Le chiese ed il clero di Policastro alla metà del Seicento
Nell’ambito della visita[i] degli “Oppidis, et Locis Suae Dioecesis”, l’arcivescovo di Santa Severina Francesco Falabella arrivò a Policastro la domenica del 3 ottobre 1660. Annunciato otto giorni prima per iscritto, proveniente da Mesoraca, egli giunse “extra oppidi Portam” accompagnato dal suo seguito, dove, al suono delle campane, fu accolto dal popolo e dal clero con la croce. Smontato da cavallo e dismesso l’abito del viaggio, l’arcivescovo indossò la cappa pontificale sopra il “Rochetum”, genuflettendosi davanti alla croce portata dall’arciprete del luogo. Quindi, “sub Baldachino”, preceduto da tutto il clero che intonava l’inno “Veni Creator Spiritus”, egli si avviò in processione alla chiesa matrice. Giunto “in Ecc.am S. Nicolai Policastri”, asperse l’acqua lustrale genuflettendosi davanti all’altare maggiore e pregò, mentre tutto il clero cantava.
A questo punto, dopo aver baciato l’altare, l’arcivescovo benedisse il popolo solennemente. Quindi, dopo essersi seduto indossando la “Mitra pretiosa”, ricevette l’obbedienza da parte di ogni singolo componente del clero policastrese, secondo l’ordine certificato dal notaro.
“Sacerdotes”: Rev.s Archipresb.r Joannes Vincentius Natale Parochus Matricis Ecc.ae, Rev. Scipio Callea Parochus S. Petri, Rev.s Salvator Gardo Parochus S. Nicolai de Graecis, Rev.s Dom.cus Cepale Parochus S. Mariae de Magna Vic.s For.s, R.s Sanctus de Pace, R.s Joannes And.s Alemannus, R.s Joannes Baptista Pollacius, R.s Pelius Syllanus, R.s Salvator de Maida, R.s Ferdinandus Riccius, R.s Ferdinandus Campitelli, R.s Julius Riccio, R.s Horatius Caccuris, R.s Caesar Desideri.
“Clerici”: Cl.o Michael Giraldi, Cl.o Antonius Mannarino, Cl.o Antoninus Curto, Cl.o Joseph Le Rose, Cl.o Antoninus Carvello, Cl.o Antonius Aquila, Cl.o Dom.cus Aquila, C. Dom.cus de Cola, C. Joannes Romeus, C. Andreas Barbiero, C. Stefanus Barbiero, C. Fran.cus Pipino, C. Antoninus Sinopoli, C. Joannes Dom.cus de Pace filius Antonii, C. Fran.cus Mannarino, C. Thomas Tronga, C. Joannes Gulli, C. Marcus Ant.us Prospero, C. Fabritius Piccolo, C. Joannes Andreas Guidacciaro, C. Michael Angelus Modio, C. Fran.cus Cerasairus, C. Antonius Caivanus, C. Lupus Martinus, C. Salvator Curto, C. Dom.cus de Pace filius Leonardi, C. Antoninus de Pace, C. Mattheus Jannicius, C. Mattheus Curto, C. Hieronimus Mannarino, C. Hieronimus Jirardi, C. Michael Angelus Carusello, C. Leonardus Riccio, C. Fran.cus Cavarretta, C. Scipio Tronga, C. Dydacus Tronga, C. Marcellus Leucis, C. Martinus Curto, C. Bartholus de Bona, C. Dom.cus d’Elia, C. Anibal Callea, C. Joseph Spinelli, C. Joannes Dom.cus Riccio de (…), C. Joseph Riccio, C. Leonardus Giraldi, C. Fortunatus de Riccio, Cl.o Franciscus Riccio.
“Coniugati”: Cl.o Coniug.to Salvator Venturi, Cl.o Coniug.to Horatius Venturi, Cl.o Coniug.to Joannes Dom.cus Squillace, Cl.o Coniug.to Joannes Dom.cus Riccio, Cl.o Coniug.to Joannes de Martino, Cl.o Coniug.to Fran.cus Ant.s Giordano, Cl.o Coniug.to Bartholus Berardi, Cl.o Coniug.to Carolus Scandale, C. Coniug.to Joannes Simon Polla, C. Coniug.to Fran.cus Gulli, C. Coniug.to Antoninus de Mauro, C. Coniug.to Hiacinthus Monteleone, Cl.o Coniug.to Carolus Martino, Cl.o Coniug.to Michel Angeleus Campitelli, Cl.o Coniug.to Joannes Baptista Zurlo, Cl.o Coniug.to Nicolaus Joannes la Medaglia, Cl.o Coniug.to Joannes Baptista Cerasarius, Cl.o Coniug.to Joannes Dom.cus Campana, C. Coniug.to Carolus Richetta, C. Coniug.to Clemens Fanele, C. Coniug.to Andreas de Cola, C. Coniug.to Hieronimus Cavarretta, C. Coniug.to Fran.cus Riccio, C. Coniug.to Julianus Zagaria, C. Coniug.to Fran.cus Caccuri.
Ricevuta l’obbedienza del clero, l’arcivescovo tenne un sermone al popolo circa la “materia” dell’ufficio che si apprestava a svolgere, quindi, impartita ai fedeli l’assoluzione generale “cum indulgentia”, indossato un “Amictu” sopra il rocchetto, con “stola, et Pluviale” di colore nero e con una “Mitra Simplice” sul capo, iniziò la visita del luogo.
San Nicola
Nella chiesa di San Nicola l’arcivescovo procedette alla visita del “SS.mum Eucharestiae Sacram.tum”, che si trovava “in Alt. Maiori sub Custodia lignea deaurata in duabus Pixidibus argenteis”, destinatate a conservare le “particulae consecratae”, una grande dorata dentro e fuori con la quale si portava il viatico agli infermi e un’altra piccola non dorata, che l’arcivescovo ordinò di dorare antro il termine di due mesi. Davanti all’altare ardeva costantemente una lampada, mentre all’olio e alle candele necessarie ai divini offici provvedeva il procuratore della confraternita. L’arcivescovo ordinò a quest’ultimo di esibire entro tre giorni, i singoli conti annuali degli ultimi dieci anni, ed ai confrati di esibire i titoli di erezione del sodalizio. I redditi certi della chiesa ascendevano ad annui ducati cinquanta, mentre circa altri dieci provenivano dalle elemosine.
