto “quello ch’essi fraudano son costretti a pagarlo gl’altri ch’anco sopportano i propri pesi”.
Per la difficoltà di riscuotere e per alcune annate scarse l’affitto della gabella della farina diviene una operazione speculativa dall’esito sempre più incerto. Nel 1620 e 1621 Ottavio Ciza prende in fitto la gabella per 2000 ducati, con la garanzia dei facoltosi Veza, ma l’avventura si chiude con una perdita di 300 ducati. Nella primavera del 1622 inviato dal tesoriere, giunge a Crotone il commissario della regia banca, per procedere contro i gabellotti dei dazi della città, che risultano in arretrato con i versamenti verso la regia corte.[xix] Messi alle strette, il denaro deve essere sborsato dai garanti, i quali poi si rivalgono sul Ciza, che riesce solo in parte a saldare. Perciò egli finisce nelle carceri del castello per più mesi, e vi sarebbe morto se la moglie del malcapitato non si fosse rivolta ad alcuni gentiluomini. Questi, intercedendo presso i creditori, li convincono ad accontentarsi di ricevere il denaro proveniente dall’affitto di un magazzino e dalla casa dei Ciza, fino al saldo del debito.[xx]
Per rimediare a tale situazione che, anno dopo anno, impoveriva sempre più le entrate e colpiva particolarmente la gabella della macina, i governanti, nel settembre 1632, adottarono nuovamente l’espediente di togliere i mulini dalle case dei padroni, per concentrarli, come per il passato, in un unico luogo. Per far ciò l’università si impegnò a ricostruire a sue spese gli edifici dei mulini.[xxi] Per poter sostenere la spesa, considerando che l’annata era stata fertile ed il grano andava a buon mercato, i governanti decisero di acquistarne una discreta quantità, per trasformarla in pane per i cittadini, e chiesero il regio assenso per imporre una tassa sul pane, in modo da utilizzare il ricavato per la costruzione delle case dei mulini. “Case” che furono edificate in parrocchia di Santa Margarita, vicino alle mura della città, tra il monastero di Santa Chiara ed il luogo detto S. Giorgio, propriamente vicino a dove poi sorgerà la cupola dell’oratorio, o chiesa dell’Immacolata Concezione,[xxii] zona che prese il nome di “alli Molina”.[xxiii]
Pochi mesi dopo l’università chiese il regio assenso per comperare 4000 o 5000 tomoli di grano, per assicurare il vitto ai suoi cittadini fino al nuovo raccolto e poterli trasformare in pane, “per uso et grassa de suoi cittadini et gente del presidio che in quella resiedono”. Furono elette due persone, tra le più facoltose della città, per amministrare il denaro proveniente dalla commercializzazione del pane, che sarebbe stato venduto ad un prezzo comprensivo delle spese sopportate, accresciute di un carlino per tomolo di grano acquistato. Il guadagno ottenuto sarebbe andato nella “accomodatione” e “nel refare le case delli molini di detta università”. Dopo questo intervento la gabella della farina, a parere dei governanti, si sarebbe apprezzata di circa 400 ducati all’anno.[xxiv]
Quale fosse il valore di un mulino centimolo in questi anni del Seicento, lo si ricava indirettamente da un atto notarile. Essendo morto Gio. Thomaso Facente, i tre figli si accordano e si dividono l’eredità in parti dello stesso valore: la prima comprende un mulino macinante con la sua mula; la seconda un paio di buoi, una somara col suo basto, un carro, un vomere, un’accetta, un’ascia a due mani, una verrina grande e due piccole, una cassa di noce ed una caldara grande di rame; la terza alcune vigne con il frutto degli alberi lì esistenti.[xxv]
Ben presto, tuttavia, i proprietari dei centimoli, con il pretesto che le case dei mulini si erano deteriorate, li riportarono presso le loro dimore e ripresero così le frodi a discapito della gabella della macina. Quest’ultima che, alla fine del Cinquecento, era stata elevata da 10 grana a 20, subì verso la metà del Seicento un ulteriore aggravio. Nonostante l’imposizione di nuove tasse e l’aumento di quelle esistenti, la città si indebitava sempre più verso la regia corte. Nel 1645 arrivò in città il presidente della Regia Camera, Simone Vaes, conte di Mola, per trovare con i governanti, un rimedio al fatto che l’università non aveva versato alcune rate del donativo di 11 milioni, a favore del re e per il “soccorso per l’infanteria”. Fu allora deciso, per non gravare ulteriormente i cittadini, di vendere la proprietà del dazio piccolo di un carlino a tomolo imposto, ormai in maniera duratura, dalla università sul pane che si vendeva in piazza ed in città, ed inoltre, di imporre una nuova gabella di grana 5 a tomolo sul dazio della macina, oltre il tari (1 tari = 20 grana) che già c’era.
Questa tassa doveva essere affittata per più anni ed il ricavato servire per sanare il debito. Ottenuto il regio assenso, nell’autunno dello stesso anno la nuova gabella fu messa all’asta pubblica, ed affittata per quattro anni e mezzo, ad una società composta da alcuni aristocratici, appartenenti alle casate dei Suriano e dei Presterà. L’applicazione della nuova tassa trovò però ostacoli. I padroni della nuova gabella, per imporne la riscossione, il 21 gennaio 1646 si recarono sul luogo dove si esigevano i dazi. Alla richiesta di grana 25 invece dei soliti 20, ottennero il rifiuto dei coloni che portavano il grano a macinare. Per costringerli a pagare, i padroni sequestrarono il grano. Propagatasi la voce per la città, una moltitudine di cittadini costringeva il sindaco dei nobili, Scipione Berlingieri, a recarsi sul luogo ed a sospendere la riscossione della nuova tassa.[xxvi]
“Essendono poi successe le passate revolutioni”, tutti i dazi furono sospesi per ordine del viceré Don Giovanni d’Austria. Fu così sospesa anche la nuova tassa di grana 5 a tomolo, sia perché l’università era riuscita a pagare il debito che aveva verso la regia corte, sia perché gli aristocratici, vista la precaria situazione sociale, avevano pensato bene di “dar buono esempio alli cittadini”. Passato però il pericolo, essi si rifecero vivi e chiesero e ottennero dall’università, di essere risarciti con gli interessi.[xxvii]
I “mulini della città”, ormai in decadenza, rimasero vicino alle mura in un luogo solitario, ritrovo di giocatori di carte,[xxviii] e indicato ancora alla metà del Settecento come “Alli Molina”. Molti centimoli continuarono a macinare nei bassi dei palazzi e delle case palaziate dei nobili,[xxix] degli ecclesiastici e dei chierici. All’inizio del Settecento li troviamo nei palazzi dei Petrolillo,[xxx] dei Suriano,[xxxi] dei Labrutis,[xxxii] degli Sculco,[xxxiii] nella casa palaziata del parroco Carlo Bonello,[xxxiv] in quella del chierico Gioseppe Gerace,[xxxv] in un basso del sacerdote Diego Zurlo,[xxxvi] ecc.
