Consuetudini riguardanti la piantagione di vigne nel Crotonese e presso Cosenza (sec. XII-XIV)
L’enfiteusi
Le prime informazioni circa contratti di concessione enfiteutica riguardanti vigne nel Crotonese, si rinvengono agli inizi del secolo XII, come risulta da un atto del 1115-1116 (a.m. 6624), relativo alla messa a coltura di un appezzamento incolto posto in tenimento di Roccabernarda (καστελλίου Βερνάλδου), attraverso cui, Argyros figlio di Maniakes de Bonaleas, assieme a suo fratello, il presbitero Georges, concesse in enfiteusi (“ad pastinandum”)[i] al monastero della Θεοτόκον τού κϋρ Νίλου dipendente da Santa Maria della Matina, le terre (χοράφιον) di quattro moggi (μοδίων), poste nel “loco” o casale (χωρίον) di Ambrianiti (Αμβρανιτων) presso il fiume Soleo (ριάκι τό Θολόν), vicino alla vigna del loro zio Kaloumenos.
La concessione prevedeva che l’enfiteuta avrebbe dovuto mettere a coltura l’appezzamento di terreno incolto ricevuto, piantandoci viti e alberi, godendo dei loro frutti per tre anni, e assumendo l’impegno di costruirci un palmento. Successivamente, passato questo tempo, la vigna sarebbe stata divisa a metà tra l’enfiteuta e il concessore, che avrebbe tenuto per sé la porzione ritenuta migliore. In tale occasione, nel caso fosse stata ravvisata la negligenza dell’enfiteuta, il concessore sarebbe stato indennizzato da quest’ultimo con un piede di vite o con un albero ogni mille.[ii]
Risale al maggio 1233, VI indizione, una concessione simile (“ad pastinandum”) per sette anni, di un terreno esistente “in loco pastini pirosi”, fatta dall’arcivescovo di Cosenza a Milano, cittadino di Cosenza, secondo cui l’enfiteuta era tenuto a piantarvi una “vineam” con gli alberi da frutto. La concessione prevedeva che, durante i primi cinque anni, l’enfiteuta non avrebbe dovuto dare “musto” alla Chiesa cosentina mentre, nei restanti due anni del settennato, avrebbe dovuto darle la metà del mosto prodotto. Di tutti gli altri proventi e dei frutti ricavati da detta vigna, l’enfiteuta avrebbe dovuto dare all’arcivescovo di Cosenza la terza parte.
Trascorsi i sette anni, la vigna “bene clausam, impalatam, et ad coronam perductam”, sarebbe stata divisa a metà tra la Chiesa e l’enfiteuta, che avrebbe acquisito così il diritto di lasciare la propria parte ai suoi eredi. Quest’ultimo era tenuto a realizzare in essa anche due “palmenta” ciascuno con due “tinis”, uno per sé e l’altro per la Chiesa. Rimaneva a carico dell’enfiteuta la stipula del relativo strumento che sarebbe stato stipulato al tempo della divisione.
Durante il corso della prima metà del Trecento, alcuni atti riguardanti l’abbazia di Sant’Angelo de Frigillo presso Mesoraca, evidenziano modalità di realizzazione del vigneto analoghi ai casi esposti. La consuetudine di Mesoraca prevedeva che l’enfiteuta s’impegnasse a piantare le viti e gli alberi nella vigna a proprie spese, beneficiandone liberamente per i primi cinque anni. Trascorso questo tempo si sarebbe proceduto a dividere la vigna a metà. Il signore aveva il diritto di scegliere quella ritenuta migliore mentre, la restante metà, in forza del diritto acquisito (“iure plantae”), rimaneva all’enfiteuta nonché ai suoi eredi e successori.