A questo punto la visita fu interrotta per il pranzo, riprendendo “post prandium” presso la “Fontem baptismalem”. Questa si trovava al lato sinistro della chiesa ed era posta “in Tabernaculo ligneo” decentemente ornato, anche se l’arcivescovo non vi rinvenne né l’“oleum Cathecuminorum” né il “Sanctum Chrisma”, essendo entrambi conservati nella sacristia in una “Capsula lignea” assieme all’“oleo infirmorum”. L’arcivescovo ordinò che, in maniera più comoda per i sacerdoti, i primi due fossero conservati nel tabernacolo della fonte battesimale, mentre l’olio degli infermi poteva essere tenuto in sacrestia. Egli ingiunse anche che, entro il termine di un mese, fosse riattato l’“Operculum” della stessa fonte, provvedendola di una “Cappa” di “tela ut d(icitu)r Sangalli” di colore rosso.
Passò quindi a visitare l’altare maggiore che si trovava posto “in Altiori, et nobiliori parte d.ae Ecc.ae”, nella parte orientale dell’edificio alla quale si accedeva salendo tre “grados”, trovandolo ornato con tre tovaglie, “Lapide Sacrato”, “Carta Secretorum”, due “statuis Angelorum cum Candelabris in manibus”, oltre a due candelabri dorati e a due di legno. L’arcivescovò ordinò di provvedere l’altare di altri due candelabri entro il termine di quattro mesi e di riattare entro un mese, la cornice dorata della “Custodiae” nelle parti in cui aveva fatto movimento, ordinando, inoltre, di ornarla con un “pallio” di seta “auro contexto”. Sopra l’altare vi era un “Baldachinum” di seta con la “Statua Sanctorum Petri et Pauli cum Columnis ex Calce et cimentis dealbatis”.
La confraternita aveva l’onere di celebrarvi tre ebdommade in favore di coloro che pagavano l’elemosina di 15 ducati annui alla stessa “societate”. Nei singoli giorni festivi in cui i “Parochiani” erano tenuti ad ascoltare la messa, l’arciprete celebrava una “Missam Conventualem” cantata alla quale intervenivano sacerdoti, clerici e chierici. L’altare, inoltre, aveva l’“onus celebrandi” di quattro messe la settimana per l’anima di Gregorio Bruno, in relazione al legato lasciato dallo stesso, altre due messe per l’anima di Adriana Melioca per un legato pio, altre due per l’anima di Laura Blasco, un’altra messa per l’anima della “sororis” Dianora Campana, altre due che riferivano essere per le anime di altri della famiglia Blasco, una messa per l’anima di Mutio Campana, le messe che dovevano essere celebrate con il reddito annuo derivante dalla vigna lasciata da Hieronimo Coco, tre altre ebdommade per l’anima del reverendo J. Thoma Caccuri, altre 20 messe all’anno per l’anima di Joannes Andrea de Strongoli, ed altre settantacinque messe all’anno per le “Animabus Campanorum”.
Dato che l’arcivescovo non trovò le predette messe annotate in “Tabella perpetua” né da altre parti, minacciando l’eventuale sospensione dell’arciprete e degli altri ecclesiastici, ordinò che entro otto giorni, tutti tali oneri, assieme agli altri che fossero stati rinvenuti, fossero riportati “in Tabella” nella forma e nei modi che risultavano dai relativi testamenti, e che questa tabella fosse appesa in un posto eminente della sacrestia. Egli ordinò, inoltre, “sub poenis arbitrio”, che fosse predisposto un “libro” in cui, dopo ogni celebrazione, fosse annotata ogni messa di propria mano da parte di ogni singolo sacerdote.
All’arciprete D. Vincentius Natale, fu ingiunto di esibire entro tre giorni, le “bullas suae collat.nis”, assieme all’“inventarium” di tutti i beni stabili e dei redditi della chiesa, cosa che lo stesso fece “in Visita(tion)e personali”.
Si passò quindi alla visita dell’ “Altare S. Sebastiani” posto “à latere dextro d.ae Ecc.ae”, di iurepatronato della famiglia Callea, ai quali fu ingiunto di presentare entro tre giorni, i titoli di fondazione. L’altare fu trovato ornato con un pallio di seta di diversi colori, tre tovaglie “lapide Sacrato”, quattro candelabri, croce e “Carta secretorum”. Nella parete si trovava una “Icona depicta cum Imagine S. Sebastiani inter duas Columnas ex gipso dealbatas”. Sotto l’altare vi erano uno “Scabellum Altaris” e la “Sepoltura” della famiglia Callea. Dato che ciò era proibito dalla Santa Congregazione dei Sacri Riti, l’arcivescovo interdisse il sepolcro, dando mandato che in futuro non si procedesse più ad altre deposizioni. L’altare aveva l’onere di celebrare tre ebdommade che il clero celebrava, grazie alle elemosine pagate da Joanne Baptista Callea, come asseriva lo stesso che era presente.
Il quattro di ottobre, ad “hora competenti”, la visita dell’arcivescovo Falabella proseguì presso la sacrestia della chiesa posta alla sinistra dell’altare maggiore, nella quale si conservavano i “Vasa Sacra” e le suppellettili. Qui furono rinvenuti: quattro calici “cum pedibus aeneis et Verticibus argenteis deauratis” dei quali, uno fu trovato “contusus” nella parte interiore e fu interdetto dall’arcivescovo, che ordinò di riattarlo e ridorarlo entro il termine di un mese. La stessa cosa l’arcivescovo ordinò in merito ad una patena della “Cappelae S. Sebastiani”, che si trovava “in tribus partibus retorta”, come fu ordinato al procuratore della stessa Joanne Baptista Callea. Furono trovati anche tutti gli ornamenti necessari ed alcuni ornamenti “cum velis” di diversi colori.
Fu anche rinvenuto una “Pyxis argentea seu Tabernaculum” con “pede aeneo et Vertice cum radiis argenteis”, che si usava per portare processionalmente il SS.mo Sacramento dell’Eucarestia “in Festo Corporis Christi”. Dato che la pisside fu trovata rotta, considerato il pericolo che l’Eucarestia sarebbe potuta cadere quando si portava nelle processioni, essendo stata consolidata con il piombo, l’arcivescovo vietò di usarla ed ordinò di rifarla entro due mesi. Allo stesso modo, l’arcivescovo ordinò che venisse rinnovato un “Turribulum” d’argento senza piede.
In “Capsis ligneis” riposte in sacrestia, furono trovati: cinque “Casulae seu Planetae” di diversi colori, due rosse, una violacea, una verde ed un’altra bianca, assieme ad altre tre, una rossa, una violacea e l’altra bianca. L’arcivescovo ordinò di rammendarle nella parte anteriore ed altrimenti di non usarle. Si trovò ancora una “Planeta vulgo dicitur imbroccato” di colore bianco, con “Dalmaticis” e cappa dello stesso tessuto e colore, ed un pallio d’altare con ornamenti d’oro che si usava nei giorni solenni. Furono trovate anche altre due pianete simili, una bianca e l’altra rossa, con cappa e dalmatici ed un’altra pianeta di seta “auro contexta”, con le insegne dell’arcivescovo di Santa Severina Fausto Caffarelli che l’aveva donata alla chiesa.