In seguito, con l’entrata della nuova legislazione anticurialista, con la compilazione del catasto onciario e la tassazione dei beni degli ecclesiastici, i mulini passarono ai “molinari”. Così mentre all’inizio del Settecento, le clarisse facevano macinare il grano nei mulini di D.a Maria Soriano e di D. Annibale Albano,[xxxvii] cinquanta anni dopo i loro macinati provenivano dai mulini di Margarita Russo, Pascale La Nocita, Nicolò Messina, e da un mulino d’acqua d’Isola.[xxxviii] Il valore di un “gentimolo”, cioè “legname e pietra tantum senza cavalcatura”, alla metà del Settecento era di circa 50 ducati,[xxxix]39 mentre un mulino d’acqua valeva almeno dieci volte di più.[xl] Il costo per ogni tomolo di grano da ridurre in farina lievitò durante il Settecento. Dai grana 9 per il trasporto del grano nei mulini ad acqua, che si trovavano venti miglia distanti dalla città, a cui si aggiungevano i 5 grana per la macina del 1734,[xli] si passa dopo trenta anni ad un costo complessivo tra i 15 – 20 grana.[xlii]
Allora in territorio di Crotone esistevano solo centimoli, il cui funzionamento era quanto mai precario e scarso, infatti, già da molti anni, il grano per i cittadini ed i militari quasi sempre era portato a macinare nei mulini ad acqua lontani dalla città, come si evidenzia anche da alcuni avvenimenti successi durante la grave carestia del 1764. Nel gennaio quell’anno, poiché in città non vi erano mulini d’acqua ma solo centimoli, ed a causa della carestia, molti cavalli e mule, non essendoci biade sufficienti, erano morti, o erano così deperiti, da essere incapaci di “far la macina”, i sindaci ed il governatore si recarono al porto e sequestrarono l’orzo e l’avena che trasportava un pinco, proveniente da Gallipoli e diretto a Napoli che, a causa del maltempo, aveva dovuto rifugiarsi nel porto di Crotone. In tale modo, temporaneamente si riuscì a sfamare le mule ed i cavalli, e si potette macinare il grano per fare il pane, sia per la popolazione, che per i soldati di guarnigione in città e nel castello.[xliii]
Ma ben presto l’orzo e l’avena finirono e, non più mossi dagli animali, i centimoli si fermarono. Perciò nel marzo di quell’anno, alcune panetterie che facevano il pane per l’annona della città, rimaste senza farina, si accordarono con alcuni conduttori di carri, affinché con i loro buoi, portassero il grano a macinare nei mulini di Corazzo, che si trovavano sulla riva destra del Neto in territorio di Scandale, “a motivo che li centimoli di questa città non macinavano, e pochissimi erano quelli che facevano tal mestiere per uso di casa”. Giunti i carri con il loro carico ai mulini, dopo poco arrivarono molti abitanti di Scandale, “armati di scopette, mazze ed altri sorti d’istromenti”, che si presero con la forza il grano e la farina.[xliv]
Alla fine del Settecento erano censiti otto “molinari” e 18 “molini macinanti”, tutti all’interno delle mura.[xlv] Bisognerà attendere l’Ottocento per trovare mulini fuori le mura. Una pianta del porto di Crotone del 1886 riporta un mulino “fumagnolo”. Esso era annesso ad un opificio di pasta, condotto da Gregorio Macrì per conto dei Barracco, ed era situato presso l’Esaro in località “Il Gesù”. Sempre in questi anni sono attivi mulini d’acqua in località Caramanli e sotto Apriglianello, presso il vallone Mezzaricotta. A ricordo, rimangono ancora oggi sui pendii delle colline i resti degli acquedotti. Allora la città era ricca di mulini a mole “nei quali si poteva sfarinare per il pubblico al prezzo di grana 16 per ogni tomolo mulito”.[xlvi]
Se sul territorio di Crotone nulla, o scarsa, è stata la presenza di mulini ad acqua in età moderna, molti di essi erano invece in funzione nei paesi vicini. Essi sorgevano specie lungo i due grandi fiumi Neto e Tacina[xlvii] ed i loro affluenti. Sul fiume Neto sono segnalati mulini già nel dodicesimo secolo. Allora essi erano soggetti al fisco regio e per la loro costruzione, e per utilizzare l’acqua del fiume, bisognava ottenere una concessione regia o imperiale.
Nel 1149 re Ruggero, confermando i privilegi dell’abbazia di Calabro Maria di Altilia, dava “licentia et potestate recipere aquam libere a flumine Neti pro facendis molendinis”,[xlviii] mentre l’imperatore Federico II nel 1219, concedeva dapprima ai florensi, di poter “molendinum aedificare in tenimento Acherentiae”,[xlix] e poi nel 1222 all’abbate Matteo di poter, nei territori di Cerenzia, Cosenza e Santa Severina, “edificare libere (…) molendinum et fullas ed edificata sine molestia qualibet libere et in perpetuum possidere”.[l]
È nota la controversia sorta nella prima metà del Duecento, tra i florensi ed il monastero del Patire di Rossano, per il passaggio dell’acquedotto che doveva alimentare il mulino posto nella grangia di Sant’Elena, vicino a San Petro de Cremasto (poi Rocca di Neto) nella bassa valle del Neto. I florensi ostacolavano il passaggio sulle loro terre dell’acquedotto, che doveva alimentare il mulino di proprietà del monastero del Patire.[li] Sempre i florensi ebbero nel 1258, dall’arcivescovo di Santa Severina, Nicola da San Germano, il permesso di usare l’acqua del Neto per alimentare un loro mulino. La concessione, rinnovata dall’arcivescovo Lucifero nel 1301, comprendeva la possibilità da parte dei monaci, di riedificare un altro mulino nelle terre della chiesa, qualora il fiume avesse mutato corso.[lii]
I mulini ad acqua andarono col tempo, a far parte delle prerogative di abati, vescovi e feudatari. L’acquisizione dell’immunità e del diritto di banno rafforzò il potere del signore sugli uomini che popolavano le sue terre, permettendogli d’imporre il monopolio dei mulini, dei frantoi, dei forni, delle taverne, ecc. L’arcivescovo di Santa Severina possessore di numerose tenute e prerogative, fin dal dodicesimo secolo, possedeva la “ecclesiam Sancti Leonis de Machaera cum pertinentiis suis et locis molendinorum, et tenimento Insulae = Ecclesiam Sanctae Mariae (…) iuxta Tachinam cum terris, vineis et loco molendini”.[liii]
In seguito, egli concederà, previo il pagamento di un censo annuo, l’uso del suolo e delle acque di proprietà della chiesa per costruire mulini.[liv] Così all’inizio del Cinquecento, la mensa arcivescovile riscuoterà ben 17 censi da mulini. Mulini che in seguito diminuirono, probabilmente a causa delle piene del Neto.[lv] La chiesa di Santa Severina conserverà ancora nel Settecento, il diritto di dare le acque dei torrenti Lucido ed Armo “per animare li molini a famiglie particolari” nel feudo di Santo Stefano,[lvi] mentre similmente il vescovo di Umbriatico riscuoterà le decime da quattro mulini.[lvii]
Se nel Medioevo i “baroni” ebbero il monopolio dei mulini,[lviii] col passare del tempo, per facoltà regia, feudale, o ecclesiastica, accanto ad essi sempre più numerosi, sorsero altri mulini edificati da “bonatenenti”. Quest’ultimi dapprima furono soggetti al fisco regio e/o a quello del signore sul cui territorio erano stati costruiti, poi furono tassati dalle università. Numerose lotte furono intraprese dalle università, sia per non subire il dominio feudale o, qualora ciò fosse avvenuto, per limitare e contrastare i diritti proibitivi[lix] sul suolo e sui fiumi, sia per poter liberamente amministrare e tassare i beni situati sul territorio civico.