L’uso “ad medietatem” di Mesoraca è descritto in un atto dell’abbazia del 9 aprile 1334, dove si specifica che l’enfiteuta avrebbe piantato “vineam et arbores ad mediatatem secundum usum et consuetudinem dicte terre Mesurace, videlicet quod dictus Iohannes teneatur dictam terram plantare, colere et beneficiare in vinea et arboribus usque ad quinque annos completos a mense marcii predicte prime indicionis in antea continue numerandos liberam et assolutam; completis vero annis quinque predictis, dictus Iohannes teneatur partem terram plantatam et beneficiatam per medium dividere et facere exinde duas partes, quarum partium abbas, qui tunc temporis erit, teneatur eligere et accipere partem meliorem de divisione predicta pro predicto monasterio, reli[cta] vero pars remaneat dicto plantatori”.[iii]
Particolarmente numerosi sono gli atti che testimoniano tale uso in occasione della realizzazione di nuove vigne piantate ai margini di aeree incolte del territorio di Mesoraca, in terreni liberi e boscosi dell’abbazia che erano stati lottizzati per ricavarne appezzamenti coltivabili.
Il 15 marzo 1350, “Petrus prior et procurator” di Sant’Angelo de Frigillo, prendeva possesso della “partem meliorem” di una vigna realizzata nelle “terras liberas de monasterio”, concesse cinque anni prima al magister Rogerio de Cali, mentre l’altra metà restava “iure plante in perpetuum et inrevocabiliter usque in fine”, a sua moglie dopna Sabella.[iv] Il 10 novembre 1353, presso Mesoraca, si stipulava l’atto attraverso cui l’abbate Nicolao de Badulato, concedeva a Nicolao Albisano e Benedicto Noriello di Mesoraca per cinque anni, “ad plantandas in ea vineam et arbores ad medietatem”, secondo l’uso e consuetudine di Mesoraca, una pezza di terra “liberam” del monastero posta nel tenimento di Mesoraca, “in loco ubi d(icitu)r la cultura monachorum”, confinante con altre vigne.[v]
Risale al 10 febbraio del 1361, un “Instr(ument)o facto ad mast.o ang(e)lo de uno tenim.to sito dove se dice Santa margarita”, mediante il quale lo stesso abbate concedeva al detto magister Angelo de Alamanno di Mesoraca, per cinque anni, una pezza di terra boscosa del monastero, confinante con la vigna dello stesso magister Angelo e altre, affinché la piantasse con vigna e alberi “ad medietatem”, secondo le consuetudini di Mesoraca.[vi]
Il censo
Le clausole migliorative proprie dell’enfiteusi, si rinvengono anche nei contratti che i signori stipulavano con i contadini del luogo, concedendo loro a censo le proprie vigne ottenute attraverso il dissodamento realizzato da questi ultimi: operazione che rappresentava una delle forme tipiche di asservimento adottata dai signori per ottenere la sottomissione della popolazione.[vii]
Nel marzo 1235, VIII indizione, Opizo arcivescovo di Cosenza, concedeva “in vita nostra ad laborandum” a Raone figlio di Petro, Iohannes de Salvino, Rogerio de magistro Petro e Petro de Benesia, servi della chiesa del casale di Pireto (l’attuale Perito frazione del comune di Pedace), località dove la Chiesa cosentina aveva provveduto ad avviare il dissodamento e la messa a coltura,[viii] tutte le vigne appartenenti alla Mensa arcivescovile poste nell’ambito del detto casale, “cum ficubus que sunt in ipsis et salicibus”, che i censuari s’impegnavano a ben lavorare e coltivare, così come “bonus patronus colit vineam suam”, ossia: a migliorarle (“augmentando”), potandole (“putando”), dotando le viti di tutori (“impalando”) e legandole (“ligando”), zappandole (“fodiendo”) e moltiplicandole per talea (“propaginando”).