Sempre nella sacrestia furono ritrovati ancora: cinque “Albae seu Cammisi”, tre dei quali, risultando laceri in alcune parti, l’arcivescovo ordinò di risarcire entro otto giorni, e due “Umbrellae” per accompagnare il SS.mo Sacramento, una bianca per le occasioni di maggiore solennità e l’altra rossa, ambedue usate per portare il viatico agli infermi. Furono trovati conservati anche i “libri baptizatorum Confirmatorum Matrimoniorum Defunctorum Status Animarum”.
Considerato che il pavimento della chiesa si presentava in alcune parti “effossum”, a causa della sepoltura dei cadaveri dei defunti, l’arcivescovo ordinò che fosse riattato dove serviva, vietando di ampliare la superficie destinata alle sepolture, pena l’interdizione ecclesiastica.
La fonte dell’acqua benedetta era situata al lato sinistro ed era costruita “ex lapide diversorum colorum cum sustentaculis ferreis”. Alla sinistra dell’altare maggiore erano state iniziate quattro cappelle, tutte appartenenti alla “Societatis SS.mi Sacram.ti”, due delle quali si trovavano “in bona for.a reductae” e le restanti due “designatae”.
Al lato destro della chiesa, era esistita nel passato una “Capella” sotto l’invocazione di “S. Gregorii Papa” la cui “Imago seu Icona depicta in tela” era ora conservata in sacrestia. Questa cappella era di iurepatronato di Gregorio Bruno e ne era rettore il Rev.s Dom.cus Gallo di S. Mauro, con l’onere di celebrare quattro ebdommade. Considerato ciò, si ordinava al rettore che rifacesse la cappella in una di quelle quattro iniziate dalla “Societas” del SS.mo Sacramento, pagando il competente prezzo per la fondazione. Disponeva, inoltre, il sequestro dei frutti del beneficio di quell’anno, assegnandoli per la instaurazione della detta cappella. Nella stessa cappella esisteva un legato con un monte di circa novanta ducati, lasciato in favore di una “puella” della famiglia Bruno che fosse andata in sposa durante l’anno. L’arcivescovo ordinò che entro due giorni, sia l’attuale procuratore D. Ferdinando Riccio che i suoi predecessori del decennio precedente, dovessero mostrare di aver adempiuto a tale onere, pena la scomunica “Latae Sententiae”.
Poiché fu accertato che per diversi anni, l’elemosina predetta era stata assegnata alle spose della famiglia Bruno “ante tempus percept.nis redituum dicti Montis nuncupati S. Gregorii”, e che tale assegnazione anticipata aveva creato litigi e confusione, l’arcivescovo comandò che nel proseguo dell’anno non si facesse più alcuna assegnazione, cancellando ed annullando quelle già fatte. L’arcivescovo dispose, inoltre, che se negli anni a venire, si fosse presentata la situazione in cui più “puellarum nobilium” della famiglia Bruno si fossero sposate nell’arco dello stesso anno, il nome delle pretendenti alla dote, sempre che fossero state maggiori di quattordici anni, si sarebbe dovuto sorteggiare nel giorno della “Nativitatis B. Mariae”, attraverso “schedulis” riposte nell’ “Urna”, alla presenza del vicario foraneo, dell’arciprete e del procuratore pro tempore della chiesa, concedendo la detta dote alla prima estratta.
Dato che la chiesa possedeva due campane di mediocre grandezza poste “supra Portam maiorem dictae Ecc.ae”, l’arcivescovo dispose che, “quando fuerit completa fabrica d.ae Ecc.ae”, queste si sarebbero dovute riporre in un altro luogo designato allo scopo da parte dell’arcivescovo stesso.
San Nicola dei Greci
Lo stesso quattro di ottobre, “post Prandium”, la visita dell’arcivescovo Falabella continuò presso la chiesa parrocchiale sotto il titolo di “S. Nicolai de Graecis” posita “in Medio dicti Oppidi”, di cui era rettore il reverendo D. Salvator Gardo. Entrato nella chiesa, l’arcivescovo si diresse all’altare maggiore posto nella parte orientale dell’edificio, che rinvenne ornato con tre tovaglie, “Lapide Sacrato”, “Carta Secretorum”, croce, sei candelabri d’argento, e coperto da un pallio “ausi pellis” vetusto. L’arcivescovo ordinò di provvedere l’altare di un nuovo pallio di seta, e poiché il rettore asserì che la chiesa possedeva una veste di seta di diversi colori, donata da una “Devota Muliere”, dispose che con quella si facesse un nuovo pallio entro il termine di un mese, oppure ne fosse acquistato un’altro.
Ogni domenica nella chiesa si celebrava la messa per i parrocchiani mentre, negli altri giorni festivi, si soleva celebrare per soddisfare gli altri oneri. Considerato però che “de Iure Parochi”, anche in occasione di tale ricorrenza, la chiesa era tenuta a celebrare la messa che i parrocchiani erano obbligati ad ascoltare, l’arcivescovo ordinò che in futuro, si celebrasse la messa tanto alla domenica che in occasione degli altri giorni festivi, “occurrentibus infra hebdommada applicando Sacrificium pro benefactoribus Vita defunctis”.
La chiesa, inoltre, aveva l’onere di celebrare tre ebdommade che erano tutte celebrate dallo stesso rettore: una per l’anima del quondam R.s D. Joanne Andrea Romani, un’altra per l’anima della quondam Elisabetta Callea, una per l’anima del quondam Francesco Commeriati, un’altra per l’anima di Luca Romano, e le restanti due per l’anima del quondam D. Joanne Leotta. Minacciando la “suspensionis à divinis ipso facto”, l’arcivescovo comandò che, entro otto giorni, fosse predisposta una tabella che riportasse tanto tali oneri, quanto quelli della “Cappellae Sanctae Mariae Pietatis”, e che tale tabella fosse appesa in sacrestia. L’arcivescovo ordinò, inoltre, che nella sacrestia, fosse tenuto un “librum Cartae Albae” nel quale si sarebbero dovute annotare le singole messe celebrate giornalmente nella chiesa, sia da parte del rettore che dagli altri sacerdoti.