Tra i capitoli concessi nel marzo 1525, dal conte Andrea Carafa agli uomini di Santa Severina, e dei suoi casali di Cutro e San Giovanni Minagò, oltre alla facoltà di “pigliare le acque, che discurreno et nascono per lo territorio”, e con acquedotti condurle in qualsiasi luogo senza impedimento e pagamento alcuno,[lx] vi era anche la possibilità da parte dell’università, di tassare i mulini presenti sul suo territorio. Mulini che nel passato, erano stati soggetti ai pagamenti fiscali e comitali, e che ora dovevano essere iscritti nell’apprezzo della città, eccetto quelli feudali, o quelli ai quali il conte avesse concesso in passato la franchigia.[lxi]
Piene rovinose del Neto con danni ai mulini, sono segnalate fin dalla seconda metà del Cinquecento,[lxii] allora sotto l’abbazia di Altilia vi erano i mulini di Giovanni Barracco, detti di Ardavuri,[lxiii] ed il mulino di Alessandro Infosino con il suo “acquaro”. A questi si aggiungerà quello costruito dall’abbate commendatario dell’abbazia, Tiberio Barracco. Tra i capitoli concessi nella seconda metà del Cinquecento dall’abate “alli vassalli che sono venuti, e veneranno ad habitare” nel territorio dell’abbazia e nel suo casale di Caria, l’odierna Altilia, vi era “che edificando d. abbate molino in suo potere pervenendoli a d.o territorio convicino, essi preditti habitanti sono tenuti andare a macinare in d.o molina e pagare la giusta raggione, et a tempo che si guasta l’acquaro siano tenuti donarci una giornata per ciascheduno, et cossi un’altra giornata al portare delle mole quando accaderà gratis”.[lxiv]
Prestazioni similari dovevano gli abitanti del casale di S. Giovanni in Fiore all’abbate florense; essi infatti erano tenuti alla manutenzione dell’acquaro affinché “le molina possano macinare commodamente in beneficio loro”. L’acquedotto derivato dal Garga, alimentare tre mulini ed un panditterio, che gli abitanti del casale erano obbligati a riparare a loro spese, “quando vi fosse guastamento notabile e grande o che si ghiacciano”, anche perché d’estate essi potevano utilizzarne l’acqua per innaffiare gli orti due volte alla settimana.[lxv]
Questi atti evidenziano che gli abitanti di una terra, o casale, non solo erano obbligati a servirsi del mulino del barone del luogo, pagando una tassa, pena la confisca della farina, ma dovevano anche prestare la loro opera gratuitamente ai lavori di manutenzione e di riparo. Nel 1601, tuttavia, lo stesso abbate di Calabromaria concederà ai monaci dell’abbazia, di potervi macinare gratuitamente il loro grano.[lxvi]
A tale periodo risalgono alcune notizie riguardanti dei mulini situati in territorio di Belvedere Malapezza. Il barone del luogo, Marcantonio Lucifero, possedeva tre mulini sul fiume Neto, vicino alla località “lo giardino”. I mulini stavano “tutti e tre in una casa”, e nell’anno 1588/89 erano affittati per 200 tomoli di grano.[lxvii] Nella carta di G. A. Rizzi Zannoni alla fine Settecento, sul Neto presso Belvedere ed Altilia, sono indicati il mulino “di S. Tomaso” e quello di località Barretta.[lxviii] Il mulino di Barretta, quello vicino di Petrirta e molti altri, passeranno nell’Ottocento in proprietà ai Barracco, i quali li usavano per macinare il loro grano o li affittavano.[lxix]
Sempre alla fine del Cinquecento, un altro mulino era in funzione in territorio di Rocca di Neto, ed il feudatario, il conte di Martorano, lo dava in fitto ogni anno.[lxx] Alcuni decenni dopo nel 1631, sempre di proprietà feudale, in territorio di Rocca di Neto troviamo quattro mulini. In quell’anno i mulini furono venduti assieme ad altre proprietà feudali da Francesco Campitello a Mario Protospatario. Quattro mulini, tutti in una casa, furono edificati nella seconda metà del Seicento dai nuovi feudatari di Rocca di Neto, i certosini di San Stefano del Bosco, i quali presero a censo per la loro costruzione, un piccolo terreno dall’abbazia di S. Giovanni in Fiore.[lxxi] Questi mulini sorgevano in località Scillopio Sottano, e venivano affittati in grano dal feudatario assieme ad un piccolo terreno agricolo vicino, e alle stanze situate sopra che erano utilizzate dai mugnai come abitazione.[lxxii] Passati in proprietà al Barracco, durante i moti del 1848 il grande mulino di Rocca Ferdinandea fu assalito dalla popolazione, che asportò circa 2500 tomoli di grano.[lxxiii] Essi erano ancora attivi all’inizio del Novecento.[lxxiv]
Nella bassa valle del Neto, sempre sulla sponda sinistra del fiume, i coniugi Ferdinando e Lucrezia Pignatelli, principi di Strongoli, fecero costruire nel 1743/1744, vicino al loro casino di Fasana, tre mulini, “acciò con tal erezzione di molini maggiormente s’aumentassero le rendite di d.o stato e principal camera”.[lxxv]
Importanti mulini di cui abbiamo notizia erano anche quelli di Corazzo,[lxxvi] sulla sponda destra presso il guado del Neto. I proprietari dei mulini nel Seicento pagavano un annuo censo all’abbazia di Santa Maria di Corazzo.[lxxvii] I mulini funzionavano ancora alla fine dell’Ottocento. Altri mulini erano situati lungo gli affluenti del Neto,[lxxviii] specie il Vitravo,[lxxix] il Lese e il suo affluente Lepre.[lxxx]