Tutto ciò come meglio sarà possibile, senza frodi e negligenze, corrispondendo un censo annuale alla Mensa arcivescovile di 80 salme di “musto” alla misura di Cosenza (“ad iustam salmam Cusencie”), con l’obbligo di pagare una penale di 200 tareni nel caso di mancanze, somma garantita dalla fideiussione di Petro de Maiurana e di Roberto, figlio di Johannes de Pireto.
In ragione di tale concessione, la Chiesa di Cosenza rimetteva ai detti censuari, nonché a tutti gli abitanti del casale di Pireto, il “servitium” da essi dovuto per la coltivazione delle dette vigne, e le loro “operas”, consistenti in 9 prestazioni lavorative (“novem operas parasporii”) che, in relazione alla loro condizione servile, erano tenuti a prestare annualmente nelle dette vigne. A tale titolo, comunque, da qui in avanti, gli abitati del casale di Perito avrebbero dovuto corrispondere annualmente alla Mensa arcivescovile una oncia d’oro.[ix] Prestazioni dovute a quest’ultima relative “ad ligandum, fodrendum et vindemiandum” nelle vigne arcivescovili, sono menzionate anche in altri territori pertinenti alla Chiesa cosentina.[x]
Risale invece all’ottobre 1237, XI indizione, la concessione “in vita nostra ad laborandum” dello stesso Opizo al presbitero Johannes de Millepagano e al magister Michael de Amantea, di tutte le vigne della Mensa arcivescovile esistenti in Sancta Barbara, località posta “ante Cusentiam”.[xi] Anche in questo caso, ottenute le vigne, i due censuari s’impegnavano a coltivarle come ogni buon padrone avrebbe fatto con la sua, con le stesse clausole migliorative menzionate nel documento precedente, obbligandosi a corrispondere alla Mensa arcivescovile la metà del mosto e di tutti gli altri frutti prodotti dagli alberi esistenti in dette vigne. Era fatto espresso divieto di non seminare le vigne concesse, anche se si specificava che, nel caso fossero stati seminati i margini degli appezzamenti, si sarebbe dovuto corrispondere alla Mensa arcivescovile la quarta parte del raccolto ottenuto.[xii]
La rendita
In questo periodo, la concessione ai contadini del luogo delle proprie vigne da parte dei signori, risulta documentata anche nel Crotonese, dove tracce del dissodamento e della messa a coltura del territorio durante il periodo normanno-svevo,[xiii] attraverso l’espansione del vigneto, si evidenziano ancora alla fine del Seicento e nella prima metà del Settecento, come nel caso del vescovo di Crotone che, ad esempio, ancora a quel tempo riscuoteva complessivamente “p(er) raggione di affitto”, quaranta “barili di musto” relativi agli “Annui Canones Musti” sopra le vigne di “Buciafaro” in territorio di Isola, appartenenti alla sua Mensa.[xiv]
Nel caso dell’abbazia di Sant’Angelo de Frigillo, un discreto numero di atti stipulati nel corso del Trecento, ci consente di evidenziare e di conoscere più nel dettaglio la sua azione colonizzatrice nell’ambito del territorio di Mesoraca. Le vigne che l’abbazia riceveva attraverso il dissodamento e la messa a coltura di alcune porzioni dei suoi possedimenti boschivi, erano concesse “ad reditum” ai contadini del luogo, generalmente per cinque anni, altre volte per dieci o ventinove anni, oppure “in perpetuum”, attraverso un atto sempre rinnovabile ogni quinquennio “iuxta sanciones papales”, dietro pagamento annuale di un censo in occasione della festa della Vergine Maria nel mese di agosto.