Nella parete dell’altare maggiore, dalla parte orientale, vi era una “Icona” che raffigurava la “B. V. et Sanctorum Nicolai Ep(iscop)i et Apostolorum Philippi, et Jacobi, depicta in Tela”, e sopra questa vi era un “Baldachinum ligneum”.
Quindi, l’arcivescovo passò a visitare l’altare, o “Capellam”, sotto l’invocazione di “S. Mariae Pietatis”, posta al lato destro dell’edifico e “sub regimine Societatis vulgo d.o Monte di Morti” di cui, al presente, era rettore D. Salvatore de Maida. L’arcivescovo rinvenne l’altare ornato di tutto il necessario con una “imagine” della Beata Vergine dipinta su tela. Sotto pena della scomunica, l’arcivesco ordinò che da parte del procuratore del detto Monte, gli fossero mostrati i conti dell’amministrazione annuale degli ultimi dieci anni, ammonendo che in futuro, sia da parte del procuratore annuale che da parte dei due razionali eletti dai confrati, si dovesse rendere conto nelle mani del rettore della chiesa. Egli ordinò, inoltre, che fosse esibita davanti a lui anche la “constitu.nem vulgo dicti Li Capitoli” della confraternita.
Nei confronti dei confrati, la chiesa aveva l’onere di celebrare ogni “Fer(i)a 2.a”, una messa cantata con l’interevento di tutto il clero di Policastro, in favore della quale si pagava una elemosina di 5 carlini. Un’altra messa cantata era celebrata in occasione della morte di uno dei confrati con “Nocturno defunctorum” e quindici messe. La chiesa, inoltre, aveva l’onere di celebrare tre ebdommade in perpetuo: una per l’anima del quondam D. Andrea Romano, un’altra per l’anima di Elisabetta Callea e la terza per l’anima di Laura Romano, le cui elemosine erano corrisposte ogni singolo anno da Michaele Callea, da Joanne Petro Faragò e dal R.s D. Joanne Ant.o Leuci. Le rendite della cappella assommavano a dieci ducati, dei quali, cinque li pagava Joanne Petro Faragò e gli altri cinque D. Lupo Ant.o Confluenti e D. Julio Riccio.
L’arcivescovo passò quindi, alla visita della sacrestia. Qui, in una “Arca lignea”, furono rinvenuti: un calice con il piede di ottone ed il vertice d’argento dorato dentro e fuori, con “velis Corporalibus” ed altre cose necessarie, due “Albas”, quattro casule, o pianete, di diversi colori e due messali. Il pavimento della sacrestia si presentava “effossum” nella sua parte destra, mentre le pareti si presentavano rovinate dal fumo per i fuochi accesi dai delinquenti fuggitivi, che in diverse occasioni e per lungo tempo, vi avevano trovato rifugio. L’arcivescovo ordinò quindi che entro due mesi, le pareti fossero imbiancate, e per evitare ulteriori danni ed inconvenienti futuri, dispose, sotto pena della scomunica, che nessuno potesse abitare in chiesa, o nella sacrestia, per più di tre giorni, altrimenti, con “licentia” dell’arcivescovo, coloro che avessero contravvenuto sarebbero stati estratti dalla chiesa e portati in carcere.
Si giunse quindi alla visita del fonte battesimale, posto al lato sinistro della porta maggiore della chiesa, che fu rinvenuto ben disposto. L’arcivescovo ordinò che, entro dieci giorni, nella parete sopra di esso, fosse posta una “Statuam seu effigem S. Joannis Bap(tist)ae Christum baptizantis”. Furono quindi visitati gli “olea Sacra” che si trovavano riposti nella parete alla destra dell’altare maggiore, ben disposti e puliti.
A causa della sepoltura dei cadaveri, il pavimento della chiesa si presentava molto “effossum”, al punto che l’arcivescovo comandò che fosse riattato nelle parti che ne avevano bisogno entro otto giorni, mentre, sotto la minaccia dell’interdetto ecclesiastico, proibiva di proseguire nella sepoltura dei cadaveri senza prima aver ricevuto una espressa licenza per iscritto. L’arcivescovo dispose, inoltre, che le pareti della chiesa fossero pulite dalle “Fuliginibus”, e che fossero imbiancate e che, entro un mese, il tetto fosse riparato nelle parti che lasciavano passare la pioggia, pena il pagamento di dieci libre di cera bianca elaborata “piis Usibus”.
Santa Maria la Magna
Il giorno seguente, cinque di ottobre, l’arcivescovo visitò la chiesa parrocchiale “vulgo detta la Magna”, posta “in loco detto il Castello”, di cui era rettore D. Dom.co Cepale. Ascoltata la messa, l’arcivescovo visitò l’altare maggiore, posto nella parte orientale dell’edificio “à conspectu Portae Maioris”, al quale si accedeva salendo due gradini “cum bradella”, e lo trovò coperto da un pallio di seta bianca, con tre tovaglie, otto candelabri d’argento, “Carta Secretorum”, croce, e “Lapide Sacrato separato à tabula lapidea”, che l’arcivescovo comandò che fosse infissa al suo posto entro il termine di un mese. Alla parete si trovava una “Icona depicta in tela”, raffigurante le immagini della “B.V. in Coelum assumpae, et Sanctorum Apostolorum”. L’arcivescovo comandò di “provideri de Tabella Evangelii S. Joannis”, mentre al parroco fu ingiunto di presentare le bolle comprovanti i suoi titoli che quest’ultimò presentò nella successiva “Visitat.e Personali”.
La chiesa aveva l’onere di celebrare alla domenica e nei giorni festivi, quando il popolo era tenuto ad ascoltare la messa. Il parroco aveva inoltre l’onere di celebrare trenta messe all’anno per la famiglia de Cola, altre venti per l’anima del quondam Joanne Andrea de Strongolo, una ebdommada per la famiglia de Venturis, e dodici messe all’anno per l’anima di Floris Rosa Venturi. L’arcivescovo dispose che tali oneri fossero riportati in tabella e che questa venisse appesa in sacrestia.
Le rendite della parrocchiale ascendevano a circa trenta ducati all’anno che pagavano i “Colonos d.ae Parochiae”, alla ragione di “modium unum Frum.ti pro singulis Iugis Bovum ultra incertos”.
Al lato destro della chiesa vi era un “Altare denudatum cum Statua lapidea antiqua S. Antonii Abbatis” di iurepatronato della famiglia Venturi. L’arcivescovo comandò che entro l’anno, fosse ornato del necessario pena la privazione del patronato, vietando a chiunque la celebrazione pena l’interdizione.