Altri erano tra Isola e Le Castella, lungo il torrente Vorga ed i suoi valloni, e nelle vicinanze di alcune sorgenti, nei pressi dei casali di Massanova e San Pietro in Tripani. In documenti del Duecento sono segnalati: “lo molino de lo episcopato de Asila”, situato nel vallone tra le colline di S. Stefano e S. Costantino,[lxxxi] il mulino sul torrente Ceramida di proprietà del monastero del Patire,[lxxxii] ed un mulino nel casale di Massanova presso la chiesa di Sant’Anna.[lxxxiii]
All’inizio del Cinquecento al confine, tra il territorio di Le Castella e quello di Isola, sul torrente Pilacca, era in funzione il mulino che era stato di Thomaso Scazurro ed ora era gestito dagli eredi Minico e Simone Scazurro. Essi dovevano pagare ogni anno una tassa di grana 22 al feudatario di Le Castella.[lxxxiv] Sempre sul Pilacca, o Vorga, presso la foce, vi era il mulino di Paolo Marrella. Nella seconda metà del Cinquecento vi era ancora il mulino degli Scazurlo, che era passato da Simone al diacono Vincenzo Scazzurlo,[lxxxv] ed era a monte, sotto San Fantino nel vallone di Pilacca, a Porcarito, ed erano in attività anche quelli di Scipione de Sancto Croce e di Melchiore Barbamayore, situati presso il casale di S. Pietro di Tripani.[lxxxvi]
Nel 1581, tra i beni feudali di Isola lasciati da Cesare Ricca al figlio Antonio, troviamo i mulini di Porcarito,[lxxxvii] delli Manchi, ed il mulino di Stefano di Renso, Cesare d’Abrigliano e Nardo Melione.[lxxxviii] Poco dopo la metà del Seicento, i mulini posseduti dal barone di Isola erano quelli “della Cona”, d’Ilice e di Porcariti;[lxxxix] sempre in quegli anni il vescovo di Isola, il catanzarese Carlo Rossi, diede opera a ricostruire e rinnovare a sue spese, il vecchio “molendinum aquaticum”, per aumentare con le sue entrate le distribuzioni quotidiane ai canonici.[xc] Alla metà del Settecento la principessa di Isola, Ippolita Caracciolo, possedeva i mulini “d’acqua” di Ilice, di Porcariti e di Zagora.[xci] Altri mulini si trovavano nel luogo detto il Ponte sempre sul Pilacca (proprietari erano Giacomo e Giuseppe Puglise e Marco Pedace), sotto San Pietro (proprietari il primiceriato ed il canonicato di S. Giuseppe),[xcii] e nel luogo detto Petrantino (Paolo Colucci).[xciii]
Nell’Ottocento quasi tutti i mulini di Isola passarono in proprietà ai Barracco. Nel periodo tra il 1865 ed 1883, i sette mulini che il latifondista possedeva ad Isola (Sant’Anna, Zagora, Ilice, Ilicicchio, Corazziti, del Ponte e Porcariti), gli rendevano in media 240 tomoli di grano all’anno che in seguito però calarono a 120/160.[xciv]
Da ricordare ancora quelli esistenti alla fine del Seicento nei pressi della città di Santa Severina ed in territorio di Cutro. A Santa Severina, vicino al convento dell’Osservanza, vi era una copiosa sorgente e, poco sotto, 7 mulini di proprietà privata servivano sia i cittadini di Santa Severina che di Scandale;[xcv] in territorio di Cutro è segnalato il “molino dell’acqua di Gennaro Zurlo”.[xcvi]
Altri mulini di cui si ha notizia all’inizio del Seicento, in territorio di Casabona e appartenenti al feudatario Scipione Pisciotta, si trovavano in località San Sosto, Acqua Dolce, Santo Biase, e due in località Carvanello.[xcvii]
Sempre negli stessi anni in territorio di Melissa, in località la Punta, in uno dei valloni che sfociano nel torrente Lipuda, vi erano due mulini di proprietà del feudatario Francesco Campitelli. Il feudatario li affittava per tomola 212 di grano all’anno.[xcviii] Mulini sorgevano inoltre lungo il Lipuda, che “anima i molini sotto Umbriatico, e più giù quelli di Carfizzi,[xcix] e poi di Melissa”.[c]
Da ultimo ricordiamo che, nei palazzi dove abitavano i feudatari con le loro famiglie e la servitù, oltre alle camere, stalle, dispensa, cucina, cortile, cantina, vi erano il forno, il pozzo e il centimulo,[ci] così ancora il centimolo è presente nei castelli di Crotone,[cii] Melissa,[ciii] Le Castella,[civ] ecc.
Nel Settecento il mutamento di regime dei fiumi, che scendevano dalla Sila, causato dal massiccio disboscamento dell’altopiano, con piene rovinose invernali e lunghi periodi di secca estivi, rese inutili alcuni mulini mentre altri dovettero essere ristrutturati.[cv] La costruzione di mulini ad acqua tuttavia, continuerà ancora nell’Ottocento, quando si venne affermando, anche se in maniera molto lenta, l’introduzione della macchina a vapore nel ramo molitorio. Allora coloro che li prendevano in affitto avevano quasi sempre l’obbligo di accomodarli e di rifarli, quando ve ne era la necessità, a loro spese senza nulla pretendere dal padrone.[cvi]
Solo dopo l’Unità d’Italia con l’emanazione della legge n. 4490 del 7 luglio 1868, che stabiliva l’imposizione di una tassa sulla macinazione dei cereali, si apriva la crisi dei mulini idraulici. La tassa sul macinato, entrata in vigore il primo gennaio 1869, tassava il grano due lire al quintale e gli altri cereali in misura minore, e prevedeva che il pagamento avvenisse nelle mani dei mugnai alla consegna della farina. La riscossione, attuata mediante contatori applicati alle macine, colpì soprattutto le popolazioni rurali, e provocò agitazioni e rivolte contadine;[cvii] essa mise in crisi i mulini più antiquati, specie quelli piccoli e rurali, determinandone la chiusura a causa della sproporzione tra l’onere fiscale e la loro modesta produzione, legata essenzialmente ad un consumo locale.