Nel maggio del 1333, con il consenso e la volontà del suo convento, Philippo abate del monastero di Sant’Angelo de Frigillo, locava e concedeva, assegnando a Nicolao Cavallo di Mesoraca per cinque anni, “ad annuum reditum sive censsum” di quindici grana, una pezza di vigna del monastero posta nel tenimento di Mesoraca, in loco detto “Tamibruchium”.[xv]
Il 7 giugno 1361, presso Mesoraca, l’abbate Nicolaus de Badulato concedeva a Luca de Aiello un pezzo di vigna del monastero posto nel “tenimento” della terra di Mesoraca “in loco ubi dicitur Bernardus”. La locazione “ad Annuum Redditum sive censum”, rimaneva stabilita “de qu(i)nqu(en)nio ad qui(n)qu(en)nium” per dieci anni, dietro pagamento dell’annuo censo di un tari in occasione della festa della Gloriosa Vergine Maria.[xvi]
Il 10 marzo 1362 presso Mesoraca, era stipulato l’atto attraverso cui l’abbate Nicolao de Badulato, concedeva a “nicolo camso de mesuraca unius petii t(er)r(a)e in ter.o mesur.c(a)e ubi dicitur scala ad Censum grani unius auri”. Il pezzo di terra boscosa del monastero era concesso al locatario “ad Reditum sive censum”, di cinque in cinque anni in perpetuo.[xvii]
Dal numero di atti che evidenziano questa circostanza, constatiamo che spesso l’abbazia trovava vantaggioso concedere a censo allo stesso enfiteuta, la propria parte di vigna scelta al tempo della divisione. Tendenza che, evidentemente, aveva lo scopo di motivare l’enfiteuta/locatario e di garantire maggiormente l’abbazia.
Il 6 agosto 1320 in Roccabernarda, l’abbate Iacobo locava e concedeva “ad redditum sive censum annuale”, ad Alamanno Iemmo di Roccabernarda per cinque anni, una vigna del monastero posta in tenimento di Roccabernarda, “in flomaria Tachina, iuxta eundem flumen Tachina, vineam ipsius Alamanni Iemmi, quam venit sibi in porcione iure plante quam plantavit eiusdem monasterii”, dietro pagamento di un censo di quattro tareni.[xviii]
Il 12 marzo 1352, presso Mesoraca, l’abbate Guillelmo de Sancto Marco locava e concedeva, assegnando per cinque anni, al magister Thomasio Pullicius di Mesoraca, una pezza di vigna del monastero posta in tenimento di Mesoraca, in loco detto “cultura monachorum, iuxta vineam magistri Thomasius Pullicius, qua pervenit iure plante”, dietro pagamento di un censo annuale di cinque grana d’oro.[xix]
Il 25 gennaio 1356, presso Mesoraca, l’abbate Iohannes Falconus concedeva “ad quinquennium ad quinquennium hinc ad annos viginti nove”, al magister Thomasio Policio di Mesoraca, una pezza di vigna del monastero in loco detto “Coltura monachorum, iuxta vineam Nicolai Cortise, quam tenet a predicto monasterio, vinea predicti magistri Thomasii locatarii, quam devenit iure plante, terram predicti monasterii et alios fines”, dietro pagamento di un censo annuale di dieci grana d’oro da pagarsi nel giorno della festa della Vergine Maria nel mese di agosto.[xx]
Il 12 ottobre 1360, “frat(er) nic(o)l(a)us de Badulato humilis Abbas mo(naste)r(i)i s(anc)ti Angeli de frigillo”, con il consenso dei suoi monaci, concedeva “ad A(nnuu)m Redditum sive censum” per cinque anni a “magistro I(oh)a(n)nino de […]”, “peciis v[ine]is duobus B(e)n(e)ficiatis et plantatis p(er) eu(n)dem magistrum Ioh(ann)inum s(e)cu(n)du usum et consuetudinem d(ict)ae te(r)rae misuracae sitis et positis i(n) tenime(n)to misuracae i(n) loco ubi dicit(ur) mons pilosus seu scala”. Per i due appezzamenti, confinanti con altri della stessa abbazia detenuti da alcuni particolari, con le timpe del fiume Avergari, con le “vineis d(ic)ti magist.i Iohannii, quas habuit iure plantam et Alios fines”, il detto magister s’impegnava al pagamento di un censo annuo di “gr(an)orum Auri decem pecuniae usualis de Arg(en)to”, “in festo Gl(or)iosae Virginis mariae de me(n)se Agusti”.[xxi]