Quindi l’arcivescovo passò alla visita del fonte battesimale che si trovava al lato sinistro della chiesa, vicino la porta maggiore, rinvenendolo ben disposto. L’arcivescovo dispose che il “Sacrarium in quo proiicitur Aqua post Lavacrum Puerorum”, fosse chiuso con “tabula et Clave” entro il termine di un mese affinchè altri non potessero accedervi.
L’arcivescovo passò quindi a visitare la sacrestia posta alla sinistra dell’altare maggiore che trovò “quassatam” a causa del terremoto, e che comandò di riedificare “in meliori for.a” entro il termine di un anno. Visitò quindi le “supellectila” che erano conservate nella sacrestia: una pianeta di seta bianca, altre tre di diverso coloro vetuste, consunte e lacere che l’arcivescovo ordinò di non usare più, sostituendole con altre di diverso colore entro tre mesi, tre “Albas”, un calice con la sua patena, che l’arcivescovo ordinò di dorare entro un mese, ed un messale che l’arcivescovo ordinò di riattare.
L’arcivescovo ordinò anche di imbiancare i muri vetusti e rovinati della chiesa e di sistemare il suo pavimento in molte parti “effossum”. Egli, inoltre, considerato che da due “finestris” poste su entrambi i lati dell’altare maggiore, passava il vento che disturbava il celebrante, con il pericolo di far volare l’ostia dall’altare durante la celebrazione, ordinò che alle dette finestre venisse posta della “tela linita cum cera”. La chiesa possedeva tre campane di cui due si trovavano appese alla sua parete anteriore mentre, l’altra, si trovava gettata in terra. L’arcivescovo ordinò che quest’ultima fosse posta vicino alle altre.
San Jacobo
Lo stesso giorno la visita arcivescovile proseguì presso la chiesa sotto l’invocazione di “S. Jacobi”, posta “à parte superiori dicti oppidi”, fondata, edificata e dedicata dal quondam Jacobo Aquila. L’edificio fu rinvenuto rovinato dal fumo e con l’altare “denudatum”, mentre si asseriva che la chiesa fosse stata interdetta dall’arcivescovo Paravicino, predecessore dell’attuale.
Per lungo tempo vi avevano abitato alcuni delinquenti rifugiati, che l’avevano profanata trasformandola in “cochinam” ed abitazione comune. Ciò udito ed ispezionato il luogo, l’arcivescovo decretò che tanto i rifugiati nella chiesa profanata ed interdetta, che quelli presenti nella “domus contiguas” alla detta chiesa, non avrebbero potuto godere dell’immunità ecclesiastica.
Considerato che il predetto D. Jacobo Aquila, fondatore e dotatore della detta chiesa, aveva legato il suo ampio patrimonio ascendente a circa sessanta ducati con l’“onere celebrandi Missas”, così da poter pagare i divini offici ed affinchè fossero dotate le giovani spose, l’arcivescovo ingiunse ai procuratori testamentari: il Rev.s D. Sanctus de Pace e Michaele de Aquila, sotto pena della scomunica latae sententiae, di esibire i documenti relativi agli adempimenti relativi al detto legato, nonché di esibire “in autentica for.a”, la copia di detti legati “seu Donationum” fatti dal detto D. Jacobo.
Santa Caterina
La visita proseguì presso la chiesa di “S.tae Catherinae Virginis et Martiris sub regimine Confratruum aedificatam à latere dextro in parte inferiori dicti oppidi”. Entrato nella chiesa, l’arcivescovo visitò l’altare maggiore, sito dalla parte settentrionale di detta chiesa e lo rinvenne coperto con un pallio di seta bianca, corredato con sei candelabri di legno e con gli altri ornamenti necessari. Sopra il detto altare si trovava la “statua ex stucco” dorata di Santa Caterina.
L’arcivescovo ordinò ai confrati che da parte dei procuratori che avevano detenuto l’amministrazione, fossero esibi i conti relativi all’ultimo decennio. La chiesa aveva l’onere di celebrare otto ebdommade: due per le anime detenute in purgatorio per legato del Rev.s D. Joanne Baptista Favaro, una messa per l’anima di Michaele Arcomanno, un’altra messa per le anime di Decio Blasco e Petro Paulo Durso, un’altra messa per l’anima del quondam Angelo Cropanese, un’altra per l’anima di Joanne Battista Serra, un’altra per l’anima di Vespesiano Blasco, trenta messe all’anno per l’anima di Fran.co Antonio Blasco ed un’altra ebdommada per l’anima del quondam Fran.co Antonio Salerno.
L’arcivescovo visitò la sacrestia “seu Chorum” dove furono rinvenuti: quattro “Albas”, sei casule “seu Planeta” di seta di diversi colori, di cui due di colore bianco e due nere rinvenute lacere, furono mandate a rammendare e l’arcivescovo ordinò di non usarle. Considerata la mancanza di “amicti”, l’arcivescovo comandò di reperirme due nuovi da benedire entro un mese. Egli trovò anche due messali e tre calici con il piede di ottone e vertice d’argento dorato, di cui due mancanti di patena, ed ordinò di provvedere la chiesa di due nuove patene entro il termine di due mesi.
Il pavimento del coro si presentava “effossum”, per cui l’arcivescovo comandò di livellarlo e di fare delle aperture entro due mesi. Quindi l’arcivescovo visitò la “Capellam” “sub regimine Confratruum eiusdem Ecc.ae S. Catharinae” sotto l’invocazione di “S. M. Montis Carmeli”, posta alla destra dell’altare maggiore. Qui egli trovò l’altare coperto da un pallio di tela dipinta con l’immagine della stessa B.M.V., tre tovaglie, “Carta Secretorum”, crocifisso, due candelabri “auro celatis” e “Lapide Sacrato”, che il presule comandò di livellare e modificare nel predetto altare affinchè non sporgesse in alto. L’arcivescovo visitò le “sepulturas” che trovò sporgere dal pavimento e comandò di eguagliarle al piano del pavimento entro il termine di due mesi ed altrimenti, passato questo tempo, di non procedere più a seppellire.
Il “Pavimentum” fu trovato ben disposto con il tetto coperto da “tegulis”, ma entrambe le porte piccole furono rinvenute rotte e l’arcivescovo ordinò di rifarle nuovamente con “tabulis castaneis”.
A questo punto della visita, comparve il Rev.s D. Scipio Callea parroco della chiesa di “S. Petri”, asserendo che la predetta chiesa di S.ta Caterina era stata edificata “in Solo Ecc.ae dirutae Parochialis S. Petri cum eiusdem lapidibus et aliis materialibus”, in forza del decreto emanato dall’arcivescovo Fausto Caffarelli durante la sua visita del 26 ottobre 1641, senza pregiudizio per i diritti della mensa arcivescovile di Santa Severina e della chiesa parrocchiale.