Note
[i] Trinchera F., Syllabus Graecarum Membranarum, Napoli 1865, pp. 208-209.
[ii] B. Susanna possedeva un mulino. Nel novembre 1592 spende 22 carlini “per nettare li fossi et far piantare lo molino”, ASCZ, Busta 49, anno 1594, f. 228v.
[iii] “… essa piccola città vive senz’altra industria di seminare grani et altre vettovaglie e nella raccolta li poveri massari vendono il grano raccolto a mercanti per Napoli et altri luoghi per esimersi dalli debiti contratti nell’inverno per vivere e coltura del loro seminato e quando li riesce fruttuosa la raccolta si ritengono parte del grano per la nuova semenza e per il loro vitto et alla magior parte anche li manca questo, si che si vede chiaramente che nel mese di agosto il grano passa tutto in potere de mercanti e pochi ritengono il loro bisognevole”. ASN, Coll. Prov. Vol. 328, f. 62.
[iv] “Adi 5 9bro (1570 morì) lo molinaro de jo antonio scavello”. ASN, Dip. Som. 315/9, Conto del m.co Giulio Cesaro Leone sopra l’intratre del vescovato de Cutrone, 1570, 1571.
[v] Nel 1570 in un “catoyo” del palazzo vescovile vi era un centimulo per uso del vescovo. ASN, Dip. Som. 315/9, Conto del m.co Giulio Cesaro Leone sopra l’intratre del vescovato de Cutrone, 1570, 1571.
[vi] Il 31.7.1583 M. de Vito acquista dall’università di Crotone il dazio della farina, per 18 mesi per ducati 2069, con la condizione che debba pagare duc. 1060 ai Piterà entrò il 20.10.1583. ASCZ, Busta 15, anno 1583, f. 34.
[vii] Crotone, 18.6.1583. L. Consiede, “contatore” della compagnia di cavalli leggeri della nuova milizia di Pirro Garraffa, protesta contro Guglielmo Piczuto, compratore del dazio della macina della città, in quanto “i soldati et cavalli leggeri de detta compagnia et suoi contatori deveno trattarsi franchi et immuni in gratia dela regia prammatica non solo dela meta de tutti i soi robbi ma anco per meta deli pagamenti de datii et gabelle della citta et anco del datio dela macina”. ASCZ, Busta 15, anno 1583, f. 28.
[viii] ASN, Prov. Caut. Vol. 17, ff. 18-20 (1589).
[ix] Il 3 giugno 1590 l’università di Crotone chiede che il luogotenente del tesoriere pazienti alcuni giorni che presto sarà soddisfatto: “… tra gli altri guai che tenemo vi si aggionge questo che lo S.r Scipione Rotella ci travaglia per lo restante del tesoro et in ogni modo vuol pagato (…) più parte n’have carcerati et in parte si stanno retirati dentro lo vescovato (…) et come che giovedì passato ultimo de maggio e partito da Napoli il S. dottor Gio. Andrea Pelutio nostro sindico quale porta l’assenso regio per vendersi per doi anni lo dacio de la macina”. L’università aveva avuto già dal viceré uno sconto di duc. 400, con i quali aveva pagato la tassa di 4 grana a fuoco, ed il resto lo aveva utilizzato “per le impositione dell’alloggiamenti dela regia gente d’armi, per la impositione della fabbrica, delle regie strade et per li fiscali”. ASN, Tesorieri e Percettori, aa. 1589/1590, Fs. 4141/538, f. 138.
[x] Nell’aprile 1590 i governanti della città, per poter pagare le tasse arretrate, ottengono l’assenso di poter affittare il dazio della macina della farina per 19 mesi, a partire dal 15 settembre 1592. Il dazio viene affittato per duc. 900 nuovamente al Lucifero, che già l’aveva avuto nel 1588 e nel 1589 e che, al momento, lo ha in fitto per due anni. Il Lucifero si impegna a pagare subito 800 ducati al tesoriere. ASCZ, Busta 108, anno 1591, ff. 65-70.
[xi] Gio. Batt.a Locifaro “alias lo molinaro”, morì il 15.12.1610 e fu seppellito in San Francesco d’Assisi. AVC, Libro dei morti.
[xii] B. Susanna ottiene previo il pagamento a Gio. Francesco Lucifero di ducati 6 all’anno, di tenere il suo centimulo dentro casa. ASCZ, Busta 49, anno 1594, f. 176.
[xiii] ASN, Provvisioni e Cautele, Vol. 26, f. 81 (1598).
[xiv] “Decreto per la citta di Cotrone quale per extinguere il sudetto debito deve a D. Cornelia Ricca have affittato per anni doi la gabella della macina della farina quale exige con regio assenso”. ASN, Provvisioni e Cautele, Vol. 26, f. 81 (1598).
[xv] ASCZ, Busta 49, anno 1610, ff. 50-53.
[xvi] ASCZ, Busta 334, anno 1677, ff. 45-50.
[xvii] Nel 1614 L. Caleiurio è proprietario di una casa terranea in parrocchia di S. Petro, “dentro la quale sta uno molino con sue petre atto a macinare”. ASCZ, Busta 113, anno 1614, f. 70.
[xviii] ASN, Provvisioni e Cautele, Vol. 146, f. 304 (1633).
[xix] ASCZ, Busta 117, anno 1622, ff. 58v-59.
[xx] ASCZ, Busta 118, anno 1629, ff. 110v-112.
[xxi] ASN, Provvisioni e Cautele, Vol. 133, ff. 17-19, (1636).
[xxii] L’arcidiacono D. Suriano e V. Suriano, possiedono due casette matte in parrocchia di S. Margarita, una “nel luogo detto li Molina”, l’altra nel luogo detto “volgarmente dietro li molina”. Entrambe sono vicine alla chiesa della congregazione laicale sotto il titolo dell’Immacolata Concezione. Le casette sono acquistate dalla congregazione perché devono essere smantellate per costruirvi il “nuovo cappellone di detta chiesa ed oratorio”. ASCZ, Busta 913, anno 1750, ff. 97-98; Busta 913, anno 1751, f. 157.
[xxiii] I Siciliano possiedono una casa palaziata in parrocchia di S. Margarita, “nella p.te delli Molina juxta li beni che furno del qm Paulo Spina hoggi del m.co Gioseppe Gerace confine uno molino ch’era del d.o Leone (Homobono Leone) similmente del d.o di Gerace, confine il monasterio di S.ta Chiara stritto mediante nel loco d.o S.to Giorgio”. ASCZ, Busta 334, anno 1675, ff. 26-30.