L’otto agosto 1390, si effettuava la divisione a metà della vigna posta nel loco detto “li manche” in tenimento di Mesoraca, che il giudice Rogerio Pullisano de Mesoraca aveva realizzato con il suo lavoro ed a sue spese, nella terra boscosa e incolta ricevuta dal monastero “ad ius medietatis” secondo l’uso e consuetudine di Mesoraca.[xxii] L’otto gennaio 1398, presso Mesoraca, “d(omi)nus Alibertus divina p(ro)videncia Ep(iscop)us Strongulensis” amministratore dei beni del monastero di Sant’Angelo de Frigillo, nonché curatore della grangia di San Stefano, dietro la richiesta di dopna Iacoba, vedova del quondam Rogerio Pullisani di Mesoraca, provvedeva alla stipula dell’atto mediante il quale, attraverso il pagamento dell’annuo censo di cinque grana, le concedeva in perpetuo la quarta parte della vigna del monastero posta nel tenimento di Mesoraca loco detto “li manchi dela formicusa”, detenuta in passato dal suo quondam marito ed in merito alla quale, “ad sui cautelam nullam h(abe)re”.[xxiii]
Note
[i] Sul verso della pergamena, tra l’altro, compare la seguente dicitura riferibile al secolo XIII: “Argirus fili(us) Maniachi Vonolee dedit q(uam)da(m) t(er)ra(m) ad pastina(n)du(m) Tipaldo monacho S(an)c(t)e Marie de Matina in tenim(en)tis Roce B(er)nardi i(n) loco q(ui) d(icitu)r Ambrianitis q(uae) vocat(ur) i(n) vallone t(ur)bido p(ro)pe vinea(m) Calumeni”.
[ii] Guillou A., Les Actes Grecs des Fonds Aldobrandini et Miraglia XI-XIII s., Biblioteca Apostolica Vaticana, 2009, pp. 154-157.
[iii] Caridi G., Ricerche sul Monastero di S. Angelo de Frigillo e il suo Territorio, in “Archivio Storico per la Sicilia Orientale”, LXXVII (1981), pp. 345-383. Caridi G., Agricoltura e Pastorizia in Calabria, 1989, pp. 67-68.
[iv] Caridi G., Ricerche sul Monastero di S. Angelo de Frigillo e il suo Territorio, in “Archivio Storico per la Sicilia Orientale”, LXXVII (1981), pp. 345-383. Caridi G., Agricoltura e Pastorizia in Calabria, 1989, pp. 71-72.)
[v] BAV, Cod. Vat. Lat. 13490, n. 37. Caridi G., Ricerche sul Monastero di S. Angelo de Frigillo e il suo Territorio, in “Archivio Storico per la Sicilia Orientale”, LXXVII (1981), pp. 345-383. Caridi G., Agricoltura e Pastorizia in Calabria, 1989, pp. 74-76.
[vi] BAV, Cod. Vat. Lat. 13490, n. 41. Brasacchio G., Storia Economica della Calabria II, pp. 344-346. Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, pp. 456-457 n. 267.)
[vii] “I contadini vennero sottomessi alle signorie in tre modi diversi: 1. attraverso atti volontari di sottomissione che li legavano a protettori influenti; 2. con la sottomissione violenta e l’asservimento di coloro che fino ad allora erano rimasti liberi; 3. con l’ampliamento della signoria attraverso opere di dissodamento.” Rösener W., I Contadini nel Medioevo, Ed. Laterza 1989, p. 23.
[viii] Baiulatione “de pireto”: “Hec omnia conservaverunt predecessores nostri in demanio Ecclesie et postea data sunt ad pastinandum, ita ut medietas musti et fructuum omnium arborum ibidem plantatarum detur Ecclesie omni tempore.” Cuozzo, E., La Platea di Luca arcivescovo di Cosenza (1203-1227), 2007, f. 31v.