In relazione a ciò, all’interno della chiesa di Santa Caterina, era stato edificato un altare in onore di S. Pietro, dove apporre l’immagine dello stesso santo che, al presente, si osservava alla destra dell’altare maggiore, presso cui si esercitavano tutte le funzioni parrocchiali della chiesa di S. Pietro. Presso tale altare che era provvisto di tutto il necessario, erano ascoltate le confessioni, era impartita la dottrina cristiana durante i giorni festivi, erano pubblicati i matrimoni ed, in genere, si faceva tutto ciò che, nel passato, era stato fatto nella chiesa di S. Pietro “priusquam dicta Ecc.a S. Petri fuisset diruta à terraemotu”.
L’arcivescovo comandò che l’altare fosse edificato entro due mesi, alla sinistra dell’altare maggiore, “in medio fornicis” ed a cospetto di quello di S.ta Maria di Monte Carmelo, provvedendolo di tutto il necessario, in maniera da potervi celebrare in occasione della prossima festa di Natale. Considerato poi che vi erano due “Campanulae” appartenute alla parrocchiale di S. Pietro, l’arcivescovo ordinò che, assieme ad altro metallo sufficiente, queste fossero fuse per realizzare una nuova “Campanam maioris magnitudinis”, da utilizzare tanto per le funzioni parrocchiali che per quelle della confraternita.
Considerato poi che nella chiesa non vi era una sedia confessionale, fu comandato al parroco di provvedere entro due mesi, facendone fare una nuova da collocare “in loco patenti sub fornice à parte sinistra”, dove apporre anche “Casos reservatos et Bullae Coenae”, ammonendo di non ascoltare confessioni lontano dalla detta sedia, eccetto nel caso di infermi, sacerdoti e chierici, sistemando anche opportune “Crates seu Cancelli arcti” in maniera che nessuno potesse metterci le mani. La chiesa aveva l’onere di celebrare la domenica e negli altri giorni festivi di precetto nei quali il popolo era tenuto ad ascoltare il “Sacrum”.
L’Annunziata
Il sei di ottobre, proseguendo la propria visita, l’arcivescovo Francesco Falabella entrò nella “Ecc.m SS.mae Annunciat.nis positam a latere dextro à parte superiori dicti Oppidi sub regimine Confratruum”, recandosi a visitare l’altare maggiore, che rinvenne coperto da un “pallio serico coloris albi”. Qui trovò anche tre tovaglie, quattro candelabri “et Cruce aeneis, et Aliis duobus statuis parvulis Angelorum ceroferaria gestantium et aliis ornam.tis necessariis”.
Sopra detto altare si trovavano la “statua marmorea B.M.V.”, oltre alle “Imagines” dei santi “Joannis Bapt(ist)ae Praecursoris” e “Joannis Evangelistae”. Nella parte superiore dell’altare, si trovava anche la “Imago” della “B.M.V. et Beatorum Franc.i et Antonii” mentre, alla sua sinistra, vi era la “Imago S. M. Pietatis S. Fran.ci in quibus cernuntur depictae imagines eorum, qui dictas Iconas fieri curaverunt”. Poiché ciò era proibito dalla “S. Congregat.e Rituum”, l’arcivescovo dette mandato “per Pictorem aliquem cassari et deleri, ita ut amplius non cernentur infra Mensem, alias amoveantur à d.o loco, et in Sacristia ponantur”.
L’onere delle messe, era costituito da 120 messe all’anno per l’anima del q.m D. Joanne Dom.co Fiorillo, una ebdommada per l’anima del q.m Fabio Rotundo, una ebdommada per l’anima del q.m Salvatore de Cola, venti messe all’anno per l’anima del q.m Dom.co Zagaria, trenta messe all’anno per l’anima del q.m Antonio Curcio, due ebdommade per l’anima della q.m “Sororis” Lucrecia Corigliano ed una ebdommada per le anime del q.m Joanne Laurentio Coroliani e del q.m Joanne Baptista Collura. L’arcivescovo, minacciando la “Suspensionis a divinis”, ordinò a D. Joanne Andrea Alemanno affinchè, entro sei giorni, compilasse una “tabellam veram, realem et distinctam”, di tutte le messe che si dovevano celebrare nella chiesa, tanto nell’altare della SS.ma Annunziata che “in Aliis duobus Altaribus”, affichè dopo essere stata vagliata dallo stesso arcivescovo, fosse appesa in sacristia. La tabella fu effettivamente esibita due giorni dopo.
Quindi, l’arcivescovo passò alla visita dell’“Alt. SS.mi Rosarii positum à latere dextro Altaris Maioris in quadam Cap.a sub Fornice dealbata”, che rinvenne ornato e munito di tutto il necessario. L’arcivescovo dispose che entro un mese, fosse sistemato nell’altare un “lapis sacratus”. La “Cappella” si trovava “sub rigimine Confratruum” che, nella prima domenica di ogni mese, “post Vesperas”, preceduti dal clero e dalla croce, facevano una processione “circa Ambitum Ecc.ae”. L’altare aveva l’onere di celebrare la messa solenne cantata “ex devot.e”, nel giorno della festa del SS.mo Rosario e nei singoli giorni festivi di ogni mese, nonché nelle quattro “Festivitatibus solemnibus B.M.”.
Successivamente, l’arcivescovo passò alla visita della “Capellam S. Jacobi positam à latere sinistro d.ae Ecc.ae sub Fornice dealbata de asserto Iure Patronatus de familia de Aquila”. L’arcivescovo ordinò che, entro tre giorni, gli venissero presentati dal R.s D. Sanctus de Pace i documenti “de Fundat.e” e le “bullas suae Institut.ni”, cosa che avvenne “in Visitat.e personali”. L’altare fu trovato ornato e munito di tutto il necessario, ma mancante di una “nova Carta Secretorum”, per cui fu dato mandato al rettore di provvedere entro quindici giorni. Entro il termine di due mesi, fu disposto invece di provvedere a fare indorare la “pars Columnae ex lapide posita à parte dextra dicti Altaris”, sotto pena del pagamento di dieci libre di “cerae albae”.
Il predetto D. Sancto de Pace aveva l’onere di celebrare tre ebdommade nel detto altare per l’anima del fondatore. Considerato però che, secondo quanto asseriva il rettore, a causa di un “morbo Nervorum”, la celebrazione delle messe non aveva ancora avuto luogo, l’arcivescovo ordinò che entro tre giorni, fosse soddisfatto tale onere, sotto pena del pagamento di 25 libre di cera bianca “elaboratae”. Considerato, inoltre, che vi erano certamente altri oneri di messe oltre questi, l’arcivescovo ordinò ai RR.s Communeriis D. Joanne Baptista Pollaci e D. Julio Rizza i quali, “per turnum”, erano solitamente deputati a distribuire l’onere delle messe che, entro tre giorni, consegnassero nelle mani dell’arcivescovo una nota di tutte le messe con ogni singolo onere, tanto relativo alla cappella che alle altre chiese. La nota fu prodotta due giorni dopo.