[xxiv] ASN, Provvisioni e Cautele, Vol. 133, ff. 17-19, (1636).
[xxv] ASCZ, Busta 119, anno 1638, ff. 21-22.
[xxvi] ASCZ, Busta 119, anno 1646, ff. 17-21.
[xxvii] ASCZ, Busta 108, anno 1652, f. 11.
[xxviii] Il sindaco dei nobili va “nelle muraglia dietro le molina d’essa città di Cotrone dove stavano giocando alle carte più persone in più partite”. Interrogato un giocatore sul “perché tiene il gioco con carte siciliane e chi ce lo facea tenere”, questi rispose che lo aveva affittato dal governatore della città. Essendo giunto un ordine che proibiva di giocare con carte siciliane, il giocatore affermò che giorni prima, era andato dal governatore per far presente questo fatto, ma questi gli aveva dato un mazzo di carte spagnole, il cui uso era anche proibito, dicendogli “che facesse come ha fatto che non sarà molestato da nessuno”. ASCZ, Busta 312, anno 1666, f. 82.
[xxix] L. de Nobile vedova di A. Suriano, possiede “due mule una d’inbasto et una del molino”. ASCZ, Busta 333, anno 1674, f. 51v.
[xxx] I coniugi De Silva hanno una camera superiore con suo basso, “in cui al presente vi sta piantato un molino gentimolo” sotto il palazzo dei Petrolillo. ASCZ, Busta 918, anno 1748, f. 88.
[xxxi] P. Suriano possiede un palazzo in parrocchia di S. Maria de Prothospatariis, dove in un basso vi è “un molino macinante con sua mula. ASCZ, Busta 497, anno 1708, f. 50v. A. Suriano come erede del padre Fabrizio, era proprietario di un palazzo “con più e diversi bassi a piano terra in uno dei quali vi era un “molino gentimolo” che, nello stato in cui si trovava, era valutato “in tutto” ducati 30. ASCZ, Busta 1344, anno 1773, ff. 107-112.
[xxxii] Il chierico D. Labrutis ha un palazzo in parrocchia dei SS. Pietro e Paolo, consistente in nove camere con i loro bassi. In uno di questi vi è “un molino con due pietre nuove e due vecchie e due mule vecchie”. Morendo egli lo lascia a T. Fota, con la condizione che finché vivrà la vedova L. Berlingieri, che abita alcune camere del palazzo, “il d.o molino non si possa amovere dalla presente casa”. ASCZ, Busta 497, anno 1701, ff. 77-79; Busta 496, anno 1702, ff. 56-59.
[xxxiii] Francesco Antonio Sculco possedeva alcune case locande vicino al suo palazzo in parrocchia di S. Pietro e Paolo “col gentimolo macinante eretto in un basso di una di esse”. ASCZ, Busta 1129, anno 1769, f. 12v.
[xxxiv] Il chierico S. Duarte vende a suor A. Garetta un “molino macinante cioè pietre e legname tantum”, posto sotto la casa del parroco C. Bonelli. ASCZ, Busta 612, anno 1716, f. 91.
[xxxv] ASCZ, Busta 334, anno 1675, ff. 26-30.
[xxxvi] ASCZ, Busta 1124, anno 1748, ff. 8v-9.
[xxxvii] AVC, Esito di spesa per robbe a benef.o del ven. mon. di S. Chiara dalli 9 8bre 1706, f. 7.
[xxxviii] AVC, Esito per il ven.le monastero di S. Chiara, 1767 e 69, f. 20.
[xxxix] Il reverendo Diego Zurlo possiede “un molino, seu gentimolo, cioè legname e pietra tantum senza commodo di casa e cavalcatura”, situato in un basso, che vende alle sorelle Capuano per ducati 50. ASCZ, Busta 1124, anno 1748, ff. 8v- 9.
[xl] I fratelli Zurlo possiedono la metà di un mulino d’acqua in territorio di Montespinello, comprato per duc. 200. ASCZ, Busta 1589, anno 1777, f. 61.
[xli] Spese sopportate dall’università di Crotone per i soldati di presidio nel 1734. ASCZ, Busta 665, anno 1738, f. 131.
[xlii] AVC, Esito per il ven.le monastero di S. Chiara, 1767 e 69, f. 20.
[xliii] ASCZ, Busta 1342, anno 1764, ff. 6-10.
[xliv] ASCZ, Busta 1324, anno 1764, ff. 106-107.
[xlv] AVC, Catasto Onciario Cotrone, 1793.
[xlvi] Il Vaccaro ricorda ancora l’esistenza di mulini presso il “Passo Vecchio”. Vaccaro A., Kroton. Cosenza 1965, Vol. II, p. 88.
[xlvii] Per i mulini sul Tacina vedi: Pesavento A., Camposano L., I mulini della Canosa, in Il Paese n. 9, 1985, e sgg.
[xlviii] Ughelli F., Italia sacra, IX, 478.
[xlix] Scalise G. B., Siberene Cronaca del Passato delle diocesi di Crotone, S. Severina, Cariati, p. 219.
[l] De Leo P., “Reliquiae” florensi, in Storia e messaggio in Gioacchino da Fiore, San Giovanni in Fiore 1980, p. 409.
[li] Ughelli F., Italia sacra, IX, 517-519.
[lii] Scalise G. B., Siberene Cronaca del Passato delle diocesi di Crotone, S. Severina, Cariati, p. 212.
[liii] Lucio III e l’arcidiocesi di Santa Severina, in Siberene (a c. di Scalise G. B.), Cronaca del Passato delle diocesi di Crotone, S. Severina, Cariati, p. 10.
[liv] La mensa arcivescovile di S. Severina concede a T. Oliverio di costruire un mulino in località “Lo piano dela Cerza”, e di potervi condurre l’acqua dal vallone di Monastria. Caridi G., Uno “stato” feudale nel mezzogiorno spagnolo, Gangemi 1988, p. 86.
[lv] Nel 1548 la mensa vescovile di Santa Severina riscuoteva censi da 17 mulini, nel 1564 da 14, e nel 1576 da 11. Caridi G., Uno “stato” feudale nel mezzogiorno spagnolo, Gangemi 1988, p. 57.
[lvi] Scalise G. B., Siberene Cronaca del Passato delle diocesi di Crotone, S. Severina, Cariati, p. 534.
[lvii] Palmieri C., Ombre lunghe sulle terre di Casabona, Soveria Mannelli 1987, p. 99.