[ix] Cuozzo, E., La Platea di Luca arcivescovo di Cosenza (1203-1227), 2007, f. 20r
[x] “notarius Nicolaus dat operas manuum tres videlicet ad ligandum, fodrendum et vindemiandum et gallinas in Natali”. Cuozzo, E., La Platea di Luca arcivescovo di Cosenza (1203-1227), 2007, f. 9r.
[xi] “pastinum cum terra vacua iuxta viam publicam que vadit ad Sanctam Barbaram ante Cusentiam”. Cuozzo, E., La Platea di Luca arcivescovo di Cosenza (1203-1227), 2007, f. 9r
[xii] Cuozzo, E., La Platea di Luca arcivescovo di Cosenza (1203-1227), 2007, f. 20r
[xiii] Pesavento A., Uomini e boschi di Crotone e di Isola: il caso Buggiafaro, in La Provincia KR nr. 6-7/1998.
[xiv] Archivio Vescovile di Crotone, Atti della visita del vescovo Marco Rama, 1699 ff. 69v-70; Atti dela visita del vescovo Anselmo de la Pena, 1720, f. 57v).
[xv] Caridi G., Ricerche sul Monastero di S. Angelo de Frigillo e il suo Territorio, in “Archivio Storico per la Sicilia Orientale”, LXXVII (1981), pp. 345-383. Caridi G., Agricoltura e Pastorizia in Calabria, 1989, pp. 65-66.
[xvi] BAV, Cod. Vat. Lat. 13490, n. 42. Brasacchio G., Storia Economica della Calabria II, pp. 346-347. Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, p. 457 n. 268.
[xvii] BAV, Cod. Vat. Lat. 13490, n. 43. Brasacchio G., Storia Economica della Calabria II, pp. 347-348. Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, p. 457 n. 269.
[xviii] Caridi G., Ricerche sul Monastero di S. Angelo de Frigillo e il suo Territorio, in “Archivio Storico per la Sicilia Orientale”, LXXVII (1981), pp. 345-383. Caridi G., Agricoltura e Pastorizia in Calabria, 1989, pp. 63-65.
[xix] Caridi G., Ricerche sul Monastero di S. Angelo de Frigillo e il suo Territorio, in “Archivio Storico per la Sicilia Orientale”, LXXVII (1981), pp. 345-383. Caridi G., Agricoltura e Pastorizia in Calabria, 1989, pp. 73-74.
[xx] Caridi G., Ricerche sul Monastero di S. Angelo de Frigillo e il suo Territorio, in “Archivio Storico per la Sicilia Orientale”, LXXVII (1981), pp. 345-383. Caridi G., Agricoltura e Pastorizia in Calabria, 1989, pp. 76-78.)
[xxi] BAV, Cod. Vat. Lat. 13490, n. 40. Brasacchio G., Storia Economica della Calabria II, pp. 343-344. Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, p. 456 n. 266.
[xxii] BAV, Cod. Vat. Lat. 13490, n. 46. Caridi G., Ricerche sul Monastero di S. Angelo de Frigillo e il suo Territorio, in “Archivio Storico per la Sicilia Orientale”, LXXVII (1981), pp. 345-383. Caridi G., Agricoltura e Pastorizia in Calabria, 1989, pp. 32-35. Brasacchio G., Storia Economica della Calabria II, pp. 351-352.
[xxiii] BAV, Cod. Vat. Lat. 13490, n. 47. Brasacchio G., Storia Economica della Calabria II, pp. 353-354. Pratesi A., Carte Latine di Abbazie Calabresi provenienti dall’Archivio Aldobrandini, 1958, p. 460.
Creato il 8 Aprile 2022. Ultima modifica: 8 Aprile 2022.