La chiesa era dotata di una “Sacristiam positam à parte posteriori Altaris Maioris”, nella quale erano conservati i “Vasa Sacra” con vari ornamenti sacerdotali. L’arcivescovo vi rinvenne quattro calici, di cui uno dorato e quattro messali, due nuovi e due vetusti. Egli ordinò, entro due mesi, l’acquisto di un nuovo calice “cum Patena” e dispose la compilazione di un inventario relativo ai beni mobili della chiesa, da produrre entro il termine di quattro giorni.
Da tale inventario apprendiamo che la chiesa possedeva una “Planeta cum Cappa et Dalmaticis”, un “Palleum albi coloris” di tela argentea, un’altra “Planeta” di seta “auro contexta”, due altre pianete di damasco di colore bianco, un’altra “Planeta” di raso rosso con “Cappa” e “dalmaticis” dello stesso colore, un’altra “Planeta” di colore ceruleo e di tela argentea, un’altra “Planeta” di damasco di colore verde, un’altra “Planeta” di damasco di colore violaceo, un’altra “Planeta” di velluto di colore nero ed altre sette bianche, un “Pallium Altaris” di damasco verde, un altro pallio rosso “vulgo d’imbroccato”, un pallio di seta violaceo, un “Vexillum” di damasco rosso “auro linitum cum imagine in medio SS.mae Annunciat.nis” ed un “Turribulum et Navicula” d’argento di sedici palmi detti volgarmente “d’Arprolino”.
I redditi della chiesa erano costituiti dal possesso di un “Molendinum in loco qui dicitur il Molinello”, confinante con i beni di Joanne Foresta e Joanne Dom.co Rizza, dal quale si percepivano, considerate le spese, “modia” venti di frumento, e dalle elemosine che solevano fruttare ducati quindici all’anno, che si spendevano per il necessario della chiesa. L’arcivescovo ordinò che il procuratore della chiesa consegnasse nelle sue mani entro otto giorni i conti dell’ultimo decennio. L’ordine fu eseguito. L’arcivescovo ordinò, inoltre, di rinnovare il pavimento della chiesa con “Calce, et cimentis” entro sei mesi. Come suo ultimo atto egli visitò la “Turrim Sacram” della chiesa, nella quale si trovavano quattro campane.
Santa Maria delle Grazie
Proseguendo la sua visita, il giorno sette di ottobre l’arcivescovo visitò la chiesa di “S. Mariae Gratiarum” dove, ascoltata la messa, rinvenne l’altare posto dalla parte occidentale dell’edificio, trovandolo ornato con un “pallio laneo” di colore rosso, tre tovaglie, “Carta secretorum”, due candelabri di legno e croce. Considerato che l’altare era troppo basso, l’arcivescovo comandò che vi fosse sistemato un “lapidem”, in maniera che l’altare raggiungesse, perlomeno, la misura di “unius pedis” “ad basem Columnarum”, ed ordinò che in esso fosse infisso un “Lapis Sacratus” entro il termine di un mese. Nel documento la disposizione risulta impartita nei confronti del chierico Francesco Cavarretta, “Cui commendavit curam p(raedi)ctae Ecc.ae”, il cui nome però risulta cassato con una riga.
L’arcivescovo comandò, inoltre, di dorare il calice e la patena entro e non oltre il termine di quindici giorni. Sopra l’altare vi era l’icona dipinta su tela “cum Imaginibus B. M. Gratiarum Sanctorum Petri, Blasii, et Atanasii”.
La chiesa aveva l’obbligo di celebrare la messa alla domenica e nei singoli giorni festivi, mentre le elemosine necessarie erano pagate usando le sue rendite che ascendevano a circa ducati undici e mezzo annui. Di questa somma, ducati cinque si percepivano dalla locazione di una casa, altri ducati cinque da un censo che pagavano gli eredi del quondam Joanne Berardino Accetta, mentre altri quindici carlini di censo li pagava Joanne Cervino.
Poiché la chiesa si trovava debitrice nei confronti di Joanne Guarano per la somma di ducati dieci a causa di un “censu decurso” e di altri ducati sette “in circa” nei confronti di Joanne Dom.co Cervino per un altro “censo decurso”, l’arcivesco comandò, sotto pena della scomunica “maioris”, che tali somme fossero pagate ai creditori entro tre giorni da parte del procuratore della detta chiesa che, per i poteri di Joanne Baptista Cerasaro, fu eletto il clerico Fran.co Cavarretta.
In un’arca di legno conservata nella chiesa, furono trovati: una casula o pianeta di seta bianca, due “Albae”, un messale vetusto che l’arcivescovo ordinò di sostituire con uno nuovo entro il termine di un anno e cinque tovaglie per uso dell’altare.
Per ciò che riguardava la struttura dell’edificio, l’arcivescovo comandò che entro un mese, si riparasse il tetto “in medio” e nelle altre parti dove ciò si rendeva necessario, per evitare che piovesse all’interno della chiesa e di costruire una nuova porta sul lato sinistro dell’edificio “in medio d.ae Ecc.ae”.
Santa Maria li Francesi
Lo stesso giorno, la visita dell’arcivescovo continuò presso la chiesa di “S. Maria vulgo Li Francesi”, dove visitò l’altare posto nella parte orientale dell’edificio, coperto da un pallio di seta di colore rosso con tre tovaglie, comandando che venisse infisso e fabbricato un “Lapide Sacrato”. Qui egli riscontrò la presenza di “Carta Secretorum”, “Tabella Inprincipii”, croce e quattro candelabri di legno. Sopra l’altare vi era una “Icona in tela depicta cum Imaginibus B.M.V. S. Elisabeth, et Sanctorum Joachim, et Joseph” mentre, sopra questa, si trovava un baldacchino di legno.
La chiesa aveva l’onere di celebrare due ebdommade, una per l’anima del quondam Joanne Baptista Zurli seniore e l’altra, per l’anima del quondam Livio Zurlo, mentre le elemosine relative a dette messe erano pagate annualmente da Joanne Baptista Zurlo. La chiesa non aveva alcuna rendita. In una arca di legno conservata al suo interno, furono trovati: una pianeta di seta rossa, una “Alba”, un calice con patena e con i suoi ornamenti ed un messale.