[lviii] Nel 1472 re Ferrante vendeva a Diego Canaviglia la terra di Casabona. coi feudi di Cocumazzo e S. Nicola dell’Alto, “et cum molendinis arrendatis per Mateum de Aragona”. Maone P., Casabona feudale, Historica n. ¾, 1964, p. 144.
[lix] L’università di Cotronei si rivolge al re perché, dovendo riparare un’ogliara che possedeva da più secoli, ne era impedita dal feudatario, il quale non solo minacciava di demolirla, ma facendosi forte dello “jus prohibendi”, impediva ai cittadini di andare a macinare le olive anche nelle proprie ogliare, ed in quelle appartenenti alle cappelle del SS.mo Rosario e di S.to Antonio. ASN, Provvisioni e Cautele, Vol. 294, f. 156 (1698).
[lx] Scalise G. B., Siberene Cronaca del Passato delle diocesi di Crotone, S. Severina, Cariati, p. 292.
[lxi] Scalise G. B., Siberene Cronaca del Passato delle diocesi di Crotone, S. Severina, Cariati, p. 311.
[lxii] Nel 1578 Antonella Trombatore vendeva a metà, perchè danneggiati dalle piene del Neto, 3 dei 5 mulini acquistati 8 anni prima. Sono ricordati in territorio di Santa Severina, anche due mulini in località Yroleo, ed uno vicino al vallone di Monastria. Caridi G., Uno “stato” feudale nel mezzogiorno spagnolo, Gangemi 1988, pp. 85-86.
[lxiii] Nel 1582 il barone Barracco possessore del mulino di Ardavuri, pagava all’abate “tt.a dudici per le molina quando macinano et tt.a otto per le terre contigue et giardino”. ASCZ, Platea dei redditi di S. M. di Altilia, 1582, f. 5v, in Miscellanea monastero di S. Maria di Altilia, 529, 659, B 8, f. 3.
[lxiv] ASCZ, Platea dei redditi di S. M. di Altilia, 1582, f. 5v, in Miscellanea monastero di S. Maria di Altilia, 529, 659, B 8, f. 3.
[lxv] Napolitano R., S. Giovanni in Fiore monastica e civica, Napoli 1978, pp. 117-118.
[lxvi] ASV, Congr. Statu Regul. 1650, 16, B, ff.68-74, Relazioni dei Cistercensi an. 1650.
[lxvii] ASN, Somm. Relevi,Vol. 352, inc. 4. Sempre il feudatario di Belvedere Malapezza nel 1743 possedeva tre mulini dentro la difesa Barretta. Maone P., Notizie storiche su Belvedere Spinello, in ASCL n.1/2, 1962, p. 48.
[lxviii] Gius. Guerra inc. Nap. 1789.
[lxix] Petrusewicz M., Latifondo, Marsilio 1989, p. 118.
[lxx] ASN, Som. Relevi, Vol. 352, inc. 4.
[lxxi] Esistenti già nel 1639 in seguito fecero parte delle rendite feudali della grancia di Rocca di Neto dei certosini di San Stefano del Bosco. Placanica A., Il patrimonio ecclesiastico calabrese nell’età moderna, Frama’s 1972, p. 298.
[lxxii] Nel 1742 i 4 mulini, “tutti in una casa”, con le stanze superiori per uso dei mugnai e 20 tomolate di terra intorno, erano affittati per 450 tomoli di grano all’anno a G. Novello e A. Aloe. Catasto di Rocca di Neto 1742. Caridi G., Il latifondo calabrese nel Settecento, Roma 1990, p. 133.
[lxxiii] Petrusewicz M., Latifondo, Marsilio 1989, p. 233.
[lxxiv] Nel 1809 il comune di Rocca di Neto ne rivendicò il possesso, trovandosi i mulini in un terreno di proprietà comunale. Gallo Cristiani A., Piccola cronistoria di Rocca di Neto, Roma 1929, pp.71, 75.
[lxxv] I coniugi Pignatelli, feudatari di Strongoli, danno inizio nel 1743 alla costruzione di tre mulini d’acqua sul Neto presso il casino di Fasana. Per difficoltà sopraggiunte e finire l’opera, nel febbraio dell’anno dopo sono costretti a prendere a prestito dal mercante di Crotone Pietro Asturelli, 1500 ducati all’otto per cento. A causa dei danni causati dal fiume, ingrossatosi per le continue piogge, nell’agosto dello stesso anno sono costretti, per completare la costruzione dei mulini, a indebitarsi nuovamente con l’Asturelli in altri 1000 ducati. ASCZ, Busta 1063, anno 1744, ff. 38-51, 56-63.
[lxxvi] ASCZ, Busta 1324, anno 1764, ff. 105-106.
[lxxvii] Nel 1633 i mulini, situati alla “Coltura di Corazzo”, erano posseduti da Gio. Domenico de Franco, prima erano stati di Carlo Susanna, che pagava un censo annuo di ducati due e grana cinquanta all’abbazia di Corazzo. Borretti M., L’abbazia cistercense di S. Maria di Corazzo, in Calabria nobilissima, n. 44, 1962, p. 135.
[lxxviii] Alla metà del Seicento a S. Giovanni in Fiore “vi passa una fiumarella detta l’acquaro che si piglia dal fiume di Garga nel loco detto l’Inchiastro di Garga et un’altra parte si ne piglia dell’acqua che viene dal vallone d’Attimo quali serve per macinare tre molini et il panditterio che stanno dentro detta terra”. Napolitano R., S. Giovanni in Fiore monastica e civica, Napoli 1978, pp. 117-118.
[lxxix] Nel 1742 S. Capecelatro possedeva il mulino detto dello Spolviero sul Vitravo. Palmieri C., Ombre lunghe sulle terre di Casabona, Soveria Mannelli 1987, p. 99.
[lxxx] Nel 1576 lungo il fiume Lepre, vicino alla grancia di Bordò, vi era il mulino di Francesco Salvino. Maone P., Caccuri monastica e feudale, Portici 1969, p. 29.
[lxxxi] Nell’aprile 6680 (a. m.) Guglielmo, re di Sicilia, conferma al monastero della Santa Trinità de Magliola la grancia di S. Stefano, posta in territorio di Isola. I confini della grancia passavano per “Catoriaci o vero mal vallone et passa lo mal vallone per sotto lo molina delo episcopato de Asila”. AVC, Processo grosso di fogli cinq.cento settanta due della lite, che Mons. Ill.mo Caracciolo ha col S.r Duca di Nocera per il Vescovato, ff. 67-68.