L’Annunziata Vecchia
Lo stesso sette di ottobre, dopo aver visitato le chiese di S.ta Maria delle Grazie e di S.ta Maria li Francesi, l’arcivescovo Falabella giunse a visitare la “Ecc.am S.tae Annunciationis veteram positam extra moenia dicti Oppidi à parte inferiori”, dove si inginocchiò e pregò. Quindi visitò l’altare “positum à parte occidentali”, ornato con un pallio di seta bianco. Questo era corredato con tre tovaglie, “Lapide Sacrato”, “Carta Secretorum”, “Tabella Inprincipii”, quattro candelabri dorati vetusti, due altri “argentocelatis” vetusti ed un crocefisso.
Nella parete sopra l’altare vi era la “statua ex stucco SS.mae Annunciat.nis cum icona lapidea, et duobus columnis depictis variis coloribus”, mentre, alla destra dell’altare, vi era la “statua lignea S. Fran.ci de Paola” e alla sinistra, la “statua ex stucco S. Leonardi”. L’arcivescovo ordinò di realizzare ed apporre sopra l’altare un “Baldachinum ex tela depictum” entro il termine di due mesi, sotto pena del pagamento di dieci libre di cera bianca lavorata. Egli, inoltre, ordinò di accomodare i “Grados circa Altare” entro lo stesso termine.
La chiesa aveva l’onere di celebrare sessanta messe per l’anima di Petro Elia, una ebdommada per l’anima del q.m D. Dom.co Palaczo “et sororis”, una ebdommada per l’anima dei benefattori, una messa per l’anima della q.m Ippolita de Luca e dieci messe all’anno per l’anima del q.m Scipione Romano. I redditi della chiesa ascendevano alla somma di venti ducati all’incirca che provenivano dalle elemosine. La chiesa possedeva cinque vacche.
Nella sacristia furono rinvenute cinque pianete di seta di diversi colori: due bianche di cui una vetusta e lacera, un’altra nera, due altre di colore violaceo. Si trovarono anche due pianete bianche, un calice con patena con i suoi ornamenti e due messali.
Alla fine della sua visita, l’arcivescovo ordinò di sistemare il pavimento della chiesa “effossum” e di accomodare il “Vas Acquae lustralis”, posto “in Pariete inferiori à parte dextra Portae Maioris”. Fu annotato che il tetto della chiesa era coperto da tegole ed era dotato di un soffitto a cassettoni (“laqueare”) di legno, mentre, nel campanile, si trovava una “Campanula”.
Santa Maria del Soccorso
All’indomani, otto ottobre, l’arcivescovo passò alla visita della chiesa chiamata “S. M. del Succurso”, posta fuori le mura di Policastro “per statium medii miliarii”, dove ascoltò la messa e visitò l’altare posto nella parte occidentale dell’edificio, che rinvenne coperto con un pallio di seta di diversi colori, corredato con tre tovaglie, “Carta Secretorum”, croce, sei candelabri di legno e “Lapide Sacrato”. L’arcivescovo ordinò di uniformare il piano dell’altare in maniera tale che non eccedesse nel mezzo ed inoltre, ordinò che vi fosse infissa una “tabula Lapidea”.
Qui, l’arcivescovo trovo la “Icona devote depicta in tela cum Imagine B. M. vulgo detta del Succurso, ac Imaginibus S. Blasii Martiris, et S. Apolloniae Virginis”, mentre sopra l’altare si trovava un baldacchino di legno dipinto.
La chiesa non aveva alcun onere di messe ma vi si celebrava alla domenica per devozione, grazie alle elemosine dei fedeli che erano raccolte dal procuratore della chiesa Dom.cus Ammannato. Dalla vendita di alcune vacche che erano state donate alla chiesa, detto procuratore si trovava in possesso della somma di ottanta ducati, che l’arcivescovo dispose fosse impiegata in un annuo censo. Le sue “Supellectile” erano costituite da un “Calicem carentem auro à parte interiore”, similmente alla sua patena, che l’arcivescovo comandò di non usare più e di dorare entro il termine di un mese, mentre dispose che fossero puliti ogni mese le “Mappas vulgo detti purificatori”. Per quanto riguardava invece l’edificio, comandò che fosse rifatta la finestra posta sopra la porta, che fosse sistemato il pavimento “effossum” e che fosse riparato il tetto nelle parti che ne avevano bisogno.
Santa Maria dell’Oliva
Il tredici di ottobre l’arcivescovo visitò la “Ecc.m S. Mariae nuncupatam dell’olive” che trovò spogliata di ogni ornamento necessario, con le pareti rovinate dal fumo fino al tetto, ridotta in abitazione e profanata dai delinquenti che vi avevano trovato rifugio, convertendola in “habitat.nem, et Coquinam”, dove erano tenute alcuni attrezzi: “Sellas, Cados per usu Aquae, Mortaciola per tendendis filiis Myrtorum, quoddam Vas ad conficiendum panem vulgo Maiilla”, assieme ad altre cose indecenti.
Considerato tale stato ed il fatto che nella chiesa non si celebrava più da oltre un decennio, l’arcivescovo, supponendo che su di essa gravasse l’interdetto perpetuo e considerato che era stata profanata sia da uomini che da donne, decretò che il luogo non avrebbe più potuto godere dell’immunità ecclesiastica fino a quando non fosse stato ripristinato, provvedendolo di tutte le cose necessarie, rinnovando il tetto, imbiancando i muri e murando l’“ostium” presente nella parte destra dell’edificio. Egli dispose, inoltre, che riguardo all’onere di una ebdommada, le messe fossero celebrate nella chiesa parrocchiale di S.ta Maria Magna, entro i cui confini era compresa la chiesa profanata.
A questo punto comparve davanti all’arcivescovo il notaro Fran.co Cerantonio che abitava vicino alla detta chiesa, offrendosi di ripararla raccogliendo le elemosine dei fedeli pii benefattori. Il notaro ricevette così dall’arcivescovo la “Licentiam quaestuandi, et reparandi” relativa alla detta chiesa, con l’obbligo di rendere annualmente conto delle offerte raccolte, nelle mani del vicario foraneo di Policastro. L’arcivescovo dispose inoltre, che la “Icona antiqua et denigrata” posta nella parete, il pallio vetusto di colore violaceo e i due candelabri di legno vetusti, fossero tutti insieme conservati nella chiesa parrocchiale di S.ta Maria Magna.
Note
[i] AASS, Fondo Arcivescovile, volume 37A.
Creato il 26 Febbraio 2015. Ultima modifica: 13 Settembre 2024.