[lxxxii] Nel 1128 la contessa di Crotone Mabilia conferma all’abate del monastero del Patire Luca la chiesa di S. Costantio ed il mulino in territorio di Isola già donati da Giovanni, vescovo di Isola. Ughelli F., Italia sacra, IX, 481-482.
[lxxxiii] AVC, Privilegio dello Sacro Episcopato della citta dell’Isula, in Processo grosso di fogli cinq.cento settanta due della lite, che Mons. Ill.mo Caracciolo ha col S.r Duca di Nocera per il Vescovato.
[lxxxiv] Nel descrivere i confini di Le Castella: “ferit ad locum dittum Lo Passo de Cotroni et ex ditto loco vadit p. dittum vallonum et ferit ad exitum cursus aquarum molendini Simonis Scazurri et inde p. eundem vallonum ascendit usque ad passum dittum de S.to Petro”. AVC, Reintegrazione del feudo e dei beni di Andrea Carafa fatta dal giudice F. Jasio, 1520.
[lxxxv] “Instrumento di concessione a Gio. Matteo e Ottavio Scazzurlo per Mons. Caracciolo in carlini 15 per lo censo del Pantano nel territorio detto Porcarito confine lo molino del Diacono Vincenza Scazzurlo nell’anno 1575.” AVC, s. c.
[lxxxvi] I due mulini sono nominati in un atto del 1538 riguardante la concessione in enfiteusi del casale da parte del vescovo Lambertini in favore del feudatario di Isola. AVC, Carte antiche del vescovato di Isola.
[lxxxvii] Il mulino di “Porcarito” del feudatario di Isola, nel 1581 era affittato per annui tomoli 30 di grano, nel 1587 a causa dell’annata “triste” è affittato per 25 e, tolte le spese, rende al feudatario solo 15 tomoli di grano. Lo stesso mulino nel 1636 è affittato per 40 tomoli di grano ma, a causa di guasti, macina solo pochi mesi e rende al feudatario solo 10 tomoli di grano. Valente G., Isola di Capo Rizzuto, La Costa dei Dioscuri, Frama Sud, 1982, pp. 215 sgg.
[lxxxviii] Questi mulini appartengono anche nel 1636 al barone di Isola. Valente G., Isola di Capo Rizzuto, La Costa dei Dioscuri, Frama Sud, 1982, pp. 215 sgg.
[lxxxix] Valente G., Isola di Capo Rizzuto, La Costa dei Dioscuri, Frama Sud, 1982, pp. 231-232.
[xc] ASV, Rel. Lim. Insulan., 1673.
[xci] ASCZ, Busta 1063, anno 1749, ff. 1-10.
[xcii] Un mulino in località S. Pietro è ancora attivo nei primi decenni dell’Ottocento. Passato per metà in proprietà della Amministrazione Diocesana di Crotone, era dato in fitto in asta pubblica. Nel 1821 era affittato per tre anni, a partire dal primo settembre, per ducati 55 all’anno. Colui che l’aveva in fitto si impegnava a ripararlo a sue spese ed a pagare l’estaglio ogni terza domenica di maggio, Cotrone 27.8.1821. AVC, 76, Contratto di fitto tra l’amministrazione Diocesana e G. Castelliti di metà mulino.
[xciii] AVC, Catasto Onciario di Isola, 1768/69, ff. 49v, 59v, 87, 90.
[xciv] Petrusewicz M., Latifondo, Marsilio 1989, p. 118.
[xcv] Un apprezzo della città di Santa Severina, in Siberene (a c. di Scalise G. B.), Cronaca del Passato delle diocesi di Crotone, S. Severina, Cariati, p. 122.
[xcvi] AVC, Anselmus dela Pena, Visita, 1720, ff. 81, 98.
[xcvii] Maone P., Casabona feudale, in Historica n. 5/6, 1964, pp. 195-196. Il Palmieri enumera questi vecchi mulini in territorio di Casabona. Sul fiume Vitravo: Vecchio, Nuovo, Carvanello e Fraga. Sul torrente Seccata, o Pionte: Santu Vrasu, Pionte, Santandria, du Strittu e l’Acquaducia. Palmieri C., Ombre lunghe sulle terre di Casabona, Soveria Mannelli 1987, p. 163
[xcviii] ASN, Somm. Relevi vol. 383, Fs. 29. Ancora nel 1831 risultavano affittati i due mulini del feudatario detti di Passeri e Celsi. ASN, Arch. Pignatelli Ferrara di Strongoli, fs.lo 75, inc. 83.
[xcix] In territorio di Carfizzi i feudatari Morano possedevano nella seconda metà del Cinquecento, come bene feudale, un mulino per il quale pagavano alla Regia Corte, come da relevio, duc. 16. Maone P., Notizie storiche su Cotronei, in Historica n. ½, 1972, p. 31.
[c] Pugliese G. F., Descrizione ed istorica narrazione dell’origine, e vicende politico-economiche di Cirò, Napoli 1849, p. 38.
[ci] Il feudatario Scipione Pisciotta possedeva a Casabona un palazzo con “centimole”. Maone P., Casabona feudale, in Historica n. 5/6, 1964, p. 196.
[cii] Tra le spese da farsi al castello di Crotone nel 1564, c’era quella di comperare “una mula per servitio molendini”. ASN, Tesorieri e Percettori Vol. 4087, 1564/1565, f. 67v.
[ciii] Ancora all’inizio del Settecento, in un cellaro del castello di Melissa vi era “un molino sfatto con due pietre”. ASN, Arch. Pignatelli Ferrara, Fasc. 46, inc. 69, Inventario delle robbe esistentino nel castello di Melissa.
[civ] Tra le cose urgenti da fare nel castello di Le Castella, il duca di Calabria ordina nel 1487 di “consare lo centimulo”. ASN, Dip. Som. Fs. 552, I Serie, f.lo I, 1487, ff. 39-40.
[cv] Il monastero di Altilia possedeva un mulino sul Neto in località Radicchia “ma per mancanza dell’acqua sufficiente si rese inutile, e diruto, e consisteva in una sola casetta terrana con pochi attrezzi, e ceramidi e senza porta”. ASCZ, Cassa Sacra, Lista di carico, Altilia, Monastero de PP. Cisterciensi, f. 33.
[cvi] AVC, 76, Contratto di fitto tra l’Amm. Diocesana e G. Castelliti di metà mulino.
[cvii] Nell’inverno del 1868/1869 i contadini non vollero pagare la tassa in tre mulini del Barracco, “sostenendo di non volere arricchire ulteriormente il barone”. Petrusewicz M., Latifondo, Marsilio 1989, p. 238.
Creato il 9 Marzo 2015. Ultima modifica: 6 Maggio 2024.